[NuovoLaboratorio] genova e il passticcio dell'Istituto Ital…

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Autor: Andrea Agostini
Data:  
Assunto: [NuovoLaboratorio] genova e il passticcio dell'Istituto Italiano di Tecnologia
dal manifesto - 22 Febbraio 2004


Quel pasticciaccio che si chiamerà Iit
FRANCO CARLINI

Quel pasticciaccio che si chiamerà Iit

Nasce a Genova il nuovo mostro pensato dai ministri Tremonti e Moratti, un
laboratorio dal nome impronunciabile che vuole scimmiottare il glorioso Mit
di Boston. Mentre l'università italiana è in rivolta a causa dei tagli del
governo e per la precarizzazione del lavoro, sui laboratori liguri pioverà
oltre un miliardo di euro. Per fare «ricerca applicata», tutta a favore del
mercato e delle industrie

Baroni in crescita Il veloce spostamento di risorse rimescola la
costellazione dei potentati universitari. In corsa per allinearsi al governo

FRANCO CARLINI

Decenni di studi sul rapporto tra scienza e società banalizzati in una
semplice figurina che vorrebbe rappresentare la filiera della ricerca. Sono
cinque frecce, disegnate alla maniera della solita catena del valore: si
comincia con la «ricerca di base», che produce «scoperte», le quali vengono
prese in consegna dalla «ricerca applicata», generatrice di «brevetti».
Questi alimentano un qualche «sviluppo sperimentale» che crea i «prodotti» e
infine, grazie alla «ricerca e sviluppo d'impresa», vanno al «mercato». Tale
idea lineare, irrealistica e ignorante del rapporto tra la ricerca
fondamentale, l'innovazione e la società, compare sul sito dell'Istituto
Italiano di Tecnologia (www.iit.it), che nascerà a Genova per decisione dei
ministri Tremonti e Brichetto-Moratti, tra gli applausi trasversali di tutto
lo schieramento politico genovese, ovviamente assai grato per il regalo di
1050 milioni di euro in dieci anni. (L'acronimo IIT è talmente
impronunciabile che ci permetteremo di sostituirlo con I2T).

Il giorno dopo invece all'università di Roma si riunivano ricercatori veri e
professori esistenti, per segnalare tutto il loro disappunto verso una
riforma dell'università che nulla fa per la ricerca e che anzi la deprime.
In precedenza il volonteroso professor De Maio, nei mesi scorsi proiettato
da Brichetto-Moratti a commissario del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
si era messo metaforicamente ma pubblicamente le mani nei capelli per la
pensata governativa di creare dal nulla un Mit italico, anziché concentrare
risorse e impegni su Cnr e università, già così malconci.

Del resto le cose non sono mai andate così nella scienza, nella tecnologia,
e nel mercato, e la linearità del percorso è solo una leggenda: ci sono
scoperte che non sono mai divenute prodotto, anche quando l'avrebbero
meritato, ci sono prodotti insensati, creati per moda e senza alcuna vera
utilità pratica né sociale, ci sono interi settori della ricerca per i quali
mancano i finanziamenti perché il virtuoso mercato non li reputa degni di
attenzione. E per fortuna che ogni tanto c'è qualche miliardario
lungimirante che dirotta parte dei suoi larghi profitti verso ricerche
fondamentali da tutti trascurate: è il caso dunque, almeno per una volta, di
applaudire Bill Gates che attraverso la sua fondazione ha appena destinato
82,9 milioni di dollari alla ricerca sulla tubercolosi, una malattia di
nuovo risorgente che ogni hanno uccide due milioni di persone.

La scelta del governo ha anche un risvolto elettorale, a supporto di un
presidente forzista della regione Liguria, Sandro Biasotti, la cui
riconferma è assai dubbia e che perciò sta molto investendo in
presenzialismo in questo suo ultimo anno di gestione. Ma non è questo
l'elemento più significativo; più interessante semmai (e nel senso negativo
del termine) è l'idea di ricerca e sviluppo che il progetto delinea. Esso è
generico, confuso e insieme velleitario negli obbiettivi.

