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Le classi dominanti odiano i
sogni perchè sono incapaci di
progettare una poetica del futuro
----- Original Message -----
From: "LiberoPensiero"
<violun.43568.725795.liberopensiero.dbounce@???>
To: <violun@???>
Sent: Saturday, March 20, 2004 1:30 AM
Subject: [20/03] - Forma senza contenuto
> °°°°°°°°°°°°°°° Liberopensiero 20/03/2004 °°°°°°°°°°°°°°°
> Le parole della filosofia per leggere l'attualita'
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>
>
>
> In questo numero di liberopensiero
> la parola chiave è MANIFESTAZIONE
> Si parla di:
> - Forma senza contenuto
> - "Io c'ero"
> - Avanti popolo
>
> IL FATTO
> Manifestazioni governative contro il terrorismo e manifestazioni non
governative per la pace
>
> LA PAROLA CHIAVE: MANIFESTAZIONE
>
> Forma senza contenuto
> La fenomenologia ha liberato la descrizione dei vissuti religiosi da un
radicato pregiudizio. In omaggio ad uno schema di derivazione schiettamente
platonica, il rito era infatti generalmente pensato come ripetizione
simbolica (così, ad esempio, ragionava il celebre storico delle religioni
Mircea Eliade). All'origine, come fondamento della serie, era posto il mito,
di cui il rito era considerato, appunto, una replica. Rito come memoria,
mito come origine. La possibilità per il rito di scadere a vuota ritualità
priva di un autentico contenuto di verità era così già inscritta nella sua
stessa definizione. Ciò che nasce come copia non tarderà molto a diventare
pleonastico. Lavorando sul campo, gli antropologi si erano però imbattuti da
tempo in un'altra forma di ritualità ben poco platonica. Era un rito che si
mostrava indifferente al principio di autorità del mito, un rito
impertinente che sfruttava semmai il mito per potere avere luogo. Talvolta
pareva perfino che il rito vivente un t
> ale mito fondante se lo inventasse per giustificare la sua esistenza come
rito. I gesti, le codificate abitudini, le formule del rito, in molte
circostanze appaiono dunque sganciate dall'onnipotenza del mito. Il rito
sembra essere ricercato per se stesso. E' amato in quanto ripetizione, non
per la cosa che sembra ripetere. E' amato per l'esercizio di memoria a cui
costringe, non per il testo che riproduce fedelmente. La forma è insomma
scambiata con il contenuto, ma questo scambio, apparentemente contro natura,
dona piacere. Ben lo sanno i bambini che si fanno raccontare mille volte
sempre la medesima storia, "ma proprio con le stesse parole, però."
>
> "Io c'ero"
> L'autonomizzarsi del rito dal mito s'incrocia con quell'altro fenomeno,
anch'esso paradossale, che fenomenologi e antropologi hanno spesso
evidenziato nell'esperienza religiosa e nelle culture cosiddette
"primitive". Anche la comunicazione, in molte circostanze, è indifferente a
quanto viene comunicato. Secondo lo schema che abbiamo imparato sui banchi
di scuola, essa dovrebbe veicolare messaggi, dovrebbe fungere da nastro
trasportatore di informazioni, e invece quella che l'etnologo Brotislav
Malinowski registra intorno al fuoco del villaggio melanesiano è un
chiacchiericcio insensato e divertito dove ciò che veramente conta non è
comunicare qualcosa, ma la forma vuota della comunicazione. Parlare per il
gusto di parlare. Parlare per il gusto di verificare il contatto con
l'altro, la sua rassicurante presenza. Ai fenomenologi della religione la
stessa impressione lo doveva fare il largo spazio lasciato alla glossolalia
(il parlare a vuoto) in molte pratiche religiose, uno strano ese
> rcizio di vocalizzazione non diverso, dopotutto, da quel ruminare
meccanico che in tante anziane signore devote accompagna il transito delle
dita sulle palline del rosario. Malinowski coniò il termine "fàtico" per
indicare il complesso di queste pratiche che privilegiano il rito rispetto
al mito e la comunicazione (il contatto) rispetto all'informazione. Nella
lingua del giovanilismo anni '70, si potrebbe affermare che il rito e la
comunicazione divengono dei fini in sé, quando quello che più conta, anzi,
forse la sola cosa che conta, è "esserci".
>
> Avanti popolo.
> Proprio per i suoi aspetti "rituali" e "fàtici" - e non nonostante
questi! - una manifestazione di popolo è la prefigurazione momentanea di una
comunità finalmente libera. A fornirla di questo straordinario valore non è
il suo mito, vale a dire la "ragione" per la quale si scende in piazza. Anzi
è questa eccedenza del piacere di manifestare sulle motivazioni, per altro
ben fondate, del manifestare a differenziarla dalle manifestazioni
"governative", sempre pilotate da interessi "politici" che passano sopra le
teste delle persone. Nelle seconde il popolo rappresenta un mito imposto e
si auto-rappresenta (gonfaloni, stendardi, autorità.), nelle prime "c'è".
Andare per l'ennesima volta in piazza vuol dire allora liberare per
l'ennesima volta la piazza da chi l'ha indebitamente occupata. Significa
strapparla a chi, senza averne diritto, l'ha trasformata in piazza di
affari e di tribunali, per restituirla al suo legittimo proprietario, al
popolo, il quale, scendendo in piazza e recitando
> i propri preconfezionati slogan, snocciola il suo specifico - e
nient'affatto laico - rosario di libertà.
>
> Rocco Ronchi
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