[Cerchio] La passione di Evelyn

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Author: Tuula Haapiainen
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Subject: [Cerchio] La passione di Evelyn
Da "Il Manifesto" del 27 ottobre 2001


La passione di Evelyn

Nel suo ultimo libro, "Il secolo del gene", uscito in questi giorni per
Garzanti, Evelyn Fox Keller indica i limiti dell'idea che i geni siano ciò
che determina chi e come siamo. Fisica teorica, storica e filosofa della
scienza, studiosa femminista che ha indagato il rapporto tra genere e
scienza, in questa intervista, spiega la pericolosa via imboccata dalla
ricerca


YURIJ CASTELFRANCHI


Divertente, osservare un cristallo incendiarsi. Accadeva la settimana scorsa
(20, 21, 22 ottobre), assistendo a premiazioni, conferenze e talk de "Il
fuoco nel cristallo", ventisettesima edizione della Giornate internazionali
di studio organizzate a Rimini dal centro Pio Manzù, organo delle Nazioni
Unite in Italia. Transennati e coccolati, ingabbiati e lusingati,
scienziati, filosofi e politici di calibro internazionale discutevano
semibradi sotto l'occhio vigile di artificieri e poliziotti.


Nel 1944 Erwin Schrödinger, premio Nobel per la fisica e tra i fondatori
della teoria quantistica, scriveva un piccolo saggio in cui si chiedeva cosa
fosse la vita. Immaginò che essa dovesse basarsi sullo sforzo incessante
degli organismi per liberarsi dell'entropia che essi stessi producono: una
lotta di Sisifo per costruire temporanee isole di ordine in un universo di
crescente disordine. Intuiva, anche, il cuore dell'allora misterioso
meccanismo che permetteva alle cellule di riprodursi uguali a se stesse.
Doveva esserci, scrisse il fisico austriaco, un "cristallo aperiodico", una
struttura stabile e replicabile, fatta di elementi ripetuti, ma aperiodica,
cioè non totalmente ordinata e prevedibile, bensì basata su un sequenza
variabile, tale da poter codificare le informazioni ereditarie per i diversi
organismi. Nove anni dopo, James Watson e Francis Crick mostravano al mondo,
con palline e fil di ferro, come era fatto il cristallo aperiodico: era la
molecola del Dna. Da allora, quella di un cristallo ribelle, ordinato ma non
troppo, è rimasta un'immagine alla base delle scienze della vita. Così era a
Rimini, dove il cristallo immaginato dagli organizzatori dell'incontro era
Gaia, il pianeta vivente, "cristallo" di materia, animato dalla fiamma
cangiante, dalle coreografie e le metamorfosi del fuoco della vita. Ma anche
altri cristalli, epistemologici, si intravedevano a tratti: quello del
riduzionismo e quello del determinismo genetico. Che si incendiavano e
rilucevano, scapigliati, agitati al proprio interno dalle fiamme accese da
un ventennio di dibattiti sulla complessità e l'autorganizzazione, sulla
contingenza storica, sul rapporto fra ordine e disordine.


Chiuso il "Progetto genoma umano", sequenziati i tre miliardi di lettere che
dovrebbero decidere chi siamo, nei mesi scorsi abbiamo assistito spesso al
trionfo della retorica del riduzionismo genetico, quella che gioca
all'annuncio settimanale della "scoperta" di geni dell'omosessualità e
dell'intelligenza, della creatività e del comportamento antisociale, della
sfortuna e dello spirito intraprendente. Ma a Rimini le parole d'ordine
erano altre. L'accento era spostato dal nitore rigido (cristallino) del
determinismo genetico e dell'onnipotenza del gene, alla complessità delle
sue interazioni con la storia di un organismo e con l'ambiente. Non era un
mea culpa antiriduzionista, naturalmente. Né una correzione di rotta
scientifica. Ma si avvertiva la scelta di ricollocare il baricentro
epistemologico e l'enfasi retorica: verso un elogio del disordine, della
complessità, dell'autorganizzazione, della storia, e un netto ammorbidimento
del riduzionismo estremo. Non a caso, fra i premiati del Pio Manzù, con
medaglia del senato italiano, c'era Evelyn Fox Keller.


