[Forumlucca] R: [Forumlucca] quale solidarietà?

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著者: Laboratorio Marxista
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題目: [Forumlucca] R: [Forumlucca] quale solidarietà?
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Per evitare di agitare astrattamente la nonviolenza e il povero Gandhi ecco
un estratto da Disobbedire non basta. I malintesi della nonviolenza di Paolo
Persichetti
(http://autoproduzioni.supereva.it/opuscoli/persichetti/persichetti.htm).
Io credo che sia molto istruttivo.
Un compagno del LM

Della nonviolenza come declinazione dell'etica

Per sostenere le ragioni della nonviolenza alcuni autori ricorrono ad
argomenti sorretti da quella che i testi definiscono etica della convinzione
anteposta all'etica della responsabilità, entrambe fondate su logiche
razionali ma che privilegiano fattori diversi: per esempio, la coincidenza
dei mezzi col fine, di contro all'asimmetria dei mezzi dal risultato.
Ragione morale contro ragione cinica insomma. Accade spesso, dunque, che il
tema della nonviolenza venga affrontato sulla base di convinzioni etiche o
religiose. Nella maggioranza dei casi, infatti, la pertinenza, o meglio la
superiorità di questo metodo è affermata facendo un uso diretto di argomenti
morali oppure lasciandosi ispirare da questi, ma pescando ragioni e tesi su
un piano storico o pragmatico.



Altri autori però, resi più accorti nella scelta dei loro argomenti dalla
fragilità delle dimostrazioni morali di fronte alle repliche dell’esperienza
storica, privilegiano nuove strategie argomentative, preferendo ricorrere
alla ragione strumentale, per spiegare come la nonviolenza si sia mostrata
storicamente più efficace e per questo (dunque su una base puramente
utilitarista) superiore. In fondo, lo stesso Gandhi usava dire che se posto
di fronte al dilemma della scelta tra passività e attività violenta, avrebbe
preferito la violenza poiché comunque questa restava una forma d'azione. E l
’azione contro ogni passività era ai suoi occhi il bene superiore [1] . Ed è
vero che conquistata l'indipendenza, la nazione indiana non ebbe difficoltà
a dotarsi di uno Stato con un esercito, una polizia, dei tribunali, delle
prigioni. L'esperienza gandhiana si risolse in un incredibile paradosso,
l'abile inversione dei termini propri all'etica della responsabilità: i
mezzi al posto dei fini e i fini al posto dei mezzi. In luogo dei
tradizionali metodi dettati da un utilitarismo pragmatico (che non escludono
l'uso della forza), egli sostituì dei mezzi morali come la nonviolenza per
dare spazio a dei fini che sopprimendo gli obbiettivi etici nonviolenti
suscitavano la nascita di uno Stato, organismo che per definizione
costitutiva esercita il monopolio della forza legittima. L’essenza della
concezione gandhiana della politica si risolve in una sorta d'invito
continuo all'azione, alla lotta contro la servitù volontaria. Quella
gandhiana è stata un’etica suprema della mobilitazione, dell'agire, della
sottrazione dell'uomo alla passività e alla remissione, a quella che si può
definire come una vera e propria “malattia della volontà”. In Gandhi c’è l’
idea che l’essenza della dignità umana stia nel prendersi in carico, nello
stringere tra le mani la propria vita e il proprio destino. L’uomo è in
piedi solo quando sa camminare sulle proprie gambe e scegliere autonomamente
la propria strada, altrimenti resta un mammifero supino. La lezione
gandhiana traduceva a suo modo una tradizione filosofica che almeno dalla
modernità vede iscritti pensatori della portata di Spinoza, Rousseau, La
Boetie, Marx.



