EVVIVA I TEPPISTI DELLA GUERRA DI CLASSE!
Abbasso gli adoratori dell'ordine costituito!
Non è mai avvenuto, nella storia del movimento operaio, nemmeno nei periodi
di più vile opportunismo di partiti e sindacati, che gli operai che
insorgono contro le sopraffazioni del capitale e dei suoi lacchè, e che,
ricorrendo all'arma dello sciopero, non dimenticano che questo è appunto
un'arma, un'arma di guerra sociale, fossero bollati come "teppisti" e come
"provocatori" da quelli che sconciamente pretendono di rappresentarli.
I peggiori riformisti potevano deplorare gli "eccessi" ai quali, secondo
loro, gli scioperanti si abbandonavano; ma era prassi corrente, alla quale
essi stessi si inchinavano, che lo sciopero fosse non già l'innocua
manifestazione aziendale, simile a una festa di parrocchia, alla quale oggi
lo si vorrebbe ridurre, ma una franca e decisa battaglia dilagante dalle
fabbriche nelle vie e nelle piazze, mentre per i comunisti che portavano
questo nome non per forza di inerzia storica ma per milizia vissuta, il
dilagare dello sciopero dai limiti aziendali e il suo scontrarsi come
episodio della guerra di classe nelle forze dell'ordine non solo erano
scontato, ma salutato con entusiasmo come un fatto sociale fecondo, perché
spezzava le barriere delle convenzioni e delle gerarchie stabilite e poneva
anche la più modesta battaglia rivendicativa al centro di un più vasto gioco
di azioni e reazioni sociali, in cui non una singola categoria operaia ma
l'insieMe dei proletari erano inevitabilmente travolti e recitavano, volenti
o nolenti, il ruolo di protagonisti, scrollando dal sonno i dormienti,
abbattendo i confini fra settore e settore, opponendo in forma netta e
irrevocabile classe contro classe.
Era il risveglio della "santa canaglia", e canaglia era un titolo onorifico,
così come oggi teppismo è un titolo di disprezzo; e i combattenti oscuri di
queste battaglie aperte erano esaltati e contrapposti al marciume dei
crumiri e dei "lavoratori in colletto duro", così come oggi si pretenderebbe
che i proletari fossero tutti in colletto duro, crumiri anche quando
scioperano, per distinguersi dalla "teppa" dei veri, autentici scioperanti.
Torino proletaria, che i partiti del più sconcio tradimento si sono
precipitati a battezzare "teppista" con un servilismo di fronte al quale i
vecchi arnesi del riformismo diventano rispettabili, ha fatto né più né meno
quello che una tradizione non imbelle insegnava: ridestatasi dal lungo sonno
del paternalismo vallettiano e del costituzionalismo e legalitarismo
sindacale e politico dei partiti della convivenza pacifica, della
democrazia, e imboccata la via dello sciopero, essa è balzata d'un salto
come gia negli episodi della Lancia e della Michelin al disopra di un
trentennio di pacifismo sociale, ha ridato sangue e vita al motto marxista
che lo sciopero è la "scuola di guerra" del proletariato, non una festa
patronale o una celebrazione patriottica.
Violenza? Certo: non era stata violenza la firma, da parte di due sconce
organizzazioni cosiddette operaie, di un contratto separato forcaiolo? Non è
e non continua ad essere violenza lo sfruttamento al quale sono sottoposte
le masse che affluiscono nel grande centro industriale dalle campagne e dal
Sud, tallonate da una miseria che lo stamburamento degli "aiuti alle aree
depresse" e de1le Casse del Mezzogiorno rende ancora più amara, per un
salario miserabile e duramente sudato da consumare nelle bidonvilles del
neo-capitalismo, fra il disprezzo venato di razzismo dei borghesi locali
(torinesi o milanesi) "evoluti" e degli incipriati figli di papà?
