[Cerchio] Perché non possiamo non odiare il carcere (testo v…

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Autore: corrispondenze metropolitane
Data:  
Oggetto: [Cerchio] Perché non possiamo non odiare il carcere (testo volantino distribuito all'iniziativa di ieri presso il carcere di Rebibbia)
PERCHE' NON POSSIAMO NON ODIARE IL CARCERE.

31 dicembre 2003. Il movimento che mette in
discussione lo stato delle cose, s'è dato appuntamento
davanti a Rebibbia e ad altre prigioni sparse nel
paese. Si vuole rompere con un silenzio dovuto al
fatto che di carcere i media parlano poco. Solo un
messaggio papale alle camere e qualche allarmato
rapporto sul sovraffollamento hanno spinto, di
recente, a soffermarsi su questa realtà. Facendo
peraltro emergere una cultura più "avanzata" di quella
dominante. Infatti, se di norma poco si considerano le
condizioni dei detenuti, perché l'unica preoccupazione
è quella di assicurare alla sua pena il "delinquente",
quando si riparla di carcere, riaffiora un discorso
meno feroce. Un discorso più attento alla situazione
interna ai penitenziari, intesi come luoghi di
riabilitazione. Ora, tale verbo è veramente
alternativo a quello, spietato, cui si è abituati?
Un'analisi seria porterebbe a negarlo. Entrambi gli
approcci, infatti, riconoscono la necessità del
carcere, cui attribuiscono, però, compiti diversi.
Ancora una volta, quindi, stiamo parlando
dell'alternanza tra i due principi che ben descrisse
Michel Foucault: sorvegliare e punire. Anche se,
mentre nella elaborazione del pensatore francese, la
netta predominanza dell'uno o dell'altro segnava
diverse fasi storiche, nel momento attuale essi
coesistono. Lo dimostra, al di là del carcere,
l'intero vivere sociale. Facciamo degli esempi, legati
al quotidiano. Nei confronti delle lotte nei
trasporti, fuori dalle compatibilità date, il governo
pratica la tolleranza zero: minaccia di limitare
ulteriormente la possibilità di scioperare e invoca la
precettazione. La sinistra ufficiale, invece, non va
allo scontro frontale. Le rivendicazioni, dice,
possono essere ricondotte nell'alveo delle regole
condivise rilanciando il ruolo del sindacato
confederale, unico argine alle esplosioni di
conflittualità. E questo è un caso. Ma si pensi pure
alla politica dei flussi programmati per gli/le
immigrati/e. Essa ha diversi risvolti. Per alcuni, può
significare l'abbattimento in mare o la segregazione
nei CPT (Centri di permanenza temporanea), i lager
creati per i rei di clandestinità. Per altri, invece,
può tradursi in regolarizzazione e lenta acquisizione
di diritti. L'essenziale è che si produca per il
sistema-paese e che se ne accettino le norme ed i
valori. Ora, questi sono esempi estremi, ma nella
realtà sono in pochi a non essere raggiunti
dall'azione dei principi del sorvegliare e del punire.
Molti sono colpiti, in fasi diverse da tutt'e due ed
altri da una sola di queste modalità di gestione della
vita collettiva. Il che, a ben vedere, rende più
chiaro cos'è il carcere, cos'è questo universo a parte
che ti scinde da ogni nesso sociale. Lo si definisce
istituzione totale, come il manicomio, perché in esso
la logica che permea di sé l'intera società risulta
radicalizzata, rivelandosi in tutta la sua inumanità.
Il disciplinamento, quello che incontriamo nelle
scuole per preparci a diventare, nel posto di lavoro e
altrove, pronti all'ubbidienza, lo ritroviamo
rinvigorito, perché, nel bene o nel male, ci si è già
sottratti ai comandi ed ora si deve essere rieducati.
Ma l'idea del recupero non impedisce che, per reati
ritenuti gravi, si sia estromessi per sempre dalla
vita civile. Ciò perché la prigione assolve pure una
funzione simbolica. Sì, certo, essa consiste in primo
luogo in una condizione materiale di deprivazione: di
sé, del proprio tempo. Ma la sua stessa esistenza è
anche un monito, un richiamo a ciò che spetta a
chiunque non rispetti la legge. Già, la legge. Sulla
carta si dice che è uguale per tutte/i, ma spesso non
è così e allora ci arrabbiamo, ci mobilitiamo. Ma è
questa la nostra lotta? Se anche la legge fosse
veramente uguale per tutte/i, non si sarebbe tutte/i
uguali davanti ad essa! Perché, in questa società, c'è
chi produce ricchezza e chi se ne appropria. C'è chi,
ancora, detiene il sapere ufficiale ed è ritenuto
colto, e chi è portatore di un sapere non riconosciuto
ed è considerato ignorante. La legge astrae dalle
differenze, dice soltanto che ognuno deve stare al suo
posto, tutelando una realtà di cui pochi si
avvantaggiano. Per questo non è ad essa che possiamo
fare riferimento noi che leviamo la nostra voce contro
l'esistente, così come non possiamo considerare nostre
le campagne per rendere "migliore" la prigionia. Un
movimento che vuole rovesciare il mondo non può che
rilanciare l'istanza dell'abbattimento di ogni
carcere, di ogni luogo dove si esprima con forza
quella spinta all'espropriazione delle facoltà umane
che è il principale connotato dell'ordine vigente.
Roma, 31 dicembre

CORRISPONDENZE METROPOLITANE - Collettivo di
controinformazione e di inchiesta



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