Fisica teorica, storica e filosofa della scienza al Massachusetts Institute
of Technology, studiosa femminista, Keller è fra quelle studiose che hanno
analizzato a fondo le associazioni storiche tra il maschile e il pensiero
razionale, tra maschile e obiettività, autonomia, distanza, e il loro uso
come parte dei miti costitutivi della scienza moderna. Nel suo ultimo libro,
Il secolo del gene, uscito in questi giorni in edizione italiana (Garzanti),
Keller del "Progetto genoma" ci dice che sì, è stato utilissimo. Proprio per
far capire a tutti i limiti dell'idea che i geni siano ciò che determina chi
e come siamo.


Lo sguardo scanzonato, da monello, che contrasta con i capelli grigi
raccolti in bell'ordine, Keller ride quando le chiediamo se possiamo
intervistare una rarità, una delle poche invitate all'incontro: "Poche
donne? Non ci credo!". Le mostriamo il programma: una trentina gli speaker
invitati, una ventina i premiati. E solo due donne (l'altra è Margherita
Hack). Chiediamo a Keller come interpreti l'enfasi posta da molte relazioni
sulla complessità delle interazioni geniche, sulla fluidità e la plasticità
del genoma. Le elenchiamo alcune delle parole che facevano capolino in molti
dei talk, e che suonano simili a tante di quelle che furono parole chiave
del discorso femminile, e femminista, sulla scienza.



Professoressa Keller, da qualche tempo sembra di assistere, se non a una
rivoluzione nei paradigmi, per lo meno a un loro slittamento dolce,
silenzioso. Il modo in cui parte del mondo scientifico comincia a parlare
della separazione tra soggetto e oggetto, del modo in cui descriviamo la
natura, in cui diamo significato ai modelli scientifici, sembra cambiare in
una direzione immaginata da parte del pensiero femminista negli ultimi
vent'anni. Cosa vuol dire? Che gli scienziati hanno cominciato ad ascoltare
ciò che le donne hanno detto per tanto tempo?



No, le cose non funzionano così. Anche se è vero che il modo di pensare è
cambiato fortemente. E' straordinario, in effetti, comparare cosa dicano
oggi eminenti biologi, per esempio, rispetto a ciò che eravamo abituati a
sentire, dalle stesse persone, venti anni fa. Guardiamo gli scienziati
parlare di genetica, di sociobiologia, di psicologia, di evoluzione, e
vediamo che il resoconto è cambiato totalmente, come da copione politically
correct.



Nel senso che si è cominciato a scegliere come oggetti di studio, settori
d'indagine un tempo trascurati e legati al femminile in biologia?



Per fare un esempio, sfogliavo tempo fa un articolo di sociobiologia, uno
studio sulle cure parentali umane, cioè su come e perché un padre e una
madre si prendano cura dei propri bambini. L'illustrazione principale
dell'articolo mostrava una coppia composta da una donna nera e un uomo
bianco, in cui era l'uomo che, con grande tenerezza, sembrava prendersi cura
della bambina piccola, la quale a sua volta era adottata. Buffo vedere
emergere così, nella scienza, quello che negli Usa va sotto il nome di equal
opportunity. Ma è così perché gli autori hanno ascoltato le femministe? E'
così perché ascoltano le donne? No. Semplicemente, è perché la nostra
cultura è cambiata. Se e come il femminismo abbia avuto un impatto sulla
scienza è un tema che ho affrontato in molti miei lavori. E' interessante,
ad esempio, studiare la storia della scoperta degli "effetti materni" in
biologia, cioè la scoperta dei contributi dovuti al partner femmina di una
coppia in fenomeni che riguardano la genetica, l'evoluzione, l'ecologia, la
medicina. In molti di questi settori, fino a poco tempo fa, erano stati
studiati principalmente i contributi derivanti dal maschio. Ora tutto sta
cambiando. Ma ciò succede perché prima gli scienziati erano sessisti e oggi
non lo sono più? No. In realtà è perché ciò che la gente stava ascoltando
era la televisione. E la televisione cominciava a raccontare storie diverse.
Tanto per fare un esempio, molti hanno visto negli Usa uno sceneggiato di
successo che ha come protagoniste due donne detective. E' un segnale, fra
tanti, del fatto che l'intera cultura è cambiata, e con essa il modo di
pensare alle donne e alla scienza...



Sta dicendo che ciò che è cambiato è la narrazione dei media?