Generico: si parla di «Facilitare e accelerare la crescita, nel sistema
della ricerca nazionale, di capacità scientifiche e tecnologiche. Con
l'obbiettivo di realizzare la transizione del sistema economico verso
produzioni a più alto contenuto tecnologico e quello di incentivare e
promuovere la collaborazione tra gruppi di eccellenza che operano nelle
università e nei centri pubblici di ricerca e il sistema produttivo del
paese». Chi potrebbe obbiettare a formulazioni così vaste e così ovvie,
addirittura di sapore costituzionale, come la crescita e la condivisione dei
saperi e lo sviluppo dell'economia sulle frontiere avanzate? Nessuno
ovviamente, e dunque questa formulazione nulla dice; lascia solo il dubbio
del perché quei compiti nobili non debbano essere richiesti appunto a
università e istituti pubblici che li hanno già scritti chiaramente nei loro
statuti. Il ministro Tremonti ha spiegato al riguardo che si trattava di
introdurre un elemento di forte discontinuità, una scossa insomma, rispetto
a un sistema della ricerca ingessato e burocratizzato. Come a dire che
quando le riforme vere e pazienti si rivelano faticose, sia meglio
realizzare degli spiazzamenti, fidando che essi abbiano l'effetto di
contagiare positivamente il resto del sistema. Se poi hanno anche un effetto
mediatico, tanto meglio.

Andrà ricordato, di passaggio, che la riforma del Cnr, nei mesi scorsi così
contestata, ha realizzato il piccolo capolavoro negativo di ricondurre sotto
il governo e i baroni ad esso più fedeli un ente di ricerca come l'Istituto
Nazionale di Fisica della Materia che negli anni già aveva progettato e
praticato molte di quelle ricerche di eccellenza nelle materie di base e
nelle applicazioni che oggi si vuole affidare all'I2T. L'Infm aveva anche
realizzato un sistema agile di programmazione e gestione, un modello di
ricerca insieme seria e proiettata. Dunque questo governo schizofrenico con
una mano smonta e con l'altra improvvisa.

Ma nel concreto come funzionerà l'I2T genovese? Due anni di lancio, gestiti
da un commissario e da un comitato scientifico (ovviamente un «board», tanto
per essere provinciali fino in fondo). A regime si parla di 1000-1500
ricercatori direttamente alle dipendenze dell'Istituto e qui i conti
cominciano a vacillare perché un tale numero si mangia subito la metà almeno
dei 100 milioni annui di finanziamento. I ricercatori italiani o stranieri
che vengano in Italia a operare all'I2T avranno comunque il gradevole
incentivo di essere gravati di tasse solo per il 10 per cento, senza dover
praticare l'autoriduzione «moralmente giustificata» da Berlusconi. Tremonti
dice che spera nel cofinanziamento da parte delle industrie interessate alla
ricerca, ma questa sembra una discreta illusione; più realisticamente le
industrie si stanno già mettendo in coda per farsi finanziare dall'I2T.

Ma quali i filoni di ricerca? Due sono quelli annunciati: «Sistemi di
produzione» e «Salute-Biotecnologie», solo lontanamente parenti. Il primo
sembra alludere all'innovazione di processo, che peraltro è l'unico settore
in cui l'industria italiana negli anni scorsi ha fatto decentemente la sua
parte, dai robot alle macchine utensili. Il testo ministeriale accenna al
fatto che in questo modo si incentivano «le esportazioni italiane di
prodotti di alta tecnologia e del made in Italy», e purtroppo anche in
questo caso l'empito propagandistico di Brichetto-Moratti-Tremonti, ha il
solo effetto di generare confusione: parliamo di prodotti a altro contenuto
tecnologico, magari fatti con nuovi materiali? Allora i «sistemi di
produzione» non c'entrano. Parliamo di Made in Italy nel design, nella moda
e nell'alimentazione? Allora contano le idee creative e molto meno le
tecnologie.

