[Lecce-sf] la Rivista dei Libri

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Autor: Silverio Tomeo
Data:  
Assunto: [Lecce-sf] la Rivista dei Libri
la Rivista dei Libri
      Il segreto di Pellegrino
      GIANFRANCO PASQUINO
      GIOVANNI FASANELLA e CLAUDIO SESTIERI con GIOVANNI PELLEGRINO,
      Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro,
      Torino, Einaudi, 2000,
      pp. 250, Lit 28.000


      Non mi risulta che il senatore Giovanni Pellegrino, a differenza del
suo
      predecessore alla presidenza della Commissione parlamentare
d'inchiesta
      sulle stragi e sul terrorismo, Libero Gualtieri, si sia mai
attivamente
      impegnato per l'abolizione del "segreto di stato" sui fatti di
terrorismo
      e stragi. Piuttosto, ha cercato di fare, attraverso numerose
dichiarazioni
      e molteplici interviste, qualche scoop sui fenomeni attinenti il
      terrorismo e le stragi. Fino a prova contraria, però, di scoop veri ­
vale
      a dire l'individuazione di qualche fenomeno e di qualche
responsabilità
      non già noti ­ non ne hanno fatti né Pellegrino né la Commissione
      parlamentare da lui presieduta da ben sei anni. Quanto al "segreto di
      stato" che dà il titolo a questo libro-intervista, peccato che
Pellegrino
      non se ne sia attivamente occupato. Relativamente ad alcune stragi,
      infatti ­ l'esplosione di un aereo presso Ustica nel giugno 1980, a
      esempio, o quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna ­, le
      associazioni dei familiari delle vittime sono convinte che
l'abolizione
      del segreto di stato getterebbe luce sugli strateghi, sui mandanti e
sui
      depistatori.
      Poiché Pellegrino chiama ripetutamente in causa i servizi segreti di
altri
      paesi, l'abolizione del segreto italiano li costringerebbe più o meno
      direttamente a rivelare quanto sanno dei tragici avvenimenti che hanno
      attraversato il sistema politico italiano. Non trovo nessun invito
      esplicito all'abolizione del segreto. Tuttavia, dal titolo del
      libro-intervista di Pellegrino deduco che il senatore dei Ds voglia
      segnalare la sua convinzione recentemente acquisita che molti degli
      avvenimenti relativi agli episodi di terrorismo e strage, se non
tutti,
      siano in qualche modo rimasti segreti perché lo stato italiano lo ha
      deliberatamente voluto. Naturalmente, le responsabilità di una
decisione
      di così grande rilevanza non sono attribuibili indistintamente allo
stato
      italiano nel suo insieme. Soltanto alcuni specifici settori dello
stato,
      ma, purtroppo, anche tutti i governanti dal 1965 a oggi, praticamente
      senza differenze alcune, hanno voluto e/o lasciato che il segreto
coprisse
      anche attività illegali e anticostituzionali.