Esatto: il linguaggio è cambiato, ed è cambiata la narrazione. Ed ecco che
oggi assistiamo a una nuova generazione di scienziati che cercano
disperatamente qualcosa di nuovo da fare, da osservare. E che, poco a poco,
si accorgono di qualcosa. Per esempio, per anni la fecondazione è stata
descritta come un uovo del tutto passivo che veniva penetrato da uno
spermatozoo attivo. Ma poi, "guarda qui" - dissero alcuni - "forse anche
l'uovo fa qualcosa, non è poi così passivo come pensavamo... Forse c'è
qualcosa di più, ci sono meccanismi attivi anche nell'uovo, andiamo a
vedere...". E oggi leggiamo nei libri di biologia cellulare che la
definizione di fecondazione è basata su un uovo e uno spermatozoo, attivi,
che si incontrano l'un l'altro e si fondono. E non è accaduto perché
qualcuno abbia ascoltato direttamente i discorsi femministi, ma
semplicemente in seguito a un'evoluzione culturale. Tale slittamento non è
avvenuto grazie alle scienziate, perché non viaggia attraverso le scienziate
ma attraverso la cultura in senso lato e i media.



Nel suo ultimo libro, lei sottolinea come il concetto di gene non sia
definito e lineare come si pensava. I geni interagiscono fra loro e con
l'ambiente in modo tanto complesso da rendere sempre meno sensata la
semplificazione "un gene = una proteina = una caratteristica dell'organismo"
e l'immaginario sulla clonazione umana vista come replica di uguali.
Naturalmente, si tratta di cose note da molti anni. Eppure, sembra che la
retorica dominante sia ancora quella vecchia...



Sa cosa è successo col mio libro? Quando l'ho scritto non immaginavo che
avrebbe potuto scatenare controversie. Stavo cercando semplicemente di
capire perché i genetisti e i biologi molecolari, quando parlano
pubblicamente, raccontano storie fantastiche su cosa facciano i geni, anche
se sanno perfettamente che non sono vere. Sa cosa mi sono sentita dire? "Se
dicessimo davvero come stanno le cose, la gente non potrebbe capire, è
troppo complicato..."



Come dire che per la gente comune dobbiamo usare la vecchia versione. E
anche per l'industria, che i geni deve isolarli e venderli...



Perciò ho deciso di scrivere questo libro. E, indovinate? Molti scienziati
erano assolutamente furibondi. Su Nature sono stata accusata di aver
lanciato una jihad contro il gene. Una cosa è cambiare l'epistemologia
all'interno della comunità scientifica, altra è rendere tutto questo di
dominio pubblico. A quanto pare, ho violato questo tacito accordo.
Ovviamente, però, il problema di brevettare i geni non è un problema di
definizione: quando si brevetta una sequenza di Dna che codifica per una
data proteina non si incontrano ambiguità epistemologiche. La domanda,
semmai, è politica: perché brevettare geni? Il fatto è che la ricerca
biologica è diventata così fortemente intrecciata, e vincolata, al dominio
industriale, che sta diventando virtualmente impossibile separarle: se vuoi
contare su un finanziamento privato non hai alternative, devi brevettare. E'
un problema ampio: ha a che fare con la natura della ricerca scientifica
stessa e le sue responsabilità sociali, con cosa ci aspettiamo da essa, a
cosa si suppone che essa serva, a vantaggio di chi.



Nei suoi lavori sul genere e la scienza lei focalizza l'attenzione, come
hanno fatto altre studiose, sul concetto di desiderio e sulla metafora della
conoscenza intesa come rapporto sessuale. Ha scritto: "una delle metafore
più diffuse in Occidente è quella del rapporto sessuale: la conoscenza come
consumazione, il sesso come forma di conoscenza... Entrambi i termini sono
mediati dal desiderio...". Ma quella del desiderio continua a restare
un'immagine estranea all'autoritratto che la scienza fa di sé. Sta cambiando
anche questo?



Ho scritto molto riguardo ai nessi fra amore e potere nell'ambito della
conoscenza scientifica e della sua retorica. Ma oggi penso che entrambi
siano sostituiti dall'avidità. Credo che oggi molti di coloro che fanno
ricerca in biologia non lo facciano per quel senso di dominare, controllare
la natura che facciamo risalire a Bacone, né per amore della conoscenza o
della natura stessa. Più semplicemente, lo fanno per denaro. Non si tratta
di desiderio né di potere. Si chiama avidità, la terza via... (ride).


Evelyn Fox Keller saluta e sorride. Avvolta in una mantellina rossa, stanca
della giornata, si toglie le scarpe e attraversa scalza la hall del Grand
Hotel. A vederla, ecco, viene da pensare, cos'è il fuoco in un cristallo.


http://www.ecologiasociale.org/pg/ecofemminismo_home.html