[Forumlucca] La pace nell'urna (da Controvento n.8)

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Szerző: Laboratorio Marxista
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Da Controvento, n.8, marzo 2004
http://circoloiskra.freeweb.supereva.it/controvento/n.8/cv8.htm

LA PACE NELL'URNA

"Se oggi dovessimo accettare la violenza essa ammazzerebbe soprattutto noi
Per questo, io credo, dobbiamo liberarcene
facendo i conti interamente con la nostra storia"
Fausto Bertinotti

"Se permettete a qualcuno di camminarvi sulla testa senza fare niente,
non vi state comportando con intelligenza
e non dovreste stare su questa terra, né ci resterete a lungo"
Malcom X, L'ultima battaglia, discorsi inediti

Con questo intervento intendiamo aprire una riflessione sul dibattito aperto
recentemente da Fausto Bertinotti in merito ai fondamenti e alle prospettive
del suo partito. Auspichiamo che questo contributo possa stimolare un
dibattito costruttivo, esente da ambiguità ed opportunismi di comodo. Non ci
interessa e non ci è mai interessato, infatti, "coccolare" i compagni per
guadagnarne la simpatia personale con l'inconfessato obbiettivo di farne
qualche militante per il nostro progetto. Alla politica delle "coccole"
abbiamo sempre preferito la politica del confronto aperto, leale, duro
quando necessario, con l'obbiettivo confessato di costruire tutti i livelli
di collaborazione utili e possibili.
Il 13 dicembre 2003 il PRC ha promosso a Venezia un convegno dal titolo "La
guerra è orrore. Le foibe tra fascismo, guerra e Resistenza". La scelta del
tema [1] non è casuale: si parte dalla vicenda delle foibe perché la si
ritiene una parte indifendibile della storia dei comunisti, ma poi si punta
con decisione verso il vero obbiettivo che è quello di definire le nuove
coordinate storiche e toriche del PRC (o di quello che verrà dopo il PRC).
Nel convegno di Venezia Fausto Bertinotti ha parlato di fronte ad un numero
relativamente ristretto di militanti, ma in realtà aveva in mente una platea
molto più vasta che va ben oltre i confini dello stesso elettorato del PRC,
per arrivare sino ad alcuni settori del cosiddetto "movimento dei
movimenti".
Inviando il suo messaggio al partito e contemporaneamente oltre il partito,
Bertinotti ha ripreso di fatto il filo di una proposta politica già avanzata
alla vigilia del Forum Sociale Europeo del novembre 2002 e cioè quella della
costruzione di una "rappresentanza politica del movimento dei movimenti" che
avrebbe dovuto comportare anche il superamento dell'esperienza stessa del
PRC. Poi, di quella proposta politica non si è fatto più niente.
Il gruppo dirigente del PRC è convinto, a ragione, che il riferimento anche
solo formale al "comunismo" sia troppo angusto per interloquire con quegli
ampi settori di movimento che da tempo (ufficialmente, dopo il V congresso)
vengono indicati come il principale interlocutore sociale e politico del
partito e intende avanzare una proposta politica adeguata a questa
interlocuzione.
E siccome si ritiene che il largo movimento sviluppatosi nel 2003 alla
vigilia dell'aggressione imperialista all'Iraq abbia sedimentato una forte
connotazione pacifista, trasversale agli schieramenti politici dell'attuale
"sinistra", il PRC ha deciso di abbandonare progressivamente il riferimento
formale al comunismo, per abbracciare il riferimento programmatico al
pacifismo. Il pacifismo viene quindi ad essere il collante politico di
un'area estremamente variegata, altrimenti molto difficile da caratterizzare
politicamente.