E' vano il tentativo, nel quale la stampa e i partiti della costellazione
democratica si lanciano concordi, di separare come due fatti diversi e
contrastanti lo sciopero della Fiat e gli "incidenti" di Piazza Statuto: il
primo sedicentemente pacifico, rispettoso della legalità, in frac e sparato
bianco, manifestazione di "coscienza democratica" e di rispetto della legge:
il secondo sconciamente piazzaiolo (secondo la versione ufficiale proclamata
da tutti) e teppista. I proletari torinesi è il loro vanto si sono mossi
dal primo fino all'ultimo momento su un terreno di guerra di classe, davanti
alla fabbrica e fuori: lungi dal mendicare il riconoscimento del "diritto di
sciopero", se lo sono preso, questo diritto, con la forza, e lo hanno
affermato come dovere! I cronisti, arrivati buoni ultimi e d'altronde
consapevoli delle 1eggi del mestiere, si sono sbizzarriti a dipingere i
fatti di piazza Statuto: nessuno ha descritto l'atmosfera di tempesta
davanti ai cancelli della Fiat; nessuno ha parlato degli operai di altre
fabbriche che accorrevano per una solidarietà istintiva non solo ad aiutare
i fratelli finalmente in lotta, non solo a rincuorarli, ma a premere perché
entrassero in lotta e poi non mollassero, né dello schieramento dei
proletari decisi a picchettare gli stabilimenti gettando intorno ad essi una
rete di corpi umani attraverso la quale nessun "colletto duro" potesse
filtrare; nessuno ha fotografato l'immagine in carne ed ossa della divisione
della società in classi inconciliabili nei viali alberati del paradiso
neo-capitalistico di Valletta, una marea di proletari coi pugni serrati da
una parte, le forze d'ordine e i pompieri sindacali, gli uni e le altre
impotenti, dall'altra.
Non c'era il "dialogo", non c'era la "pacifica discussione di problemi di
categoria", c'era battaglia, muta ed imperiosa. Non c'era divisione fra
proletari "interessati alla vertenza" ed "estranei": erano proletari senza
etichetta di dipendenza da nessun padrone, con la sola e gLoriosa qualifica
di sfruttati in lotta aperta contro gli sfruttatori. Per la morale e la
convenzione borghese erano, certo, dei teppisti: chi si rifiuta di subìre
servilmente i soprusi di una società che è una provocazione continua è, per
definizione, il rappresentante della feccia. Per noi, alla Mirafiori o alla
Lingotto come a Piazza Statuto, erano la santa canaglia. Sorprese,
disorientate, le forze dell'ordine si affidavano ai buoni uffici dei
pompieri e dei conciliatori, quelli che per somma ironia si chiamano gli
"attivisti" del PCI, del PSI, della CGIL, della CISL: sembrava loro che
tutto dovesse finire lì, sul posto e in una rapida sfuriata, certo
deplorevole ma inevitabile e forse salutare, come un febbrone che prelude al
ritorno della normalità fisica e psichica.
Non fu così. La furia dilagò nelle strade e nelle piazze e, com'era nella
sua logica di fatto sociale creativo, trascinò con sé i proletari di tutte
le categorie, gli sfruttati di tutte le denominazioni, gli schiavi del
miracolo economico, i beffati e gli irrisi della convivenza pacifica. Per
un'inconsapevole ironia, essi si concentrarono in Piazza dello Statuto:
certo involontariamente, scelsero a teatro della loro collera un "campo di
battaglia" intitolato alla prima costituzione borghese italiana madre della
più recente, quella che essi avrebbero dovuto e dovrebbero rispettare con
affetto filiale, secondo le direttive della CGIL, con "unità e disciplina
democratica" (comunicato della Camera confederale del 7 luglio, dopo gli
avvenimenti). E qui, a sentire la stampa borghese, sarebbe avvenuto qualcosa
come 1'apocalissi, il giorno del giudizio, il diluvio universale.
Santa ipocrisia borghese! I popolani delle Cinque Giornate milanesi
sradicarono ben altro che cubetti di porfido e gli equivalenti di allora dei
paletti segnaletici di oggi, infransero ben altro che vetri e cristalli,
usarono ben altro che temperini o bastoni; fecero le barricate: per
l'ideologia corrente, trattandosi di una battaglia risoltasi a favore della
nazione e della nascente borghesia italiana, furono degli eroi. I proletari
torinesi che si battevano contro il nemico nazionale di classe sono dei
teppisti; essi che troppo miti, troppo generosi non tentarono nemmeno di
erigere una barricata. Nel '48 nazionale e borghese la "teppa" è salutata,
blandita e coccolata, fin che fa comodo e salvo le successive repressioni:
nel '62 proletario diviene, logicamente, il mostro che leva la sua testa
immonda!
