[Cerchio] Caccia all' uomo: tutto ciò che non devi sapere

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Caccia all' uomo: tutto ciò che non devi sapere

di Filippo Schillaci

19 Maggio 2004 -- Un bambino in sala rianimazione con il viso perforato da
una scarica di pallini, una donna colpita da una fucilata nell’orto di
casa, un agricoltore trucidato mentre lavora nel suo campo all’imbrunire,
un ciclista ucciso mentre attraversa un bosco. E poi: fucilate su un
ospedale, bambini colpiti mentre giocano in giardino, un uomo sfigurato per
sempre da una scarica di pallini che gli ha portato via quasi mezzo viso...
sto citando a memoria, e potrei andare avanti ancora a lungo. E a memoria
di questi fatti ne ricordo solo una piccola, piccolissima parte fra quelli
che si sono verificati nei due ultimi anni. E che torneranno
inevitabilmente ad accadere da settembre in poi, fino al tramonto del 31
gennaio 2005 che porrà nuova, provvisoria, fine alla mattanza.

Non si tratta di quanto accade in una regione stretta nella morsa della
mafia ma delle cronache normali, quotidiane di quanto accade in un paese in
cui quasi 800.000 individui per cinque mesi all’anno si aggirano,
legalmente armati, per boschi e campagne sparando a volontà. “Seguendo
regole precise”, affermano; troppo spesso violandole tutte. Questo paese
non è l’Uganda percorso dagli squadroni della morte ma l’Italia, l’Italia
(e non soltanto essa, ovviamente) percorsa dagli squadroni dei cacciatori,
l’Italia insanguinata durante una normale, qualsiasi stagione di caccia.
Quanto insanguinata, ti chiederai? Dei morti non umani, dei milioni di
animali sterminati sadicamente ogni anno sai già parecchio, ne hai già
sentito e ancora ne sentirai parlare da più parti. Tutti ne parlano. E
giustamente. Ma come hai già capito è altro il sangue di cui parlo io: è
quello umano.

Quasi dieci morti al mese ha censiti l’EURISPES nel 2001 e altrettanti ne
ha censiti la LAC nel 2002. Ma i numeri assoluti, da soli, non dicono
molto. Per capire cosa essi significhino pensa che, fatte le opportune
proporzioni fra numero di cacciatori e numero di lavoratori, la frequenza
degli incidenti mortali di caccia è quasi 7 volte superiore a quella degli
incidenti mortali sul lavoro. E i morti sono solo la classica punta
dell’iceberg: tutto intorno, un numero quasi doppio di feriti e,
soprattutto, un numero mai calcolato, e non certo facilmente calcolabile,
di persone che nelle campagne italiane vivono per quasi metà dell’anno
letteralmente sotto l’incubo di una cappa di piombo. Che dice di tutto ciò
il legislatore? E’ molto semplice: nulla o poco più di nulla.

Accade infatti che, mentre la sicurezza sul lavoro è stata tema di intensa
e dettagliata attività legislativa, spinta fino al limite estremo - e
comprensibile - della pignoleria, la sicurezza nella legislazione sulla
caccia è affidata al puro e semplice obbligo, a carico del cacciatore, di
rispettare certe distanze da strade ed edifici e di stipulare una polizza
assicurativa per responsabilità civile, una situazione paragonabile a
quella che, in tema di sicurezza sul lavoro, era in vigore 100 anni fa.
Perché questo incredibile divario? Perché accade che io, cittadino
italiano, dal momento in cui metto piede in quello che è il mio posto di
lavoro, sono tutelato da una legge così dettagliata da definire non solo il
numero delle uscite di sicurezza, non solo la larghezza di ciascuna di esse
ma addirittura le tolleranze ammissibili su tale larghezza, e che giunge a
dare perfino la definizione di “larghezza” di una porta, mentre dal momento
in cui, abitando in campagna, esco di casa, al momento in cui giungo in
questo luogo iperprotetto nulla vieta che io sia sottoposto al tiro
“ludico” di altrui armi da fuoco?

Questa domanda non ha per me nulla di astratto: da anni essa fa parte
della mia concreta vita quotidiana di campagnolo. Dare a essa una risposta
è stata una faccenda un po’ lunga. Non difficile, lunga. Ma la risposta è
riassumibile in una singola frase: sottoporre la caccia agli stessi
standard di sicurezza obbligatori in ogni altro campo della nostra vita
significa porre a essa tali e tanti limiti da renderla di fatto vietata
nella quasi totalità dei casi. Ecco dunque il perché del silenzio quasi
totale del legislatore su questo argomento. E ciò, nonostante il fatto che
«è chiaro che l’attività venatoria può porre in pericolo la tranquilla
convivenza dei cittadini, la loro incolumità, particolari attività da
questi svolte, ecc. ecc.».