In altra occasione sarà interessante sottolineare la natura di questo
richiamo al pacifismo e alla nonviolenza, che assomiglia un po' al desiderio
della piccola borghesia e dell'aristocrazia operaia dei paesi imperialisti
occidentali di godersi in santa pace i frutti economici e consumistici
ottenuti, in larga parte, attraverso lo sfruttamento dei popoli dei paesi
dipendenti. Questi settori non vogliono la guerra non tanto per ragioni
etiche (dato che si muovono con assai diversa determinazione a seconda del
colore politico del governo), quanto piuttosto perché temono che la guerra
sottragga risorse al loro "welfare state"; nello stesso tempo, non comprende
pienamente che in una situazione di stagnazione internazionale questo
"welfare state" lo pagano soprattutto i proletari dei paesi più poveri e che
la guerra, oltre ad essere strumento di conquista di aree geo-politiche e di
mercati delle merci, dei capitali e degli uomini, è lo strumento per
annientare ogni forma di resistenza al dominio delle principali potenze
industriali, dunque anche dell'Italia, membro del G8.
L'operazione politica del PRC (i cui tempi e modi non sono al momento
esattamente prevedibili perché dipendono da molti fattori, non ultimo
l'andamento e l'orientamento elettorale) ha una indubbia potenzialità di
consenso ed è in grado di intercettare una parte relativamente ampia
dell'elettorato "di sinistra" il quale, una volta superato lo scoglio del
riferimento al comunismo, può effettivamente avere molti meno problemi ad
appoggiare una organizzazione politica riformista, pacifista, ecologista...
che si batte per il miglioramento molecolare della qualità della vita dei
lavoratori nell'ambito di un sistema sociale che si ritiene non abbia più
alternative. L'"altro mondo possibile" altro non è, dunque, che questo mondo
depurato dalle forme più estreme e brutali di sfruttamento, cioè da quello
che viene definito "neo-liberismo".
Del resto non dobbiamo dimenticare che uno dei modelli politici di
riferimento del "movimento dei movimenti" è proprio quello proposto dal
presidente brasiliano Lula da Silva il quale, pur avendo suscitato molte
aspettative al Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre con le sue proposte di
bilancio partecipativo, una volta diventato presidente non ha potuto
soddisfare le richieste dei lavoratori e dei "sem terra" perché ha scelto di
nominare Ministro dell'Economia l'ex-capo della Confindustria brasiliana e
di continuare a pagare lo strangolante debito estero.
La costruzione di una "rappresentanza politica del movimento" rappresenta,
in realtà, un "piano B" rispetto alla proposta originaria dal PRC avanzata
nella fase precedente al V congresso.
Quella proposta consisteva, nella sostanza, nel tentativo di costruzione di
una forza "social-democratica" attraverso un asse privilegiato PRC-DS
alleato con i "centristi" del centro-"sinistra" posti tuttavia in posizione
subalterna.
Per dare gambe a questa proposta si rendeva necessaria la dissoluzione
dell'Ulivo come alleanza privilegiata DS-centristi (con il PRC alleato
"desistente" subalterno) e per questa ragione principale il PRC nel 1998
pose fine all'esperienza di governo di Romano Prodi - che peraltro durante i
due anni del suo mandato aveva mantenuto con il PRC un atteggiamento di
formale apertura e ascolto - spianando la strada a Massimo D'Alema, primo
ex-PCI alla Presidenza del Consiglio dei ministri, che avrebbe dovuto
completare l'opera di smantellamento dell'Ulivo con l'appoggio non solo il
PRC, ma anche di Mastella e Cossiga che infatti lasciarono il Polo per
sostenere il nuovo governo.
Come è noto, l'operazione non è poi riuscita, dato che le fibrillazioni
nella maggioranza, la crescita di consenso di quella che nel frattempo era
diventata la Margherita e le sconfitte elettorali dei DS hanno messo fino al
sogno dalemiano e hanno riproposto Romano Prodi come unica candidatura
elettoralmente vincente (o almeno così si dice).
A questo punto, con sulla testa la "spada di Damocle" del mancato
raggiungimento del quorum elettorale del 4%, il PRC ha finito per accettare
di arruolarsi nell'armata Brancaleone anti-Berlusconiana in posizione
subalterna, provando però a scardinare alcuni assetti "a sinistra".
