[Lecce-sf] Sì, no, non so

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Il voto al senato, mercoledì sera, non è un incidente di percorso, una casualità, un errore, una disgraziata scelta tattica, una convulsione tra i regolamenti della camera alta, o sinonimi di questi eufemismi. Dichiararsi “contro la guerra” e decidere di non partecipare al voto (perché astenersi, al senato, equivale a un voto contrario), da parte dei “riformisti” della “lista unitaria” ulivista e prodiana, non è una contraddizione.

di Pierluigi Sullo - Carta

Alla angosciata domanda, che molti si fanno, sul perché la maggioranza dei Ds e la Margherita abbiano commesso quel che Valentino Parlato chiama sul manifesto di giovedì “un suicidio politico”, sono possibili centinaia di risposte, più o meno elusive. In particolare, quella che si accredita di più è che, essendo sì quella parte del centrosinistra ostile alla guerra nordamericana in Iraq, ha preferito non votare per non dare occasione ai berlusconiani di condurre una campagna di propaganda sul tradimento dell’Occidente o simili. Ma, a parte il fatto che la propaganda su una “lista unitaria” che si frantuma alla prima prova è molto efficace, suggerirei di rovesciare i termini del problema. I “riformisti” si dichiarano “contro la guerra” perché sanno, come anche il sondaggio pubblicato giovedì, sempre sul manifesto, dimostra, che il loro elettorato è profondamente contrario alla guerra in generale e, nonostante la marea di retorica seguita alla strage di Nassiryia, ostile anche
alla
spedizione militare-coloniale delle nostre truppe.

Ma, siccome D’Alema e Rutelli (e probabilmente anche Prodi, nonostante gli elogi postumi alla protesta globale del 15 febbraio 2003 nel discorso alla “convention” della scorsa settimana) sono a loro volta profondamente convinti che questa ostilità alla guerra è un fatto emotivo, o utopico, e che la politica vera invece è lì, e che il realismo impone di giocare dentro quel Risiko, allora rendono molti omaggi alla visrtù pacifista, dicendosi appunto “contro la guerra”, ma all’atto pratico scelgono un comportamento che non li distacchi dal presunto “centro” dell’elettorato (invenzione geniale quanto fantasiosa, che condiziona tutti i sistemi politici dominati dai sondaggi e dalla tv) e, soprattutto, non induca gli “alleati”, cioè gli Stati uniti, a sospettare che gli antagonisti elettorali e possibili successori di Berlusconi sono inaffidabili.

Cosa è cambiato, da quando, Massimo D’Alema essendo seduto sulla poltrona oggi di Berlusconi, l’Italia partecipò alla guerra (illegale perfino per gli statuti della Nato) contro la Serbia e ai bombardamenti su Belgrado? Risposta: niente. I presupposti, le alleanze, l’orizzonte di allora sono rimasti gli stessi. Quel che è cambiato è che la contrarietà alla guerra è enormemente più ampia di allora, anche perché quella in Afghanistan e in Iraq non si presenta, come nel caso del Kosovo, come una “guerra umanitaria” a termine, un singolo caso, ma come la “guerra infinita contro il terrorismo”.

Ed è questo, fondamentalmente, che i “riformisti” non hanno capito (come una quantità di altre cose, impegnati come sono nel bricolage politico-elettorale-televisivo). La guerra e la pace non sono un problema “tattico”, sono il discrimine fondamentale tra il neoliberismo globale per come è diventato dopo l’11 settembre e una società civile altrettanto globale che tenta in ogni modo, e con convinzione crescente, una via di uscita. Perciò l’essere per la pace non è, come scrive ogni settimana sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, una “utopia”, ma la sola politica concreta possibile. A patto non si pensi che una vita “normale”, per usare un aggettivo caro a D’Alema, consista nell’alzare muri e barriere, nel militarizzare la vita civile.