      A proposito delle differenze all'interno dello stato, Pellegrino
aderisce
      a una tesi storica estremamente controversa: «Duale era lo Stato, con
      buona pace degli storici revisionisti Duale era l'ordinamento, nello
iato
      tra una costituzione materiale segnata dal valore dell'anticomunismo,
che
      derivava da una scelta di campo internazionale democraticamente
voluta, e
      una Costituzione scritta nata dalla Resistenza. Schizofrenica era la
      politica, con il Msi escluso dall'arco costituzionale, ma, di fatto,
      profondamente legato, nel patto anticomunista, agli apparati e ai loro
      referenti politici. Profondamente divisa era la società, con i conti
      aperti dalla Resistenza mai veramente chiusi». E tutte queste dualità
      sarebbero, secondo Pellegrino, se non giustificabili, quantomeno
      comprensibili: «Perché diviso era il Pci, tra funzione (di opposizione
      democratica) e identità (comunista, con i suoi legami politici e
      finanziari con l'Urss)».
      Persino chi condividesse la tesi di Pellegrino ­ che potrebbe essere
      sintetizzata in questo modo: il Pci rappresentava un pericolo che lo
stato
      doveva debellare anche consentendo ai suoi apparati azioni illegali e
      anticostituzionali ­ dovrebbe esigere delle prove certe. Invece,
      l'intervista di Pellegrino non soltanto non contiene elementi nuovi in
      materia di "dualità dello stato", ma non apporta neppure prove
specifiche.
      Alcune prove di ignoranza e connivenza sarebbero, per quanto di
diverso
      peso specifico, molto utili a ricostruire le inadeguate risposte dello
      stato ai terrorismi e ai terroristi, agli esecutori e agli ispiratori.
      Cosicché, se al lettore può risultare interessante conoscere le
opinioni
      di Pellegrino, chi già sa qualcosa sui movimenti, sui gruppi, sulle
      attività dei terroristi italiani e sui fatti di strage, finisce per
porsi
      molte domande destinate a rimanere senza risposta.
      La prima domanda riguarda l'apporto specifico dell'intervista di
      Pellegrino alla conoscenza dei fenomeni che hanno insanguinato la
storia
      della prima Repubblica (che non fu tutta rose e fiori, come alcuni
      politici democristiani e socialisti vorrebbero fare credere). Secondo
      Pellegrino, il valore aggiunto della sua intervista è duplice.
Consiste,
      in primo luogo, nell'avere «contestualizzato le vicende interne nella
      cornice internazionale della Guerra fredda». In secondo luogo,
nell'avere
      collocato i fenomeni delle stragi e dei terrorismi non soltanto
sull'asse
      Est-Ovest, ma anche sull'asse Nord-Sud, poiché ogni volta che
l'Italia,
      «nei conflitti Nord-Sud, provava ad assumere una posizione autonoma,
      scattavano immediatamente spinte di carattere geopolitico volte a
      riconsegnarla in quel suo ruolo sostanzialmente subalterno».
Purtroppo,
      prove circostanziate di queste spinte nell'azione dei terroristi
italiani,
      di destra e di sinistra, neri e rossi, e degli apparati dello stato
duale,
      non compaiono nelle pagine del libro.
      La seconda domanda riguarda l'uso del materiale, dei documenti, delle
      fonti. L'intervista (incidentalmente, non sarebbe più corretto se le
      commissioni parlamentari e i loro presidenti "parlassero"
esclusivamente
      nelle sedi proprie e con documenti appositi?) si basa esclusivamente
sulle
      audizioni della Commissione. Nessuna altra fonte viene citata, se non
in
      maniera assolutamente marginale, né utilizzata. Eppure, da un lato, è
      disponibile un vasto, significativo, importantissimo materiale
raccolto
      dai giudici impegnati nei numerosi processi ai terroristi e agli
      stragisti. Dall'altro, esistono importanti ricerche sociologiche,
      politologiche e storiche in materia.
      Pellegrino respinge il contributo degli storici con la motivazione,
      liquidatoria e sicuramente offensiva, «che tendono ad assumere un
proprio
      angolo visuale che poi determina il risultato» (sono sicuro che, a
      esempio, Nicola Tranfaglia, autore di pregevoli studi storici in
materia,
      non gradirà questa valutazione), mentre ignora, evidentemente, tutto
      quanto è stato scritto da sociologi e da politologi: a esempio, i
numerosi
      volumi di ricerche svolte dall'Istituto Cattaneo e pubblicate dalla
casa
      editrice Il Mulino, di cui citerò soltanto quella di Donatella della
      Porta, Il terrorismo di sinistra (1990), e le storie di vita di alcuni
      terroristi raccolte e presentate da Raimondo Catanzaro e Luigi
Manconi,
      Storie di lotta armata (1995).
      Questa rinuncia al confronto con quanto (ed è molto e di buona
qualità)
      già pubblicato da studiosi italiani e stranieri appare grave. Infatti,
      tutto quello che Pellegrino dice sulla nascita di un certo tipo di
      terrorismo di destra è già ampiamente, dettagliatamente e
convincentemente
      esplorato e riportato nell'essenziale volume di Franco Ferraresi,
Minacce
      alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in
      Italia nel dopoguerra;1 mentre, per quanto attiene la tragica vicenda
di
      Moro, alla quale vengono dedicate quasi 80 pagine (un terzo del
libro),
      Pellegrino e i suoi intervistatori avrebbero potuto fare utile, ma non
      esclusivo, riferimento, magari anche per criticarlo (come, in parte,
ho
      fatto nella mia recensione "La testa di Moro", ne la Rivista dei
Libri,
      maggio 1996), alla ricostruzione di Richard Drake, Il caso Aldo Moro.2