E giù fiumi di retorica scandalizzata. "I più non erano metallurgici": come
se i proletari non metallurgici non soffrissero sotto lo stesso giogo degli
altri! "La manifestazione doveva essere semplicemente sindacale": come se
esistesse lotta sindacale che non fosse lotta politica! "C'erano in mezzo
dei pregiudicati": come se l'enorme maggioranza degli sfruttati non avesse
conosciuto la giustizia almeno per... un furto di gallina, e come se
l'enorme maggioranza degli agghindati osservatori borghesi avesse la fedina
pulita o almeno (poiché la fedina è elastica come la giustizia di classe) la
coscienza netta! "Erano giovani": come se non toccasse appunto ai giovani di
dare ai vecchi le braccia muscolose e il cuore intatto, ch'essi più non
hanno! Sotto sotto, corre pure una vena sprezzante di razzismo nuovo
modello: "i soliti terroni"; figurarsi, non sanno nemmeno fare la loro firma
e al processo è tanto se mostrano di sapere il loro nome e luogo di nascita,
come chi dicesse "i soliti negri", che poi nella stampa "d'alto livello"
diventano gli incolti, gli ineducati, quelli che non hanno avuto la fortuna
di andare a scuola, i non ancora castrati dalla cultura ufficiale e dal
galateo, gli uomini dalla fronte bassa e dal coltello a serramanico.
Dopo la retorica, i processi per direttissima e le condanne di proletari che
non solo i cosiddetti rappresentanti operai non hanno difeso, ma hanno
ignobilmente sconfessato.
Erano, ecco tutto, dei proletari autentici, dei senza riserve. Chi li aveva
"organizzati"? Si erano organizzati da sé. La "coscienza borghese" non potrà
ammettere mai che gli incolti, i diseredati, gli straccioni, sappiano
difendersi e sappiano attaccare con una loro strategia istintiva, fatta di
una solidarietà che lo stesso sistema di produzione borghese, contro voglia
e contro ogni suo desiderio, crea e cementa in loro: non possono accettare
l'idea che come per un improvviso fenomeno di liberazione di una forza
compressa che trova la sua strada per erompere, quel fenomeno sul quale i
grandi militanti rivoluzionari i Lenin, i Trotskij, la Luxemburg
costruirono non soltanto gigantesche teorie; quell' "assalto al cielo" che
Marx esaltò e che è la grande forza della storia e, che è la stessa cosa,
della rivoluzione. I proletari scoprano dentro di sé quelle risorse
incorrotte di combattività organizzata, di solidarismo istintivo, di abilità
e perfino di astuzia nel dirigersi, che hanno sempre fatto la croce delle
classi dirigenti e che sono sempre stata la grande forza, la sola forza,
degli oppressi, sotto qualunque regime di classe. Per i borghesi, i
proletari possono soltanto muoversi come un gregge: se il loro movimento
ubbidisce a una logica, a un metodo, perfino ad una strategia, bisogna che
ci sia in mezzo a loro qualcuno, e il "qualcuno" per gli idealisti borghesi
può essere soltanto l'organizzatore uscito dalle scuole di partito, il
provocatore formatosi all'alta accademia della polizia, magari il gesuita
travestito. Chi aveva "organizzato", per restare negli esempi della storia
borghese, i popolani e le popolane del 14 luglio francese? Chi per passare
agli esempi nostri aveva organizzato i proletari del quartiere di Vyborg o
di Cronstadt nel 1905 e nel febbraio 1917? O la gloriosa canaglia della
Comune parigina o berlinese?
Nessuno li aveva organizzati: appunto perciò si erano organizzati da sé.
Nessuno era disposto a proteggerli: perciò si difesero. Nessuno ordinava
loro di attaccare: ordinarono a se stessi di farlo. C'erano, al contrario,
Coloro che, come si vanta la famosa "federazione giovanile torinese del
PSI)) descritta come... estremista, "tentavano di porre ordine invitando
alla calma" mentre la polizia caricava: li picchiarono, come sempre, in un
secolo e più di battaglie di classe, si sono trattati i cani da guardia del
padrone.
Non erano soltanto metallurgici: certo, tutti i proletari avevano capito che
in quei giorni si giocava il comune destino di ogni sfruttato. Non erano
sempre in regola con la giustizia: per definizione, i proletari non sono mai
in regola con la giustizia, se non si lasciano pecorescamente sfruttare.