Il piano originario del PRC era condiviso anche dall'area di "sinistra" dei
DS (Salvi, Buffo, Berlinguer). Almeno fino a qualche tempo fa.
La stessa "ascesa" delle quotazioni di Sergio Cofferati nel gradimento del
"movimento dei movimenti" era vista con interesse nell'ottica della
ipotetica costruzione di una nuova forza politica (per qualche tempo si era
anche parlato del "partito del lavoro", appoggiato persino dalla sinistra
CGIL, sempre più come minaccia che non come opzione concreta), ma anche con
sospetto; sospetto fondato visto che con la decisione di non appoggiare il
"sì" al referendum per l'estensione dell'art. 18 dello Statuto dei
Lavoratori alle aziende con meno di 15 dipendenti, Cofferati ha sigillato il
suo completo riallineamento (ammesso che l'inserimento di Cofferati nella
"sinistra" DS e alla testa del "movimento dei movimenti" non fosse esso
stesso frutto di una operazione studiata a tavolino) all'impostazione
politica della maggioranza DS e, quindi, alla prospettiva di ricostruzione
dell'Ulivo, sancita simbolicamente con la recente kermesse ulivista e con
l'accordo del "triciclo".
E' dunque con il progressivo evidenziarsi della sconfitta della linea di
disarticolazione dell'Ulivo che il gruppo dirigente del PRC rafforza la sua
proposta di costruzione di una "rappresentanza politica del movimento dei
movimenti".
Il problema è che il PRC ha da sempre una larga componente interna
fortemente identitaria. Anzi, il problema è che in Italia esiste da sempre
una larga componente di questo tipo che rappresenta un discreto pezzo di
elettorato.
Che il PRC non sia ma stato oggettivamente un partito comunista lo dimostra
la natura dei suoi gruppi dirigenti, da sempre disponibili alla liquidazione
del partito e al passaggio "armi e bagagli", con tanto di truppe al seguito,
in qualche altro partito o coalizione anti-comunista. Delle due principali
scissioni "di destra" la prima, quella dei "comunisti unitari", è
integralmente confluita nei DS e la seconda, quella dei "comunisti
italiani", è integralmente confluita nel governo D'Alema, il Presidente del
Consiglio dei bombardamenti "umanitari" all'uranio impoverito sulla
Jugoslavia nel 1999.
Allo stesso tempo molti simpatizzanti del partito (e specialmente una parte
della sua base militante) si sentono sinceramente comunisti e oppongono
tutte le resistenze possibili alla liquidazione della loro identità
"comunista", spesso ereditata più per via tradizionale (famiglia,
territorio) che per via politica.
Se al tempo della Bolognina questa area di "comunisti identitari" costituiva
almeno il 5,6% dell'elettorato (i voti presi dal PRC alla sua prima
apparizione elettorale) oggi questa area si è fortemente ridimensionata e
può darsi che essa si riduca ulteriormente grazie all'effetto combinato di
una sorta di campagna di "liquidazione identitaria" e della eventuale
capacità di sviluppare una proposta alternativa credibile, magari assieme a
parte di quell'arco di forze parlamentari che hanno recentemente votato "no"
al ri-finanziamento delle missioni "umanitarie" dei militari italiani
all'estero.
Non è a caso che il PRC, dal convegno di Venezia in poi, abbia impostato una
vera e propria campagna mass-mediatica, fatta di interviste ai principali
quotidiani nazionali, di apparizioni nei vari salotti televisivi, fino alla
pubblicazione del libretto "La politica della non violenza, per una nuova
identità della sinistra alternativa", una sorta di manifesto
politico-programmatico che raccoglie parte del dibattito sviluppatosi dal
convegno in poi.
Sarebbe fin troppo facile domandarsi se oggi non siano altri i temi su cui
investire le proprie migliori energie. Perché non concentrare le forze, ad
esempio, in un lavoro di capillare controinformazione tra i lavoratori sugli
effetti devastanti della recente legge Biagi (e perché no ? del "vecchio"
Pacchetto Treu) invece di destinarle ad un attacco politico alla storia
della Resistenza di cui peraltro non si sente davvero il bisogno, dato che
già l'intellighenzia di regime non lesina sforzi materiali e intellettuali
per una operazione revisionista che negli ultimi tempi è divenuta davvero
asfissiante ?