      Le mie osservazioni alla scelta di Pellegrino e dei suoi
intervistatori di
      procedere in non tanto splendido, ma molto orgoglioso, isolamento,
sono di
      metodo e di merito. Quanto al metodo, intendo mettere in questione la
      validità di commissioni di inchiesta che non sappiano e/o che non
vogliano
      avvalersi del materiale già disponibile (a che cosa servono i
      "consulenti"?) in un vaglio e in un confronto certamente faticosi, ma
      altrettanto certamente indispensabili e fruttuosi con quanto di
      eventualmente nuovo la Commissione stessa riesca ad acquisire.
      Quanto al merito, intendo mettere sotto una luce critica la sostanza
della
      ricostruzione del terrorismo e delle stragi «da Gladio al caso Moro»
      effettuata da Pellegrino. Si noti, a esempio, che è lo stesso
presidente
      della Commissione a rivelare che almeno alcune delle sue fonti sono
state
      molto reticenti. Citato 27 volte, Giulio Andreotti, persona
sicuramente
      informata dei fatti, che pure Pellegrino sospetta di qualche
collusione
      piduista (p. 111 e p. 119), non dice tutto. Citato 21 volte, Paolo
Emilio
      Taviani, che è identificato come il capo del «partito americano»,
viene
      accusato di doppiezza: è fedele alla Costituzione, ma ogni tanto viola
la
      legge (p. 102); è comunque il vero protagonista della stagione
atlantica
      della politica italiana (p. 103). Citato 20 volte, Francesco Cossiga
sa
      tutto o quasi, ma non dice proprio niente. Sul caso Moro, sostiene
      Pellegrino, «molte cose potrebbe dircele proprio il diretto
interessato
      [Cossiga], ma si rifiuta di venire a deporre in Commissione». E,
ancora:
      «Che il suo [di Cossiga] dolore sia autentico, è evidente. Ma è
      altrettanto evidente che non vuole che si scavi: teme che si scopra un
      aspetto nascosto del caso Moro che cela anche una delle ragioni della
      tragica conclusione». Infine, è ancora Pellegrino che parla, «sono
      convinto che [Cossiga] sappia molto di più di quello che ha
raccontato,
      qualcosa che, se venisse resa nota, farebbe soffrire altra gente,
ancora
      per gli stessi motivi [quali? interrogativo mio] per cui ha già
sofferto
      lui».
      Comunque, l'addolorato Cossiga si è già, almeno in parte, riscattato,
      perché da «vero agente occidentale» ha favorito, «con la nascita del
      governo di Massimo D'Alema, il determinarsi di una situazione di
stabilità
      politica in un'Italia destinata ad avere [ma al tempo in cui si
produsse
      l'avvenimento epocale nessuno avrebbe potuto prevederlo!] un ruolo
      strategico fondamentale nella guerra dei Balcani». In questo modo, è
stato
      detto anche da altre parti, ma ritengo che continui a non essere vero,
      Cossiga avrebbe chiuso il libro della prima Repubblica. Infatti, è mia
      personale opinione che per chiudere quel libro risulta essenziale che
      tutte le pagine vengano scritte, non che vengano semplicemente
voltate.
      Pellegrino prova a scrivere le pagine del terrorismo, di quello rosso
      molto più che di quello nero, con una serie di affermazioni che
dovrebbero
      destare molte controversie, richieste di chiarimenti, e
approfondimenti di
      indagini.




