[Cm-roma] Io, l'infame di Bolzaneto

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Autore: Oltre
Data:  
Oggetto: [Cm-roma] Io, l'infame di Bolzaneto
Tratto da "Il Venerdì di Repubblica" del 27 Febbraio 2004.

Io, l'infame che rivela le violenze del G8.

Era nella caserma di Bolzaneto, come infermiere. Ha visto gli abusi della
polizia e l'ha detto al telegiornale. Da allora Marco Poggi ha cambiato
lavoro (per le minacce, dice) e ha scritto un libro. Che qui vi anticipiamo.

Articolo di Marco Poggi.

Più tardi arrivarono le immagini della morte di Carlo Giuliani (dopo le 17);
seguimmo la notizia quasi in diretta. La tv mostrò anche la disgustosa scena
nella quale un poliziotto inseguiva un manifestante urlando: «Sei stato tu a
ucciderlo, sei stato tu, coi tuo sasso». Quello è stato uno degli episodi
che ha continuato a rimanermi impresso per parecchi mesi, soprattutto dopo
avere saputo come fosse realmente andato l'episodio della morte di Giuliani.
Si cominciava a respirare un'aria pesante. Come non pensare al desiderio di
vendetta che serpeggiava fra gli agenti?!
Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto. Incrociai un
maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua
risposta mi gelò: «È mortole, mi disse. Per diverse ore continuai a credere
che un carabiniere fosse morto veramente. Perché mai avrei dovuto dubitare
di una cosa detta da un maresciallo dei carabinieri? D'altronde credo che
anche lui ne fosse convinto. Nel silenzio, cominciò a salire la tensione.
Ivano disse: «Non vorrei essere nei panni del primo che arrestano».

(...)

I primi ad arrivare a Bolzaneto furono un ragazzino e una giornalista che
credo fosse francese. Il ragazzo lo vidi già nel cortile: era ammanettato
dentro la pantera e un poliziotto cercava di picchiarlo dando manganellate
con una furia cieca. Nel frattempo, il ragazzino si era spostato dal posto
laterale verso il centro della vettura e l'agente riusciva a colpire solo la
portiera: non gli bastava per sfogare la sua rabbia. Una scena comica, pur
nella sua tragicità. Poi uscì un altro poliziotto in borghese, visibilmente
arrabbiato per il comportamento del collega. I poliziotti non è che fossero
tutti dei violenti. La polizia non ha fatto solo delle porcate. Per
correttezza d'informazione, bisogna raccontare anche le cose normali che ci
sono state. Poi entrambi arrivarono in infermeria e per un po' furono
costretti a stare nella posizione del cigno. La posizione del cigno, come si
diceva in gergo, consisteva nel rimanere in piedi contro il muro, con le
mani appoggiate in alto, la testa appoggiata anch'essa contro il muro e le
gambe divaricate.

Durante queste attese vige l'assoluto divieto di muoversi o parlare. Di
norma le perquisizioni non si sarebbero dovute tenere in infermeria, in
carcere naturalmente questo non avviene, ma per motivi di spazio e di tempo
i detenuti venivano spogliati, visitati e perquisiti in successione. È
questo uno dei motivi, casuale, per cui tante violenze sono state consumate
proprio sotto gli occhi del personale sanitario. Abbia­mo visto parecchi
ragazzi e ragazze denudarsi, ma questo è normale du­rante le perquisizioni e
le visite. È umi­liante, soprattutto in occasioni come quella, ma mi risulta
essere legittimo. In quindici anni di lavoro in carcere ho visto centinaia
di ragazze denudarsi. Forse, in mezzo a tutte le altre, questa è stata una
delle cose legali avvenute in quei giorni.

Dopo un po', andai nel gabbione a vedere come stava la donna: non
di­menticherò mai i suoi occhi dentro i miei. Eppure, avendo lavorato in
gale­ra a contatto con assassini e stupratori, pensavo di avere una sorta di
corazza che mi proteggesse dal coinvolgimen­to con le sofferenze dei
detenuti. Non quella volta. 1 suoi occhi, lì, non li di­menticherò mai.