Il settore della salute e delle biotecnologie, ci spiegano i ministri, «è in
forte espansione perché in esso si registrano forti avanzamenti nelle
conoscenze», il che è tanto vero da essere un'affermazione vacua, così come
è vero, peraltro, che università, laboratori del Cnr e lo stesso Istituto
superiore di Sanità offrono già diversi luoghi di alta qualità: meno del
dovuto, probabilmente, ma validi. E' auspicabile che il Comitato Scientifico
(pardòn, il board internazionale) riesca a mettere un po' di ordine e ad
assegnare qualche obbiettivo non generico alle ricerche in questo settore.
Si vedrà tra due anni, ma dovrebbe essere chiaro fin d'ora che sotto quella
etichetta non può andare tutto, se l'azione vuole essere efficace: nuovi
farmaci? nuovi kit diagnostici? E con quale gestione della proprietà
intellettuale? Lo stato paga e l'industria brevetta? Per ora siamo alla
propaganda allo stato puro, purtroppo coperta da firme illustri come Rita
Levi-Montalcini.

Università a premi
Europa, fondi governativi solo ai più bravi

F. C.

Tutti vogliono la ricerca potenziata, ultimi in ordine di tempo i tre paesi
del direttorio europeo, Francia, Germania, Inghilterra. Ma sul come, ognuno
va sperimentando soluzioni diverse, avendo come modello-miraggio i grandi
istituti di ricerca americani, tipo Stanford, Princeton e Harvard. La
ministra tedesca per la scienza, Edelgard Bulmahn, in un recente incontro a
Berlino ha proposto una specie di gara tra le più di 100 università del
paese per accedere a dei fondi extra: le cinque università vincenti avranno
50 milioni di euro annui in più. L'investimento totale del governo federale
sarà di 1,25 miliardi di euro che potrebbero essere ottenuti vendendo parte
delle riserve auree della Banca centrale tedesca. In sostanza ogni
università che voglia competere dovrà presentare un piano per il
miglioramento sia della ricerca che dell'insegnamento. Tra i partecipanti
all'incontro di Berlino c'erano anche il premio Nobel per la fisica Störmer
della Columbia University e il cancelliere Gerhard Schröder. «Abbiamo un
urgente bisogno di più fondi per la ricerca, ma dobbiamo anche ottenere
maggiore qualità dai nostri soldi», ha detto la ministra.

Una gara analoga era stata effettuata in Germania nel 1996, con lo scopo di
promuovere le ricerche sulle biotecnologie. Si chiamava «Bioregio» e a
partecipare erano state chiamate appunto le singole regioni, sollecitate a
presentare dei progetti di ricerca avanzata. Il bilancio è stato abbastanza
soddisfacente e la mappa dei «biopark» nati per l'occasione è visibile
sull'apposito sito http://www.bioregio.com.

In Inghilterra in queste settimane viene rivisitato un precedente progetto
chiamato «Research Assessment Exercise». Si tratta di valutare in maniera il
più possibile oggettiva le prestazioni di ricerca delle singole un
università e sulla base di tali graduatorie distribuire 8 miliardi di
sterline annuali. Nella precedente versione il sistema aveva ricevuto molte
critiche perché i criteri di distribuzione premiale non erano
sufficientemente condivisi e nemmeno trasparenti. Basti dire che il
Consiglio preposto alla distribuzione non aveva voluto rendere pubbliche le
formule sulla cui base le somme erano state distribuite.