      Non è, naturalmente, affatto una scoperta di Pellegrino né della
      Commissione che le Brigate rosse abbiano goduto del sostegno
logistico,
      finanziario, affettivo, sentimentale (che si collochi in questa area
anche
      la poesia che lo stesso Pellegrino dedica alla terrorista Mara Cagol e
      parzialmente pubblicata su la Repubblica del 17 dicembre 2000?) di un
      vasto numero di fiancheggiatori che Pellegrino definisce «l'area di
      contiguità». Tutte le migliori ricerche sociologiche hanno già
documentato
      l'esistenza di questa area e ne hanno persino tentato una valutazione
      quantitativa. Al suo più alto punto di sviluppo, l'area del terrorismo
di
      sinistra poteva contare su 80-100 mila persone disponibili a dare
      alloggio, offrire appartamenti, imprestare automobili, comprare armi,
      finanziare attività e latitanze. Incidentalmente, mentre per operare e
      sopravvivere al terrorismo nero potevano essere sufficienti "sostegni
di
      stato", anche di stati stranieri, il terrorismo rosso, in tutte le sue
      varianti, necessitava di un sostegno sociale ampio.
      Il che spiega perché è errato e fuorviante, al limite allarmistico,
      pensare che un attentato anche grave, riconducibile a terroristi
rossi,
      che dovrebbero stare in galera e non usufruire di "sconti di pena",
      segnali la ricomparsa del fenomeno che abbiamo conosciuto negli anni
      Settanta. In assenza di un sostegno sociale diffuso, che non esiste,
      possono aversi sporadiche azioni terroristiche, ma è impossibile la
      rinascita di un qualsiasi movimento. Quanto alla contiguità, bisogna
      sapere distinguere fra le "masse" e gli "altoborghesi". Pellegrino
accetta
      la testimonianza di Piperno che riferisce «di quanto fossero potenti
le
      Br, di quanto fosse estesa la trasversalità sociale su cui potevano
      contare» e ricorda la «casa altoborghese romana, in cui dopo la morte
di
      Moro gli fu consentito di incontrare colui che aveva ucciso lo
statista
      democristiano, cioè Mario Moretti».
      Sfortunatamente, Pellegrino non conosce i nomi dei personaggi
componenti
      l'area di contiguità (non sarebbe stato il caso di chiederli al molto
bene
      informato e benissimo introdotto Piperno?). Ciò nonostante, si dice
sicuro
      che ne fanno parte esponenti di «moltissimo ceto intellettuale,
docenti
      universitari, uomini dello spettacolo e dell'informazione. [Il
brigatista]
      Maccari fa un accenno anche al mondo sindacale [non è una grande
scoperta
      dopo i fatti di Mirafiori dell'ottobre-novembre 1980]». Pellegrino
      conclude il suo racconto, sicuramente turbato, citando ancora Maccari:
«So
      con certezza che oggi vi sono persone, magari giornalisti o
sindacalisti
      che ricoprono incarichi importanti, che allora tifavano ed erano
onorate
      di avere in casa il cavaliere impavido. Il terrorista, il guerrigliero
era
      una figura affascinante, romantica, ovviamente in quegli anni. Vi sono
      anche filosofi e sociologi, insomma, l'intellighenzia di sinistra».
      Bravissimo Maccari a rivelare quanto era già, se non noto, almeno
intuito,
      da tempo. In carcere, infatti, si trovano/si trovavano già da qualche
      tempo storici, filosofi, sociologi e criminologi di sinistra. Pessima,
      invece, la Commissione se non ha sentito il bisogno di tirare fuori da
      Maccari i nomi degli esponenti di quella intellighenzia di sinistra e
da
      Piperno, se non i nomi dei frequentatori della «casa altoborghese
romana»,
      almeno quelli degli ospitali padroni di casa. Insomma, proprio quando
la
      Commissione è giunta vicino allo scoop clamoroso, si arresta: perché?
      Eppure, Pellegrino sostiene che dovremmo cercare di capire chi sono
stati
      non soltanto gli esecutori, ma anche i mandanti e gli strateghi e, da
lui
      ammaestrato, aggiungo i fiancheggiatori autorevoli dei terroristi
poiché
      la lunga durata del terrorismo di sinistra in Italia, a differenza che
in
      Francia e in Germania, si spiega soltanto con la presenza di una vasta
      area di sostenitori occulti, mai "attaccati", per insipienza, per
      incapacità, per connivenza, dalle indagini.