Si pensi al ruolo di certi "intellettuali" come Gianpaolo Pansa, Paolo
Mieli, Arrigo Petacco... che non lasciano passare giorno senza riscrivere
qualcosa della storia d'Italia ad uso e consumo degli interessi politici
dominanti, inserendosi peraltro nel solco tracciato dall'ex-presidente della
Camera, il diessino Luciano Violante (quello dei ragazzi di Salò vittime,
come i partigiani, di una "comune tragedia").
Che questa operazione venga condotta da certi giornalisti-storici, veri e
propri nuovi sacerdoti dell'ideologia dominante, è tutto sommato
comprensibile. Un pezzetto alla volta si riscrive la storia: chi ha lottato
per la libertà e per la liberazione diventa un assassino e, in ogni caso, un
"violento"; chi ha portato l'Italia nella dittatura e nella guerra diventa
un grande statista che ha fatto qualche errore, sì, ma "ce ne fossero come
Lui...".
Si tratta di cancellare anche solo la memoria di una esperienza che, con
tutte le sue contraddizioni, ha rappresentato comunque uno dei punti più
alti raggiunti nella nostra storia dalla lotta del proletariato. E si tratta
di cancellare il diritto dei popoli a resistere contro l'imperialismo (sia
esso tedesco del '43-'45, sia esso nord-americano o di altri paesi oggi).
Quello che dovrebbe sconcertare i militanti del PRC è che un partito che
continua ancora a definirsi "comunista" e che rivendica formalmente
l'antifascismo come patrimonio civile dell'intero paese (la "religione
civile del paese") non solo non dedica le sue migliori energie a combattere
il revisionismo di regime, ma gli offre una sponda inaspettata avvalorando
tesi che sono una vera e propria offesa per le migliaia di combattenti per
la libertà.
Sostenere che la Resistenza sia stata "angelizzata" attraverso la
giustificazione della violenza che in essa si è manifestata - considerando
in definitiva "non giustificabile" quella violenza - e però al tempo stesso
giustificare la violenza atomica dei nord-americani a Hiroshima e Nagasaki
nel 1945 [2] significa in sostanza legittimare il monopolio di stato della
violenza, pretendere (per fortuna illusoriamente) di disarmare i popoli e le
classi popolari di fronte alla violenza imperialista e di regime.
Uno dei nodi centrali del convegno di Venezia, attorno a cui si è sviluppato
il dibattito in quella che Bertinotti identifica come "sinistra alternativa"
(e che va oltre il PRC, da Ingrao a settori del Manifesto e del "movimento
dei movimenti") è stato quello del rapporto tra violenza e non violenza.
In sostanza questo rapporto viene risolto nella cancellazione delle rotture
rivoluzionarie come opzione storica possibile e necessaria di trasformazione
e nella cancellazione del diritto dei popoli aggrediti alla resistenza e
alla propria liberazione.
Rossana Rossanda, sulla Rivista del Manifesto di marzo, rileva "Chi si
propone di prendere d'assalto Palazzo Chigi o la Casa Bianca ? Non è questa
la preoccupazione che alimenta il processo retrospettivo al movimento
operaio: è il venir meno della pensabilità, e quindi liceità, di una
alternativa di fondo al sistema attuale, e l'azzeramento di Marx.".
Anche noi riteniamo che il dibattito sul rapporto violenza-non violenza
abbia in realtà poco a che fare con l'oggetto della discussione, ma che
abbia molto più a che fare con la razionalizzazione del sistema sociale
esistente come orizzonte invalicabile dell'umanità. Una sorta di "fine della
storia" di "sinistra".
Il passaggio più interessante della Rossanda è questo: "è il venir meno
della pensabilità, e quindi liceità, di una alternativa di fondo al sistema
attuale"; ciò che non è pensabile, non è lecito.
