[NuovoLaboratorio] Sognatori a Rafah

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Autore: Elisabetta Filippi
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Oggetto: [NuovoLaboratorio] Sognatori a Rafah
Alcuni di noi conoscono Nicola e sono stati a Rafah. Per loro e per quelli
che invece non conoscono nè lui nè Rafah, questo è l'appello accorato di
Nicola. E' apparso su Carta e con la stessa intensità vi invito a
diffonderlo, a tutti e soprattutto a chi, Istituzioni in testa può e deve
fare qualcosa. Perchè insieme a Rachel e Tom non muoiano anche i sogni di
chi sfidando la guerra crede ancora che una tenda davanti ad una casa possa
proteggere una famiglia dalle pallottole di un tank. Se muoiono anche questi
sogni la morte di Tom e Rachel sarà stata inutile.
Elisabetta


Mi chiamo Nicola A., classe 1975, e nel dicembre 2002 parto per la Palestina
e arrivo a Rafah, città martire, cin il sogno di fare interposizione.
Quindici illusi montano fragili tende di pace, sfidando con la debolezza
cecchini, carri armati e bulldozer. Accolgo il 27 gennaio 2003 Rachel Corrie
spaventatissima nella renda del Bolck O. Quella notte un colpo passa sulla
sommità alta della tenda bucandola. Rachel è forte e resiste e il contatto
con la tragedia dei bambini, delle donne e degli uomini di rafah le darà il
coraggio e l’amore per sperare che da sola potesse fermare un bulldozer. Ero
tornato a febbraio in Italia e la morte di Rachel è una spinta a ritornare
con le lacrime a Rafah.

Da febbraio a marzo avevo lavorato con tutte le mie forze per coinvolgere
associazioni, pacifisti, sognatori nell’invasione pacifica di Rafah. Il
sogno di montare tende ovunque lungo il muro che Israele sta costruendo tra
Rafah e il confine con l’Egitto, un muro vergognoso come quello in
Cisgiordania, ma dimenticato.

Partimmo in due, io e Francesco, e ad aprile un altro mese nell’inferno; ad
aprile la silenziosa morte di Thomas, ventuno anni, prima scudo umano in
Iraq, poi ucciso da un cecchino a cinque metri da noi. La bandiera della
pace si macchia del sangue di Tom mentre un coraggioso palestinese lo
soccorre. Tom stava salvando dal fuoco dei cecchini due bambini nel corso di
un azione che stavamo facendo palestinesi e pacifisti internazionali, per
piantare una tenda nel quartiere di Yebhna là dove bambini e ragazzi che
giocavano a calcio venivano periodicamente colpiti dal carro armato; lì dove
intere famiglie si affacciavano alla torre dei cecchini, cinquanta metri da
loro, che baciava le loro notti colpendo le case e riducendole a un
colabrodo.

Beh, adesso non si può quasi più entrare a Rafah. Non è bastato uccidere per
fermare i sognatori. Israele ha dovuto chiudere la Striscia di Gaza. E
allora tutto quello che ho scritto non vuole essere un racconto triste ma ha
uno scopo ben preciso: richiamare la coscienza di tutti a non lasciare sola
Rafah. E’ un impegno che i giornalisti, le Istituzioni e tutte le persone
che possono devono assumersi. Proclamare Rafah città ad emergenza
umanitaria, denunciare costantemente sui giornali, radio, televisioni ciò
che sta succedendo laggiù.

Denunciare a gran voce che la Striscia di Gaza è una delle più grandi
prigioni a cielo aperto, dove non possono entrare le associazioni
umanitarie, i volontari internazionali e gli israeliani stessi. Iniziare a
lavorare per un progetto di sostegno ben articolato che preveda interventi
sanitari, di salute mentale e di promozione dei diritti umani e della donna.

Per favore, lavoriamo insieme per Rafah, non lasciamo che sia l’ennesima
Sarajevo, facciamo in modo che donne, uomini e bambini di Rafah e della
Striscia non debbano vivere nel terrore che poi crea altro terrore.

Nicola

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