Al ragazzo, minorenne, ordinarono di fare le flessioni. Non era una cosa
strana: il regolamento lo prevede come com­pletamento alla perquisizione,
per accertarsi che l'arrestato non abbia na­scosto oggetti proibiti. Il
detenuto doveva spogliarsi nudo e poi ­flettersi sulle ginocchia, col tronco
eretto - non la tipica flessione da marine - così se avesse avuto qualcosa
nell'ampolla ret­tale lo avrebbe fatto venire fuori. II dramma fu che il
ragazzino era talmente impaurito da non riuscire a farle, quelle maledette
flessioni, forse non riusciva a capire neanche cosa gli stessero chiedendo.
E continuò a tre­mare senza emettere alcun grido, an­che mentre un agente lo
prendeva a calci e pugni. Dopo oltre due anni, ho ancora nelle orecchie quel
rumore dei pugni nelle reni. Stava a terra, in silen­zio, con una
grandissima dignità ma anche senza fiato per il dolore.

(...)

Dare un cazzotto nei reni perché non sa fare le flessioni?! Quello non è un
detenuto incallito, uno che sa già tutto, è solo un ragazzo spaventato.
Qualche ora dopo, cominciò l'infini­ta processione dalle piazze alle
caser­me. La maggior parte dei manifestanti era «fermata» in base a generici
ele­menti di sospetto, il loro era uno stato di «fermo». Pochi furono gli
arrestati, quelli che ricevettero formalmente la notifica di un capo di
accusa.

(...)

Ad accoglierli c'erano i poliziotti che li aspettavano all'ingresso,
formando il famoso «corridoio». Quando scendevano dalla macchina, i detenuti
avevano circa otto metri da percorrere tra due file di agenti che
manganellavano. Durante il passaggio verso i gabbioni, sputi, calcetti e
insulti non venivano risparmiati. Arrivati ai cinque scalini, queste
persone - perché erano delle persone normalissime e non dei black block (e,
se anche lo fossero stati, in quel momento erano inoffensivi, quindi
andavano trattati come gli altri, su questo non transigo) - venivano portati
di fronte al medico che li visitava e sentenziava: «Abile e arruolato».

In pratica il medico, dopo una guardata veloce, doveva stabilire se il
detenu­to fosse in buone condizioni (quindi abile e arruolato) e potesse
andare dentro al gabbione oppure dovesse es­sere inviato temporaneamente in
in­fermeria. In realtà, anche se qualcuno avesse avuto delle ferite, una
volta che lui aveva detto «abile e arruolato» era inutile protestare e si
doveva fare il ci­gno, per il tempo che stabilivano loro: poteva essere un
paio d'ore come an­che molte di più. La motivazione di quell'attesa non
veniva mai spiegata ai ragazzi, talmente era banale. Avrebbe dovuto durare
solo il tempo necessa­rio all'identificazione alla matricola.

Possono dire quello che vogliono: quei ragazzi sono stati ore in piedi! Se
chiedevi a un agente della penitenzia­ria il motivo di quelle estenuanti
atte­se, ti rispondeva: «Sono lenti, quelli della Polizia di Stato>>.

Poi, invece, nei gabbioni avvenivano le violenze vere. Questa piccola, ma
deva­stante, parte della polizia poté dare sfogo alla propria rabbia e
vendicare il carabiniere che, da grave, sarebbe poi morto. Tutto si
giustificava anche per questa vendetta.

Una vendetta che, fondata sulla menzogna (nessun carabiniere era morto e
nessuno ferito gravemente), alimentava il clima di odio e di arro­ganza.

(...)

«Da quel giorno intorno a me il clima si è fatto pesante».

MARCO POGGI era Infermiere al carcere di Bologna quando, nel luglio 2001, fu
distaccato a Bolzaneto per il G& denunciò, al Tg3, le violenze consumate
nella caserma genovese. Racconta di essere stato minacciato e per questo ha
lasciato il lavoro: ora la sua esperienza al G8 è diventato un libro, Io,
l'infame di Bolzaneto (Edizioni Yema, pp. 124, curo 9,00). La prefazione è
di Giuliano Giuliani, la prostfazione di Giuliano Pisapia.