La nonviolenza, intesa come comportamento fuoriuscito da una pratica che s’
ispira all’etica della convinzione, è posta di fronte ad una insormontabile
contraddizione: l'assunto etico per avere validità intrinseca, ovvero per
rispondere al criterio di coerenza interna, deve intendersi come assoluto.
Esso non può trascegliere, adattarsi alle circostanze. Fu questo il grande
dramma dei pacifisti nonviolenti del Novecento, in particolare di fronte
alla seconda guerra mondiale. Molti alla fine raggiunsero, sulla base d’una
scelta duramente meditata, le fila della Resistenza anti-nazifascista.
Presero le armi insomma. Altri, restarono rigorosamente nonviolenti. Non
vollero farsi coinvolgere dal conflitto, nemmeno di fronte alle nefandezze
naziste, ai campi di concentramento. Molti di loro erano rimasti segnati da
quel macello di carne umana che fu il primo conflitto mondiale. Avevano
assistito a quell’orribile guerra, alle decimazioni decise dagli Stati
maggiori contro le truppe insubordinate, agli assalti suicidi contro le
linee nemiche. “Mai più !”, s'erano detti. Les chemin des dames, in Francia,
luogo mitico come da noi furono le alture del Carso, evoca immagini
terribili d’uomini immersi nel fango intriso di sangue, dove orde di soldati
venivano lanciati all'assalto e obbligati a calpestare i corpi dei propri
compagni falciati dal fuoco nemico, per giorni e giorni, settimane intere.
In Italia, le truppe venivano sospinte in avanti a suon di cannonate sulle
retrovie, sparate non dal fuoco nemico ma da quello amico su ordine degli
Alti comandi, mentre i carabinieri seguivano e arrestavano, fucilando sul
campo chi rimaneva in trincea o s’imboscava nelle buche sotto i cadaveri. In
Francia, a causa della loro scelta pacifista, molti militanti nonviolenti
furono processati, comunque invisi perché sospettati di connivenza con la
repubblica nazional-fascista di Vichy, che firmò l'armistizio e poi
collaborò attivamente col nazismo.



Ora la nonviolenza etica, per le ragioni “predittive” che la caratterizzano
(l'evocazione qui e ora, hic et nunc, della società che sarà domani), per la
sua pretesa d'anticipare nei metodi una delle regole della società futura,
dovrebbe condurre ad una rottura drastica, nettissima (non a caso Thoreau
propugnava il rifiuto di pagare le tasse e l'obiezione di coscienza) con
qualsiasi ordine costituito che esprimesse violenza, dunque innanzitutto con
quell'organo che per definizione esercita la “violenza legittima”, ovvero la
coercizione legale, quale è lo Stato. Ogni atteggiamento che non fosse
coerente con questa condotta verrebbe in qualche modo a trasgredire
l'enunciato etico adeguando il proprio comportamento a ragioni d'opportunità
inammissibili secondo i presupposti morali affermati. Il nonviolento non
dovrebbe credere, ne tanto meno rispettare, i codici di procedura e i codici
penali, i tribunali, la magistratura, per quello che esprimono e
rappresentano: la legalità. E la legalità è per definizione l'esercizio
procedurale di una dose (che s'accresce secondo le esigenze) di coercizione
e violenza ritenuta necessaria alla regolazione sociale.



E se delle ragioni – anche comprensibili - d'opportunità vengono evocate,
allora si abbandona il terreno dell'etica della convinzione per entrare in
quello della responsabilità. Ovvero si sceglie di attuare una strategia i
cui mezzi sono (nella fattispecie l'accettazione passiva di una violenza
statuale sovrastante), per forza maggiore, non completamente conformi con i
fini. Insomma, l'opzione nonviolenta diverrebbe una delle tante strategie
dotate di tattiche duttili, fatte di compromessi, ragioni di circostanza,
opportunità, ecc. In questo caso, poi, sarebbe ancora più sospetto un
atteggiamento di censura netta della violenza esercitata da soggetti deboli,
oppositori, contestatori, in ogni caso non appartenenti alle classi
dominanti (detentrici del potere economico-finanziario e politico), senza un
’eguale condanna aperta e un’azione di disobbedienza attiva e corrispettiva
verso lo Stato. Non solo quando questi esercita materialmente violenza
attiva, ma per il fatto stesso d'esistere in quanto istituzione. E se anche
solo per brevità, tralasciamo il fatto che lo Stato sia quel grande Moloc
che si è imposto grazie ad una violenza originaria potentissima e
irresistibile che ha travolto le forme d’organizzazione sociale
preesistenti, non si può non ricordare che lo Stato di diritto contemporaneo
esprime tuttora quella che alcune teorie sociologiche chiamano la violenza
simbolica. Ovvero: “quella violenza dolce, invisibile, sconosciuta come
tale, scelta quanto subita” (Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit,
Parigi 1980). Una violenza mascherata che cela dietro una falsa naturalità
gerarchie di valori, saperi, una somma d’ineguaglianze storicamente
costruite che esprimono un rapporto di dominazione il più delle volte
interiorizzato dai dominati.



[1] Cf. Gandhi, la sagesse de la non-violence, Jean-Marie Muller, Desclée de
Brouwer, Parigi 1994.





-----Messaggio originale-----
Da: forumlucca-admin@???
[mailto:forumlucca-admin@inventati.org]Per conto di bernardi silvio farina
gianna
Inviato: venerdì 2 aprile 2004 15.12
A: forumlucca
Oggetto: [Forumlucca] quale solidarietà?


.....non c'è liberazione per alcuno su questa terra, né per tutta la gente
di questa terra, se non attraverso la verità e la nonviolenza, in ogni
cammino della vita, senza eccezione.
M.K.Gandhi

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