      Sempre in tema di funzionamento dei gruppi terroristici, Pellegrino
merita
      di essere citato un'altra volta: «Non mi stupirei se le Br fossero
state
      infiltrate»! Preferirei che il presidente di una Commissione
parlamentare
      d'inchiesta che lavora da più di un decennio non mi convogliasse il
suo
      stupore, ma le sue informazioni acquisite attraverso l'attività della
sua
      Commissione, dei parlamentari, dei consulenti. Insomma, almeno da
quello
      che rivelano gli atti giudiziari e le udienze della Commissione, se
      Pellegrino diffida degli storici e neppure si cura dei sociologi e dei
      politologi, possiamo dire con sicurezza che le Br sono state
infiltrate? E
      se sì, da chi, come e quando e con quali conseguenze?
      Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro segnarono una triplice
svolta. In
      primo luogo, giunte al punto più alto del loro "successo", poiché
avevano
      colpito quello che pensavano essere il "cuore" dello Stato, le Brigate
      rosse iniziarono il loro declino, anche a causa del contrasto interno
ed
      esterno fra l'ala militarista e l'ala movimentista. In secondo luogo,
per
      quanto davvero colpito al cuore, lo stato italiano prese finalmente
sul
      serio la lotta contro il terrorismo di sinistra, si organizzò meglio
e,
      grazie ad alcuni servitori tanto capaci quanto fedeli, come il
generale
      Carlo Alberto Dalla Chiesa, cominciò a smantellare le Brigate rosse e
a
      impaurire e sfoltire i loro fiancheggiatori. Infine ­ ed è questo il
      prezzo elevatissimo pagato dalla democrazia italiana al terrorismo
rosso,
      che, dunque, fu tutt'altro che privo di conseguenze politiche
      significative ­ senza Moro il sistema politico italiano entrò in una
fase
      di involuzione.
      Con Moro vivo, alla guida politica della fase di solidarietà nazionale
era
      prevedibile che il leader democristiano avrebbe tentato di inserire il
      Partito comunista, prima nella maggioranza parlamentare (cosa che
      avvenne), e poi all'interno stesso della maggioranza governativa,
sebbene,
      probabilmente, in una condizione subordinata. Almeno, questa è la
      strategia che Moro sembrava delineare, sulla sperimentata falsariga
      dell'apertura del centro-sinistra ai socialisti, per quella che aveva
      definito la terza fase del sistema politico italiano. La tragica
      conclusione della vicenda Moro bloccò questa evoluzione; aprì la
strada al
      pentapartito; deviò definitivamente il percorso di espansione della
      democrazia italiana.
      Dunque, le conseguenze dell'azione delle Brigate rosse furono
      tremendamente significative e importanti. Furono anche volute oppure
      soltanto casuali? Si vorrebbe saperne di più, da loro e, forse, anche
dai
      frequentatori delle case altoborghesi dove i terroristi rossi
costituivano
      invitati di riguardo. Al proposito, nell'intervista di Pellegrino non
      poteva mancare il coup de théâtre finale: la famosa/famigerata
«soluzione
      politica degli anni di piombo». Per quanto controversa, è una proposta
      meno eclatante, meno dirompente e meno fantasiosa perché è già stata
      variamente e ripetutamente avanzata sia da politici e commentatori
      interessati sia da ex esponenti di Lotta continua e di altri gruppi
più o
      meno contigui con l'area del terrorismo rosso armato a favore dei
      cosiddetti "compagni che hanno sbagliato", ma mi sembra giusto
pretendere
      preliminarmente almeno che "compagni" e fiancheggiatori dicano alto e
      forte che hanno davvero sbagliato e perché, magari accettando l'idea
che
      una democrazia non si migliora con la lotta armata e con lo
spargimento di
      sangue.
      Pellegrino dice di avere cambiato idea (sulla scorta di quali
      avvenimenti?), poiché aveva pensato che «prima di perdonare, fosse
      necessario fare un'operazione di verità». Poi, nello spazio di un paio
di
      pagine si contraddice. Sembra infatti auspicare l'impunità per
chiunque
      confessi «integralmente i propri crimini o comunque le proprie
      responsabilità», oppure, in alternativa, «una norma speciale sulla
      prescrizione dei delitti commessi per motivazioni politiche nella
notte
      della Repubblica». Infine, la sua posizione vie-ne espressa con la
molto
      più condivisibile affermazione che «il perdono deve diventare il mezzo
per
      conoscere la verità, e la verità la condizione del perdono». Intendo
      queste formulazioni come il suggerimento che si proceda a uno scambio
      concreto fra chi rivela informazioni che conducono a chiarimenti
decisivi
      su avvenimenti e responsabilità e chi ha il potere di concedere
eventuali
      sconti di pena (peraltro, se non sbaglio, già praticabili per i
pentiti
      che collaborino con gli inquirenti). Ogni altra interpretazione e
      traduzione operativa del "perdono" e dell'assoluzione politica sono da
      respingere, per usare il gergo politico, fermamente.
      Forse, alla luce della loro reticenza e invece di attendere
testimonianze
      e rivelazioni postume, sarebbe opportuno chiedere almeno ai politici ­
per
      esempio, Andreotti, Cossiga, Taviani, ma la Commissione potrebbe
      facilmente aggiungere altri nomi ­ la verità, almeno quella parte che
      nascondono e tesaurizzano, rifiutandosi persino di rispondere alle
domande
      della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e sul
terrorismo.
      In definitiva, Pellegrino o chi per lui ­ componenti della
Commissione,
      collaboratori e successori ­ hanno ancora parecchio lavoro da fare per
      contribuire ­ unitamente a tutti coloro, magistrati e studiosi, che in
      questi lunghi anni si sono occupati di terrorismi e di stragi ­ a
colmare
      i vuoti e gli omissis di eventi che hanno segnato la storia italiana
del
      secondo dopoguerra: meno scoop, meno segreti, più fatti provati.




      1. F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la
      strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano,
Feltrinelli,
      1995.
      2. R. Drake, Il caso Aldo Moro, Milano, Tropea, 1996.




      GIANFRANCO PASQUINO è professore di Scienza politica nell'Università
di
      Bologna e al SAIS-Bologna Center della Johns Hopkins University. I
suoi
      libri più recenti sono La transizione a parole (Il Mulino, 2000) e
Critica
      della sinistra italiana (Laterza, 2001). Dal 1987 al 1992 ha fatto
parte
      della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e sul
terrorismo.







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