Come la lotta per il potere delle classi oppresse così anche le lotte di
liberazione e la resistenza dei popoli contro l'imperialismo sono
impensabili in quanto non possono vincere [3]. Dunque non sono lecite, non
sono legittimabili e la prima delegittimazione è la forma che queste lotta
di liberazione questa resistenza assumono.
Sarebbe lungo in questo contesto operare una ricognizione sul tema della non
violenza dal punto di vista storico ed etico. Rimandiamo ad altre occasioni
e ad altre più approfondite letture [4].
Ci interessa però soffermarci su alcune conseguenze politiche della
questione della nonviolenza che vanno oltre le stesse intenzioni del gruppo
dirigente del PRC.
Bertinotti dice: "oggi, il massimo di radicalità si esprime solo con la
nonviolenza".Alessandro Curzi e Rina Gagliardi su Liberazione del 18 gennaio
2004 rincarano la dose: "La non violenza, dunque, come pratica alta del
conflitto, come opposto della passività o della rassegnazione, è oggi l'arma
più forte di cui disponiamo".
Anzitutto è abbastanza strano che dopo anni di merchandising e di operazioni
di marketing costruite sui passamontagna, le cartucciere e i fucili in
spalla del sub-comandante Marcos o sulle immagini del "Che" oggi si pretenda
all'improvviso di de-legittimare tutte quelle magliette e quelle icone che
sono servite al PRC per catturare l'immaginario ribellistico di tanti
giovani (e meno giovani). C'è qualcuno che si ricorda della copertina della
videocassetta dell'incontro tra Fausto Bertinotti e Marcos nella Selva
Lacandona (allora occupata militarmente dagli zapatisti) in cui campeggiava
l'immagine di un Marcos armato fino ai denti ? Forse che allora Bertinotti
parlava di nonviolenza ? No, certamente, perché il tema della nonviolenza è
diventato di attualità solo oggi, essendo destinato a diventare il pilastro
di una proposta politica "pacifista" destinata alla conquista del consenso
elettorale di quei settori del cosiddetto "movimento dei movimenti" di cui
si parlava in precedenza.
Ma se per Fausto Bertinotti il tema "violenza-non violenza" è un tema
agitato con obbiettivi principalmente elettorali, per i comunisti
rappresenta invece un tema cruciale attorno al quale ruota in definitiva la
concreta possibilità di una trasformazione rivoluzionaria dell'esistente e
senza la cui prospettiva non solo non esiste alcun "comunismo", ma non
esiste neppure alcuna efficace forma di resistenza.
Le rappresentazioni simboliche degli ex-disobbedienti o delle ex-tute
bianche hanno un senso, simbolico appunto, nei paesi imperialisti dove se
sparano ad un ragazzo di poco più di vent'anni come Carlo Giuliani succede
"un '48".
Ma in Palestina, in Colombia, in Iraq... che effetto possono avere
rappresentazioni puramente simboliche ? E dopo il "simbolismo" quando arriva
il "concreto", forse alle elezioni per consigli comunali "partecipati" ?
In un opuscolo [5] che abbiamo pubblicato nel gennaio del 2003, scrivevamo:
"Nessuna guerra è mai finita per effetto delle contestazioni contro la
guerra. La guerra del Vietnam, tanto per fare un esempio, è finita grazie
alle pallottole dei vietcong e non grazie "fiori nei cannoni" dei pacifisti.
Il fatto che nei paesi imperialisti i "fiori nei cannoni" - con tutto il
bagaglio culturale (musicale, letterario, artistico...) correlato - abbiano
avuto più spazio nella comunicazione di massa persino della stessa
resistenza del popolo vietnamita è solo l'ennesima dimostrazione che il
potere cerca di scegliersi anche le forme di opposizione a sé stesso".
