-------------------------- Messaggio originale ---------------------------
Oggetto: [tml] «Evviva ho perso il tram» - Elogio della lentezza
Da: tactical@???
Data: Lun, 19 Gennaio 2004, 11:14 pm
A: tacticalmedia@???
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da il manifesto
«Evviva ho perso il tram»
Elogio della lentezza: dopo anni di esaltazione della velocità, lo
sciopero degli autoferrotranvieri ha prodotto un imprevisto e benefico
effetto collaterale: la riscoperta di tempi più lunghi per organizzare la
nostra vita e, con essa, il nostro modo di viaggiare
ROBERTO DUIZ
Pedoni sgomenti in vana attesa di un tram, un bus, un metrò e
automobilisti lamierati vivi in un traffico che procede con esasperante
lentezza. Taxisti sull'orlo di una crisi di nervi e talvolta anche oltre.
Voci concitate al telefonino che annunciano l'impossibilità di
presentarsi ad un appuntamento fissato. Disarmante impotenza collettiva
indotta dagli scioperi selvaggi dei mezzi di trasporto. Ritmi cittadini
bruscamente alterati. Si sa quando si parte ma non si sa quando si
arriverà a destinazione. Spaesamento e altro duro colpo alla conquistata
sicurezza di potersi spostare velocemente da un luogo all'altro. Distanze
che improvvisamente si dilatano. Luoghi abitualmente considerati a facile
portata che diventano irraggiungibili. Spiazzamento inevitabile perché
l'alterazione piomba violenta sulla quotidianità, il lavoro, lo shopping,
l'aperitivo, i rendez-vous
sentimentali, sconvolgendo abitudini sedimentate e la cui possibilità di
praticarle è data per scontata. Ma c'è una tendenza epocale che forse, in
fondo, sdrammatizza il rallentamento a singhiozzo che solo qualche anno fa
sarebbe stato intollerabile, reso fastidioso oggi, più che altro, dal
fatto che non è una libera scelta individuale. Un esempio: otto/dieci
anni fa nel cortile della casa in cui abito, a Milano, c'era una
bicicletta sgangherata e mezzo arruginita, oggi ne ho contate
venticinque, di varie fogge e modelli, tutte ben allineate in una
rastrelliera piazzata lì da poco. Qualche mese fa è uscito un libro della
Feltrinelli dal titolo emblematico: «L'uso sovversivo della bicicletta».
Parla di Critical Mass, movimento nato a San Francisco all'indomani della
guerra del Golfo e rapidamente dilagato in tutto il mondo, un'utopia
postautomobilistica che non dichiara obiettivi specifici se non un
generico miglioramento e «umanizzazione» della vita urbana, soffocata dal
traffico, assordata dai rumori, asfissiata dai gas, tutti elementi che
convergono nelle motivazioni dei pedalatori che vi aderiscono. Ogni tanto
si danno convegno, quelli di Montreal, così come quelli di Sidney o di
Milano e scorrazzano in gruppo per la città, scampanellando allegramente
e lanciando slogan contro il potere assoluto e l'invadenza delle
automobili, di cui rallentano il passo incuranti delle imprecazioni che
ne ricavano. Difficilmente tutti i pedalatori del condominio cui
appartengo sono militanti di Critical Mass. Certo è che la bici la usano,
quotidianamente. E così altre migliaia di milanesi, favoriti anche dalla
struttura prevalentemente pianeggiante della città. Del resto, non è
forse vero che gli urbanisti per lo più concordano nel progettare città
del futuro ad alta densità abitativa, poco estese, pensate per i pedoni e
per il trasporto pubblico, per un gran numero di biciclette e poche
automobili?
Paolo Rumiz, in bicicletta, addirittura ci viaggia. La sua, che lui chiama
«vecchio catorcio», non la cambierebbe con una nuova, superaccessoriata e
in lega leggera. Per una ragione molto semplice, spiega: «Voglio troppo
bene a questo vecchio guerrigliero anarchico, carico di rum e di storie da
raccontare». Tullio Altan, che pedala con lui da Trieste a Istambul («Tre
uomini in bicicletta», Feltrinelli) sintetizza la passione per il
velocipede in una delle sue fulminanti vignette. Una donna, con
espressione di sufficienza, chiede a un ometto buffo in tenuta da
ciclista che tiene a fianco la sua due ruote: «Dove vai?». Risposta: «A
portare a spasso il bambino che è in me».
Ognuno con le sue motivazioni, ma tutti convergenti in quel generale
desiderio di «rallentamento», dopo tanta euforia per la velocità,
felicemente colto da Milan Kundera, che della lentezza ha fatto l'elogio
in anticipo sui tempi («La lentezza», Adelphi): «La velocità è la forma
di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all'uomo. A
differenza del motociclista, l'uomo che corre a piedi è sempre presente
al proprio corpo, costretto com'è a pensare continuamente alle vesciche,
all'affanno: quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è
più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma
quando l'uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina,
allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco e la velocità a cui si
abbandona è incorporea, immateriale - velocità pura, velocità in sé e per
sé, velocità estasi». In sintonia con le riflessioni dello scrittore
boemo anche il viaggiatore moderno rallenta. Tutta la recente letteratura
di viaggio ha un andamento lento. Non più convulsi rimbalzi qua e là come
palline di un flipper planetario alimentando l'illusione che il mondo sia
diventato più piccolo davvero, ma spostamenti meditati, immersione in
apnea negli scenari attraversati, recupero della consapevolezza che il
viaggio non è
semplicemente spostarsi da un posto all'altro, ma acquista consistenza
solo «vivendo» il percorso che separa e contemporaneamente lega un posto
all'altro. Percorso che la velocità, invece, cancella, riducendolo ad uno
spazio vuoto, una necessaria - ma inutile all'esperienza - attesa di
arrivare, un tempo morto apparentemente breve, in realtà lunghissimo
perché vuoto di senso.