Da l'Unità del 24.02.2004

Ricerca tre passi nel buio
di Pietro Greco

Letizia Moratti, ministro dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca,
ha presentato di recente il disegno di legge delega sul «Riordino dello
stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari». Giulio
Tremonti, ministro dell'Economia, ha firmato nei giorni scorsi a Genova,
insieme alla stessa Letizia Moratti, il decreto che inaugura l'Istituto
Italiano di Tecnologia (Iit) immediatamente commissariato e affidato alla
direzione del Ragioniere generale dello Stato, Vittorio Grilli. Adriano De
Maio, Rettore dell'università privata Luiss e Commissario del massimo Ente
pubblico di ricerca italiano, il Cnr, ha inviato nei giorni scorsi ai
direttori degli oltre cento istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche
l'atteso documento in cui prefigura la sua proposta di riordino della
struttura fondata da Vito Volterra e guidata, tra gli altri, da Guglielmo
Marconi.
Così, per caso, in pochi giorni e tra mille contestazioni ci sono stati
offerti, finalmente, un numero di elementi sufficienti per capire in che
direzione sta andando la ricerca scientifica italiana sotto il governo
Berlusconi.
Cominciamo dall'università. Quello proposto dal Ministro del Miur, signora
Moratti, è un riordino a costo zero. Eppure capace, come rileva Giulio
Baillo, Rettore del Politecnico di Milano, di minare alla base addirittura
«il ruolo e la missione dell'università». Dell'università pubblica,
aggiungiamo noi. Per i motivi che sono ampiamente denunciati in questi
giorni da professori e studenti, mai così uniti nella lotta. La
precarizzazione (brutto termine per una bruttissima prospettiva) della
carriera universitaria e la liceizzazione (brutto termine per una
prospettiva addirittura medievale) degli atenei pubblici, destinati -
proprio come succedeva nelle università del Tardo Medioevo - a produrre
didattica senza ricerca. Se questa riforma verrà attuata, la qualità dell'
università italiana pubblica scadrà a livelli bassissimi. Tanto da svuotare
di senso sia il concetto di "università di massa" (ovvero aperta a tutti,
ricchi e poveri) sia quello di "università motore delle produzione di nuove
conoscenze" che, da almeno due secoli a questa parte, costituisce il
fondamento dell'organizzazione scientifica e culturale in tutto il mondo.
Come sostiene Baillo, il «ruolo e la missione dell'università» saranno
stravolti. Con quali conseguenze? Con tre conseguenze prevedibili. La
migrazione (verso l'estero, verso università private italiane tutte da
costruire) degli studenti più abbienti e dei professori più richiesti. Il
parcheggio per qualche anno dei giovani meno abbienti che restano a studiare
nell'università-liceo in attesa di un lavoro qualificato che non verrà mai.
Quella di prosciugare la gran parte della ricerca scientifica di base del
nostro paese (piccola, ma spesso di qualità) e di prosciugare, quindi, la
stessa cultura della ricerca in un periodo in cui, ironia della sorta, nel
mondo occidentale sta nascendo la "società della conoscenza". Poiché -
Giappone docet - non c'è sviluppo duraturo senza ricerca pubblica di base,
la direzione verso la quale punta con decisione la riforma delle università
è tanto chiara quanto paradossale: portare l'Italia fuori dalla "società
della conoscenza".
La medesima direzione verso cui sembra puntare la costituzione, a Genova,
dell'Istituto Italiano della Tecnologia per volontà del ministro dell'
Economia Giulio Tremonti. La firma, in pompa magna, del decreto istitutivo
dell'Iit ha infatti iniziato a rendere più chiara la sua fumosa fisionomia.
L'istituto che in Italia dovrebbe rinverdire le gesta del mitico Mit di
Boston sarà diretto, unico esempio in Occidente, dal Ragioniere generale
dello Stato. E, probabilmente, non si fonderà sul lavoro di centinaia di
scienziati impegnati a realizzare precisi programmi di ricerca, ma su pochi
amministrativi (si parla di una decina) impegnati a distribuire risorse,
cospicue per l'Italia, senza un progetto scientifico. L'impressione è che l'
Iit finirà per diventare un'agenzia e per dispensare i suoi fondi a pioggia
ad aziende private italiane prive di una vocazione per l'innovazione fondata