Proprio gli Zapatisti non ci hanno forse dimostrato che anche solo per
ottenere delle semplici riforme e maggiore dignità hanno dovuto prendere le
armi e cominciare a sparare pagando con morti e arresti la loro lotta ? Il
messaggio degli zapatisti era forse un messaggio di nonviolenza ? O non era
forse un messaggio di ribellione, di resistenza, di lotta con passamontagna
e fucili in spalla ? E quali sono oggi le prospettive sociali, economiche e
di dignità del popolo chiapaneco dopo il "tutti a casa" e la conversione
"nonviolenta" di Marcos e dell'EZLN ? La vendita di caffè attraverso il
circuito del commercio "equo" e "solidale" ?
I palestinesi hanno o non hanno il diritto di resistere al loro
annientamento? O devono invece rassegnarsi al quotidiano genocidio e al
quotidiano furto della loro terra per non turbare i sonni dei "non violenti"
di casa nostra che vivono in un paese che può permettersi il lusso di dare
loro qualche briciola, grazie anche allo sfruttamento indiscriminato del
lavoro e dell'ambiente che le aziende italiane praticano in giro per il
mondo protette da migliaia di militari in "missione di pace" ?
Ma anche qui, purtroppo, il PRC ha dato la sua risposta, boicottando l'8
novembre la manifestazione di Roma contro il Muro che si sta costruendo in
Palestina e appoggiando oggi, non solo gli accordi di Ginevra, ma persino un
intervento militare di pace (!).
"Domanda. Esiste una missione militare giusta ? Risposta: Dove c'è la guerra
mai. Lì bisogna produrre discontinuità. Può esserci in un contesto diverso
dalla guerra. Le faccio un esempio; sulla base dell'applicazione
dell'accordo di Ginevra sarebbe utile una missione di pace in Palestina.
Domanda: Missione militare ? Risposta: Militari che non operino per la
guerra. In Iraq invece c'è un esercito che fa la guerra" [6].
Naturalmente... In Palestina invece non c'è un esercito che fa la guerra.
Per Bertinotti, evidentemente, l'esercito israeliano opera per la pace.
Leggere queste cose è davvero incredibile ma purtroppo, vero.
La figura del "Che" è forse una figura che esprime "violenza" ? O non è
piuttosto una figura che esprime liberazione, solidarietà, amore per
chiunque soffra nel mondo ?
Fausto Bertinotti e il gruppo dirigente del PRC ci chiedono di prendere le
distanze dalla Resistenza, dalle lotte rivoluzionarie e di liberazione del
'900, dalle figure più nobili di rivoluzionari e rivoluzionarie, dalla
resistenza dei popoli aggrediti oggi dall'imperialismo... per darci in
cambio che cosa ?
Un miserabile accordo elettorale per le elezioni politiche del 2006 con
coloro che hanno cosparso la Jugoslavia di proiettili all'uranio impoverito
e hanno bombardato la Zastava e gli operai che la difendevano, con coloro
che hanno votato per le missioni "umanitarie" in Bosnia, in Kossovo, in
Afghanistan e che oggi si astengono dal voto sul rifinanziamento di quella
per l'Iraq, di fatto legittimandola, con coloro che hanno approvato la legge
razzista Turco-Napolitano e introdotto i Centri di Permanenza Temporanea,
veri e propri lager per immigrati, con coloro che con il Pacchetto Treu e
con il restringimento del diritto di sciopero hanno svenduto i diritti dei
lavoratori provocando una maggiore precarizzazione, un maggior ricatto e
quindi minori garanzie di salario e di sicurezza sui luoghi di lavoro, con
coloro che hanno attaccato le pensioni pubbliche gettando milioni di
lavoratori nell'incertezza delle propria vecchiaia e spianando la strada
alla speculazione dei fondi pensione integrativi, con coloro che hanno
approvato la nuova legge sulla procreazione medicalmente assistita che non
solo legifera sul corpo delle donne senza dare loro diritto di parola, ma
che pretende persino di imporre modelli di famiglie "normali" funzionali
agli interessi del capitalismo e dettati dal clero più oscurantista...
Non è molto come contropartita.