Erano straccioni: certo, li avete resi straccioni voi. Erano incolti: è
proprio il fatto che non abbiano digerito la vostra cultura da chierichetti
e da macellai che li rende la classe levatrice della storia, come rese tali
i sanculotti che voi esaltate solo perché vi prepararono, inconsciamente, la
tavola imbandita di due secoli di banchetti.
C'era un provocatore, in mezzo a loro? Certo, ma questo provocatore si
chiama la società borghese, il capitale e i suoi sgherri, la vendita
quotidiana di forza-lavoro, l'estorsione quotidiana di lavoro non pagato,
l'inganno della "libertà di lavoro" e della "libertà del cittadino", la
beffa dell'eguaglianza per tutti la menzogna della democrazia e delle
riforme, la realtà del miracolo economico che è, per i proletari, sinonimo
di lacrime, sudore e sangue. Tutto questo li ha spinti, giovani prima e
vecchi lietamente poi, meridionali e piemontesi infine uniti!
Falso che li abbia mobilitati il PCI: esso sogna il pacifico viale che
conduce non al socialismo, ma alla più miserabile versione dei capitalismo
in termini economici, e della democrazia in termini politici. Sciocca, e
peggio, infine l'accusa che li abbia mobilitati Valletta: egli non paga
nulla, egli si fa pagare profumatamente l'appoggio al governo di
centro-sinistra; intasca, non sborsa. Contro costoro e contro tutto lo
schieramento del conformismo democratico, si sono battuti gli operai, e non
ci fu neppure bisogno che gli dessero l'imbeccata quei "quattro gatti" che
sono i rappresentanti fisici di correnti rivoluzionarie (oggi è venuto di
moda tirar fuori ad ogni piè sospinto, secondo come gira, o gli
anarco-sindacalisti, o noi internazionalisti, o tutti due insieme mescolati
e confusi nella stupefacente ignoranza dei coltissimi e degli
intelligentissimi); bastò ad ispirarli, questo sì e bisogna gridarlo alto
e con fierezza la tradizione accumulata in più di un secolo di lotta non
codarda, di predicazione non vile, di battaglia politica, ideologica e
organizzativa a viso aperto, che ha come punto di partenza il Manifesto e
faro più vicino ma non ultimo l'Ottobre Rosso. Se questa tradizione viva
nella memoria subconscia non degli individui ma della classe, e richiamata
alla coscienza dalla lotta aperta e dalla sofferenza; se questa tradizione è
teppista, è un retaggio da teddy-boy, ebbene, noi siamo pronti a dire con
fierezza: viva i teppisti, viva i teddy-boy! Se noi che battiamo
quotidianamente sul chiodo di un metodo di lotta che gli operai, nella
grandi svolte ritrovano da sé, siamo "provocatori", ebbene; siamo pronti a
gridare: viva i provocatori! Se poi, oggi, questa furia "teppista" possiamo
solo esaltarla contro tutti, non dubitate: ci prepariamo a dirigerla!
La collera proletaria si è scatenata a Torino (e si è scatenata in una
misura che è solo, pur-troppo, un millesimo di episodi gloriosi del passato,
perfino del passato torinese: 1917! 1920!); per tutta risposta, i partiti e
le organizzazioni che si dicono operaie hanno gridato, con una
precipitazione degna soltanto di lacchè gallonati, allo scandalo. Apriamo le
pagine del vecchio Marx nell'Indirizzo 1850 del Comitato Centrale della Lega
dei Comunisti:
"Ben lungi dall'opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su
persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi
odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve
prendere in mano la direzione".
I cosiddetti comunisti e socialisti di oggi non solo non ne hanno preso in
mano la direzione (il che era escluso in partenza), ma si sono opposti agli
"eccessi" perfino quando erano modesti sfoghi di collera santa e li hanno
sconciamente deplorati: pochi giorni dopo sedevano al tavolo delle
trattative con la stessa UIL e con lo stesso padronato contro i quali si era
diretta la furia proletaria. Cada sui "deploratori", sui costituzionalisti,
sugli esperti in denunzie alla polizia e alla giustizia, il disprezzo e la
maledizione di tutti gli sfruttati.
Da "Il programma comunista" n. 14 del 17 luglio 1962
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