sulla ricerca. Quei fondi, peraltro, non sono pochi nel panorama
tecnoscientifico italiano e vengono sottratti alla ricerca pubblica. Ancora
una volta il messaggio è chiaro: meno soldi al pubblico, più soldi
(pubblici) al privato. Con questo tipo di approccio il sistema produttivo
italiano non riuscirà mai a entrare in quel settore decisivo della
competizione economica internazionale che è l'alta tecnologia.
Veniamo, infine, al progetto di riordino del Cnr che il commissario
governativo Adriano De Maio ha trasmesso nei giorni scorsi ai direttori d'
Istituto del Cnr. Non entreremo nei dettagli. Diremo subito che il progetto
De Maio, che peraltro è ancora in corso, non segue, per fortuna, le
direttive del Ministro Moratti. Che il commissario ha adottato un metodo
abbastanza partecipativo, coinvolgendo le strutture del Cnr. Che il suo
progetto ha una sua filosofia interna ben definita e coerente. Anche se la
sua filosofia - trasformare il Cnr in un Ente di ricerca con una fortissima
vocazione all'applicazione tecnologica - non è quella della gran parte dei
ricercatori dell'Ente e, per quel che conta, neppure la nostra.
In definitiva, a parte una certa analisi ingenerosa nei confronti dei
presidenti che l'hanno preceduto, Adriano De Maio conferma la sua nota
abilità e propone un progetto di riordino piuttosto radicale, ma logicamente
fondato. Con un difetto, però. Non c'è alcuna indicazione dei costi. E non c
'è alcuna indicazione perché Adriano De Maio sa che i soldi di cui avrebbe
bisogno non ci sono. Che il nostro governo, quando si tratta di riformare le
strutture pubbliche, lesina i quattrini. Annuncia nozze mettendo a
disposizione solo fichi secchi. Ma le riforme strutturali, come le nozze,
non si fanno con i fichi secchi. Lo riconosce lo stesso De Maio: «Questa
struttura regge soltanto se esiste un sistema pluriennale di finanziamento».
Sistema pluriennale di finanziamento su cui il nostro massimo Ente pubblico
di ricerca, il Cnr, non può evidentemente contare, a differenza dell'Iit di
Tremonti.
Ma non mancano solo i soldi (che pure sono indispensabili). Manca anche e
soprattutto la politica. Adriano De Maio, a conclusione del suo documento,
sembra indicare le condizioni per una saggia direzione della ricerca: «In
questo momento caratterizzato da scarsità di risorse e da una struttura
industriale che ha poca propensione all'investimento ed è costituita
prevalentemente da piccole e medie imprese, è la mano pubblica a giocare il
ruolo principale nella definizione di una strategia della ricerca in
Italia».
Non distruzione del pubblico, dunque, ma, al contrario, forte direzione del
pubblico per stimolare la nascita di una reale vocazione alla ricerca anche
nella nostra industria privata.
Adriano De Maio ricorda che esiste una «forte correlazione tra una chiara
"strategia pubblica"» e la percentuale della ricchezza nazionale che un
sistema Paese (pubblico più privati) investe in ricerca. Anche i privati,
infatti, hanno bisogno di una "strategia pubblica" forte e chiara. Perché
«un'azienda investe in un Paese se "sa" dove il Paese stesso vuole andare».
Non è un caso che nel paese leader dello "sviluppo fondato sulla ricerca" e
della "scienza imprenditrice", gli Stati Uniti, a definire la strategia, con
politiche chiare e mezzi finanziari pubblici imponenti, sia il governo
federale.
Va da sé che, se Adriano De Maio sente il bisogno di fare questa notazione
sulla "strategia pubblica" è perché rileva che in questo momento il nostro
paese non "sa" dove vuole andare. Nella distruzione, sistematica eppure
furiosa, della ricerca pubblica il ministro del Miur, Letizia Moratti, il
ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e l'intero governo Berlusconi si
sono dimenticati del loro dovere politico primario. Indicare al Paese una
strategia. Dire all'Italia dove deve collocarsi in quella che una volta
veniva chiamata la divisione internazionale del lavoro.
Ecco, dunque, che il decreto Moratti per l'università, l'inaugurazione dell'
Iit e il progetto di riordino del Cnr a opera del commissario De Maio ci
forniscono l'indicazione chiara della direzione verso cui punta il governo
Berlusconi: distruggere la ricerca pubblica e la pubblica formazione e poi
vagolare nel buio, senza meta.