"Il massimo di radicalità oggi si può esprimere solo con la non violenza,
altrimenti si retrocede immediatamente a braccio armato e si inserisce nella
dialettica guerra-terrorismo" e ancora "La violenza, in ogni sua variante,
quale che sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene
riassorbita dalla guerra o viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori
gioco la politica" (Bertinotti a Venezia).
Insomma: non c'è mai resistenza, lotta di liberazione, lotta di classe se
c'è una qualsiasi "variante" di violenza in mezzo. Basta non essere
"nonviolenti" che subito Bertinotti ci inserisce nella "spirale
guerra-terrorismo" (concetto caro anche al "santo padre" e dalle potenze
imperialiste avverse a Bush).
O si sta con chi scatena la guerra o si è terroristi.
Si è "buoni" solo se non si sta con chi scatena la guerra e se la si
combatte sventolando le bandierine della pace.
Questo è il "massimo della radicalità".
Questo è "conflitto alto".
Se i potenti sono violenti, chi lotta contro potenti deve essere non
violento. Dunque, seguendo alla lettera questo ragionamento, se i potenti
mangiano, chi lotta contro i potenti non deve mangiare (e in effetti alcuni
famosi non violenti come Ghandi, che tanto piace a Fausto Bertinotti e a
Marco Pannella, lottavano contro i potenti digiunando); ma così si entra in
"corto circuito" perché moltissime persone nel mondo lottano contro i
potenti proprio per mangiare di più.
Avere feticci "a positivo" o "a negativo" delle forme di lotta ci rende
incapaci di comprendere e soprattutto di trasformare la realtà esistente.
Noi non facciamo l'elogio astratto della violenza; tanto meno facciamo
l'elogio astratto della nonviolenza.
Ma a nessuno può sfuggire che il feticcio della "non violenza" ha in quello
delle elezioni-istituzioni il suo feticcio-gemello.
Ricordiamo "en passant" che in Italia il suffragio universale lo dobbiamo
alla Resistenza antifascista e alla lotta (armata) condotta dai partigiani
dal 1943 al 1945 (visto che le donne lo hanno avuto solo nel 1947) e quindi
è indubbio che anche per poter esercitare quella forma elementare di lotta
nonviolenta che ha in testa il gruppo dirigente del PRC (e cioè votarlo alle
elezioni) è talvolta inevitabile scendere su terreni di lotta meno
"nonviolenti".
Se lasciamo, in definitiva, come unico terreno di lotta politica quello
elettorale rimangono solo consiglieri, deputati, assessori...
Rimane solo il ceto politico di professione, gente che si definisce l'un
l'altro "onorevole collega". Altro che lotta e "conflitto alto".
Se si accetta di far arretrare il confine del "consentito" sempre più
indietro, in corrispondenza con l'avanzata repressiva dello Stato e delle
classi dominanti, se non si ha mai il coraggio di varcare culturalmente e
concretamente la soglia della legalità imposta dal sistema di potere
dominante, tutto può diventare violenza, anche lanciare un sasso o un
estintore contro una camionetta dei carabinieri o scaricare un bidone di
letame davanti alla casa di Berlusconi e si finisce quindi per prendere le
distanze anche da questi comportamenti [7].
Quasi 3 anni fa, subito dopo Genova, scrivevamo: "La povertà è violenza. Lo
sfruttamento di una classe sull'altra è violenza. Anni di galera e torture
per chi ha lottato contro l'oppressione in nome di un ideale concreto,
questa è violenza. Le guerre imperialiste di spartizione del potere sono
violenza. E' fin troppo facile invocare la "non violenza" per chi la
violenza non l'ha mai davvero subita. La non violenza è la trappola che il
potere cerca di imporre alle masse popolari per renderle mansuete e
impaurite.
Malcolm X diceva: "noi non siamo violenti con chi non è violento con noi, ma
non siamo non violenti con chi è violento con noi". Esiste una violenza
necessaria e cioè la violenza che pone fine al sistema della violenza, la
violenza che gli sfruttati sono costretti ad
esercitare contro gli sfruttatori per conquistare la loro liberazione.