Chi ha scritto ciò? Non io, né un qualche redattore di una pubblicazione
ambientalista o animalista. Questa frase è tratta da un manuale di tecnica
venatoria della Federazione Italiana della Caccia. Aggiungo: del 1979,
ovvero di 13 anni anteriore alla vigente legge nazionale sulla caccia, che
è del 1992. E che di questa semplice, intuitiva constatazione, ripeto, non
ha recepito pressoché nulla. Ho detto del silenzio del legislatore, ma egli
non è il solo a tacere: posso dire senza esagerare che da quando mi occupo
di caccia, più esattamente di caccia e diritti dei cittadini, sono
diventato un collezionista di silenzi, dei meno suggestivi fra tutti i
silenzi del mondo: quelli dell’omertà.

Il silenzio dei politici innanzi tutto, attenti da una parte alla lobby dei
fabbricanti d’armi, che fra una guerra e l’altra “arrotonda” i propri degni
guadagni con gli introiti provenienti dal mercato della caccia, attenti
dall’altra a corteggiare quella piccola ma attiva fetta di elettorato che i
cacciatori sono. Perché c’è il fatto che per un cacciatore la caccia è una
sorta di religione: levagli il lavoro, la casa, la pensione, ma consentigli
di sparare, di uccidere, di massacrare un giorno di più all’anno e voterà
per te.

Poi c’è il silenzio dei giornalisti, i quali, sì, certo, riferiscono
puntualmente di ogni nuovo ferito, di ogni nuovo morto, ma ogni volta come
fosse il primo. Quando un comunicato stampa li pone di fronte alla totalità
del fenomeno, alla sua entità numerica, quando non si possono più
pronunciare le parole “fatalità”, “incidente” al singolare, ma la massa dei
cadaveri è visibile nella sua macabra completezza, quando i lamenti dei
feriti formano un coro, allora improvvisamente tutto sui giornali tace. E
infine c’è il silenzio più incredibile di tutti, il più sconcertante,
quello di coloro da cui ci si aspetterebbe che queste cose le urlassero a
gran voce, che le sbattessero in faccia all’opinione pubblica, che
schiacciassero, con il loro peso, le congreghe dei cacciatori sotto le
proprie responsabilità - gravissime - nei confronti di una società civile
cui da sempre non appartengono.

Parlo delle associazioni ambientaliste e animaliste, della maggior parte di
esse quanto meno, nei cui comunicati, nelle cui pubblicazioni, nelle cui
dichiarazioni tutto ciò di cui ti sto qui parlando sembra non esistere, non
essere mai avvenuto. Intanto, nel momento in cui scrivo, una caterva di
irresponsabili proposte di legge rischia di rendere l’incubo venatorio
ancora più nero: sparatorie libere da ferragosto a tutto febbraio, impunità
penale assoluta, diritto di penetrare (armati, non dimentichiamolo) nei
fondi altrui rafforzato... nuovamente sto citando a memoria, ma c’è anche
altro, molto altro. C’è quanto basta a trasformarci, come ha dichiarato
qualche tempo fa un dirigente della Confederazione Italiana Agricoltori, da
liberi cittadini a servi della gleba dei cacciatori. Mi correggo: a
renderci tali ancora di più, poiché già, di fatto, lo siamo. Una cosa è
certa: non accadrà senza ribellioni.

A Jano, frazione di Sasso Marconi, i cittadini uniti hanno ottenuto dal
sindaco un’ordinanza che espelle i cacciatori dalla loro frazione, in altri
luoghi vi sono state ordinanze analoghe, sia pur “a termine”; gli operatori
turistici cominciano a essere consapevoli che vacanze e fucilate sono due
realtà che si escludono a vicenda, molti agricoltori hanno smesso di
credere alla panzana del cacciatore che li protegge dai selvatici che
rovinano i raccolti... Non accadrà senza ribellioni.

E in conclusione potrei aggiungere: e badate che a me degli animali e della
tutela dell’ambiente non me ne frega nulla. Non lo faccio perché non è
vero, perché mi identifico totalmente in un’etica biocentrica e
antispecista, ma potrei farlo, senza con ciò nulla togliere a quanto ho
scritto fino a tre righe fa. Perché per essere contro la caccia, per
affermare che il libero uso di armi da fuoco sul territorio, liberamente
percorso da liberi cittadini, è una pura follia, non c’è alcun bisogno di
essere ambientalisti o animalisti. E’ sufficiente avere un minimo di buon senso.