Prodi e i suoi sono meglio di Berlusconi, non c’è dubbio, e se vinceranno le elezioni saremo tutti più sollevati. Ma se i tanti, e diversi, che anche in parlamento e nel sistema politico hanno scelto senza esitazioni la pace offrissero a noi poveri elettori una lista comune, per esempio alle prossime europee, e nei tanti comuni e nelle tante province nelle quali si voterà, gliene saremo molto grati. Si tratta di culture e gruppi dirigenti molto differenti tra loro, ma l’essere pro o contro la guerra è, appunto, un discrimine fondamentale, e unirsi su un tema così decisivo lascerebbe a ciascuno l’agio di fare poi, su molti altri temi, quel che vuole. E’ solo un’opinione personale, di uno che si chiede, come milioni di altri: per chi voto, stavolta? E soprattutto: perché voto?

Pierluigi Sullo - Carta



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dimento
dell’Occidente o simili. Ma, a parte il fatto che la propaganda su una “lista unitaria” che si frantuma alla prima prova è molto efficace, suggerirei di rovesciare i termini del problema. I “riformisti” si dichiarano “contro la guerra” perché sanno, come anche il sondaggio pubblicato giovedì, sempre sul manifesto, dimostra, che il loro elettorato è profondamente contrario alla guerra in generale e, nonostante la marea di retorica seguita alla strage di Nassiryia, ostile anche alla spedizione militare-coloniale delle nostre truppe. <BR><BR>Ma, siccome D’Alema e Rutelli (e probabilmente anche Prodi, nonostante gli elogi postumi alla protesta globale del 15 febbraio 2003 nel discorso alla “convention” della scorsa settimana) sono a loro volta profondamente convinti che questa ostilità alla guerra è un fatto emotivo, o utopico, e che la politica vera invece è lì, e che il realismo impone di giocare dentro quel Risiko, allora rendono molti omaggi alla visrtù pacifista, dicendosi
appunto
“contro la guerra”, ma all’atto pratico scelgono un comportamento che non li distacchi dal presunto “centro” dell’elettorato (invenzione geniale quanto fantasiosa, che condiziona tutti i sistemi politici dominati dai sondaggi e dalla tv) e, soprattutto, non induca gli “alleati”, cioè gli Stati uniti, a sospettare che gli antagonisti elettorali e possibili successori di Berlusconi sono inaffidabili. <BR><BR>Cosa è cambiato, da quando, Massimo D’Alema essendo seduto sulla poltrona oggi di Berlusconi, l’Italia partecipò alla guerra (illegale perfino per gli statuti della Nato) contro la Serbia e ai bombardamenti su Belgrado? Risposta: niente. I presupposti, le alleanze, l’orizzonte di allora sono rimasti gli stessi. Quel che è cambiato è che la contrarietà alla guerra è enormemente più ampia di allora, anche perché quella in Afghanistan e in Iraq non si presenta, come nel caso del Kosovo, come una “guerra umanitaria” a termine, un singolo caso, ma come la “guerra infinita contr
o il
terrorismo”. <BR><BR>Ed è questo, fondamentalmente, che i “riformisti” non hanno capito (come una quantità di altre cose, impegnati come sono nel bricolage politico-elettorale-televisivo). La guerra e la pace non sono un problema “tattico”, sono il discrimine fondamentale tra il neoliberismo globale per come è diventato dopo l’11 settembre e una società civile altrettanto globale che tenta in ogni modo, e con convinzione crescente, una via di uscita. Perciò l’essere per la pace non è, come scrive ogni settimana sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, una “utopia”, ma la sola politica concreta possibile. A patto non si pensi che una vita “normale”, per usare un aggettivo caro a D’Alema, consista nell’alzare muri e barriere, nel militarizzare la vita civile. <BR><BR>Prodi e i suoi sono meglio di Berlusconi, non c’è dubbio, e se vinceranno le elezioni saremo tutti più sollevati. Ma se i tanti, e diversi, che anche in parlamento e nel sistema politico hanno scelto se
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esitazioni la pace offrissero a noi poveri elettori una lista comune, per esempio alle prossime europee, e nei tanti comuni e nelle tante province nelle quali si voterà, gliene saremo molto grati. Si tratta di culture e gruppi dirigenti molto differenti tra loro, ma l’essere pro o contro la guerra è, appunto, un discrimine fondamentale, e unirsi su un tema così decisivo lascerebbe a ciascuno l’agio di fare poi, su molti altri temi, quel che vuole. E’ solo un’opinione personale, di uno che si chiede, come milioni di altri: per chi voto, stavolta? E soprattutto: perché voto? </DIV>
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