E' una violenza che persino alcuni preti hanno giustificato (i teologi della
liberazione) e che invece dovrebbe essere bandita o semmai solo
rappresentata virtualmente" [8].
Se, come detto, l'operazione politica del PRC ha due motivazioni principali
(una "revisione identitaria" del proprio corpo militante, troppo legato al
retaggio storico-politico del '900 e quindi incapace di avere la giusta
flessibilità rispetto alle rocambolesche acrobazie politiche che il partito
"è costretto a fare" nella sua navigazione a vista, e una proposta
elettorale e programmatica al movimento dei movimenti, non cooptabile sotto
un riferimento anche solo formalmente "comunista") di riflesso ha anche una
terza valenza e cioè quella di rappresentare una sorta di garanzia
preventiva per il grande capitale economico e finanziario sul livello di
maturità/maturazione del PRC in vista di un eventuale ingresso nel prossimo
governo di centro-"sinistra".Nel frattempo, mentre il corpo del partito
discute di questa "innovazione culturale", si può sperare che non discuta
affatto di un accordo elettorale che da "desistenza" (termine che non
abbiamo mai capito fino in fondo cosa volesse dire) deve necessariamente
trasformarsi in unità politica-programmatica di governo con tanto di
ministri e sottosegretari..
***
NOTE
[1] E neppure del luogo, dato che Venezia è stata, alcune settimane prima
del convegno, teatro di uno scontro tra militanti dei centri sociali del
Nord-Est e militanti del PRC che contestavano l'apposizione di una lapide in
ricordo delle "vittime" delle foibe. Andando a Venezia Bertinotti si è
schierato con i centri sociali casariniani contro i militanti del suo stesso
partito.
[2] Intervento di Fausto Bertinotti al Convegno di Venezia del 13 dicembre
2003: "E' stato affermato che 'con Auschwitz Dio è morto'. Un modo di dire
non solo per i credenti, che non è più immaginabile una violenza come
quella. Poi c'è stata Hiroshima, la violenza di chi ha vinto contro il
nazismo. Un passaggio drammatico, terribile. La violenza per battere la
morte produce altra morte. Era legittima Hiroshima ? Potremmo rispondere di
sì perché meno distruttiva di Auschwitz e del nazismo. Perché il nazismo è
intrinsecamente distruzione, sistematica oppressione e violenza
generalizzata. Auschwitz è la sua cattedrale e la realtà. E' il genocidio.
Hiroshima no. Questa differenza c'è e conta. Hiroshima non aveva come fine
l'annientamento. Era un modo terribile e violento di opporsi ad esso".
Non (?) serve ricordare a Bertinotti che le bombe atomiche sganciate su
Hiroshima e Nagasaki erano al tempo stesso un messaggio inviato all'Urss e
un modo per costringere il Giappone ad arrendersi ai soli nord-americani
invece che anche ai sovietici che stavano arrivando da nord. La violenza che
legittima Bertinotti fu dunque (come accertato storicamente) del tutto
gratuita nel senso che le finalità reali erano ben diverse da quelle
ufficiali.
[3] Rina Gagliardi e Alessandro Curzi su Liberazione del 18 gennaio
2004:"Oggi quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e
della guerriglia armata nel medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna".
[4] Cfr, ad esempio, Paolo Persichetti Disobbedire non basta. I malintesi
della non violenza", Autoproduzioni 2002.
[5] Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer. Riflessioni su
pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell'aggressione all'Iraq,
Autoproduzioni 2003.
[6] Intervista di Bertinotti a Repubblica del 26 febbraio 2004
[7] Del resto un bell'esempio di dissociazione preventiva lo offrì Matteo
Jade, esponente delle tute bianche genovesi, la sera del 20 luglio 2001, in
diretta radiofonica: "Lo conoscevamo poco [Carlo Giuliani], qualche volta lo
incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non
hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare,
uno che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non
aveva niente a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo
troppo disciplinati".
[8] Controvento, foglio di informazione politica e territoriale, n.2,
monografico dal titolo "Genova 2001".
LM (1 - continua)



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