Calma ragazzi, insomma, e conseguente rivalutazione di mezzi caduti in uso
nell'era pretecnologica: le proprie gambe, innanzitutto, la bicicletta,
il cavallo, il cammello, la barca a vela e a remi, anche la slitta
trainata da cani, pullman scarcassati e linee ferroviarie secondarie su
cui si muove un'umanità esclusa dalle comunicazioni di massa e che
transitano per luoghi altrimenti invisibili ma che sono l'anima del
contesto che si sta attraversando. Nessun consumo di energia sottratta
alle esangui risorse naturali del pianeta, solo propria energia
muscolare, fatica ripagata da un accumulo di esperienze che la velocità
nega e dal sollievo nel constatare che il mondo è rimasto vario, alla
faccia dell'omologazione trionfante e alla larga dai luoghi tutti uguali
che celebrano il trionfo del turismo esotico di massa. E che nel
passaggio da un luogo all'altro, dal caldo al freddo, dalla vegetazione
lussureggiante all'arida pianura o deserto, da un'attività economica ad
una totalmente diversa c'è una logica «narrativa». C'è chi, come Jeffrey
Tayler, («La valle delle casbah», Neri Pozzi) si immerge nel deserto
sahariano per seguire il fiume Draa fino al suo sbocco nell'Atlantico, a
dorso di cammello perché non ci sono piste accessibili alle Land Rover,
oppure («Congo», Neri Pozzi) si lasca andare nella corrente del fiume
«conradiano» per verificare che sulle sue rive si affaccia una realtà non
molto diversa da quella incontrata da Stanley, il primo bianco a venirci
in contatto un secolo e mezzo fa. C'è chi, come Sven Lindqvist («Nei
deserti», Ponte alle Grazie) si muove seguendo le tracce di vecchi
viaggiatori che i suoi sogni hanno alimentato, perché anche questo è un
buon metodo per verificare cos'è sopravvissuto del passato di un mondo
che questo vorticoso presente ambisce a uniformare. A passo lento si
riflette meglio: ogni immagine rimanda a una storia e alla storia,
evocazioni e associazioni. Mackintosh Smith («La strada di Tangeri»,
Rizzoli), seguendo solo uno spezzone della lunghissima strada percorsa da
Ibn Battutah, constata che spostarsi, oggi, è più problematico di 600 anni
fa, perché guerre e rivolte, eserciti e predoni rendono molte zone
impraticabili. Ma ritrova anche frammenti sostanziosi di quel mondo
antico, quasi clandestino ormai, chissà come sopravvivente. Basta saper
vedere e assaporare, senza soccombere alla fretta di consumare,
ingurgitando.
Ci sono mille altri viaggiatori che, lentamente, rivisitano il mondo e si
riappropriano del tempo necessario a riconquistare la dimensione reale
dello spazio. Africa, Asia, America Latina, Oceania. Qualcuno, come Clare
de Vries («Di gatti di re», Feltrinelli), non usa mezzi di trasporto
pubblici in Birmania per non contribuire alle entrate di un odioso regime
dittatoriale. Qualcun altro, come Andrea Burrini («Storie africane», Edt),
è camminando per i sentieri del bush della Tanzania che coglie il senso
intimo della diffidenza con cui gli africani guardano gli europei, che
continuano ad andare in Africa senza capirci nulla, se non che chiunque ha
la pelle bianca entra immediatamente in possesso di quello che
Kapuscinski, uno dei pochi che ha cercato di capirci qualcosa, ha
chiamato «certificato di esclusione». Qualcun altro ancora, come Ella
Mailland («Vagabonda nel Turkestan», Edt) attraversa il lago d'Aral
gelato, in groppa ad un cammello dal nome emblematico, Bastardo, solo per
constatare, arrivata a
destinazione, che «la mia ansia di bellezza è appagata».
Chiedere, ad esempio, ad uno come Bernard Ollivier («La lunga marcia» e
«Verso Samarcanda», Feltrinelli), che si è messo in testa di percorrere
l'intera, mitica Via della Seta a piedi, da Istambul a Xi'an, in Cina,
vale a dire 12 mila chilometri, perché lo fa vuol dire sentirsi
rispondere come da Burt Reynolds in «La corsa più pazza d'America» a chi
gli chiedeva perché si ostinasse a rischiare l'osso del collo ad ogni
gara: «Per sfizio».
Più articolata la risposta di Peter Moore («La strada sbagliata»,
Feltrinelli), che per andare da Londra a Sidney è disposto a servirsi di
qualunque mezzo, fuorché, tassativamente, l'aereo. Perché? «Per pura,
genuina invidia degli hippy. Avevano la musica migliore, le droghe più
buone, potevano fare sesso con chi volevano senza preoccuparsi di fare
cilecca. Ma, soprattutto, facevano i viaggi più belli».
Se poi qualcuno chiede a me il perché di queste divagazioni che in fondo
nulla c'entrano con la cronaca, né con un commento, di uno sciopero
selvaggio dei mezzi di trasporto, non so cosa rispondere, tranne che è
meglio far viaggiare la testa, mentre il corpo è immobile nella vana
attesa di un autobus o un metrò che non arriva, piuttosto che smanettare
nervosamente sms grondanti sgomento e bile.
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