>X-eGroups-Return: sentto-4189098-1988-1070471838-magma2=libero.it@???
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>Date: Wed, 3 Dec 2003 18:00:33 +0100
>Subject: [bastaguerra] no all'occupazione in Iraq - contributo al dibattito
>Reply-To: bastaguerra@???
>
>ciao a tutte/i,
>
>vi proponiamo questo (lungo - ma pensiamo che sia importante
>cercare di approfondire alcune questioni) contributo al dibattito del
>movimento contro la guerra.
>
>un abbraccio, Piero, Salvatore, Felice, Luciano (redaz. rivista
>"Erre")
>
>
>No alla guerra "senza se e senza ma" No alloccupazione
>militare senza se e senza ma
>
>
>La ripresa delliniziativa contro la guerra dopo il Forum Sociale
>europeo di Parigi e le manifestazioni del 22 novembre in Italia per
> quanto ancora da sviluppare, ci sembra loccasione per intervenire
> in un dibattito che si è aperto dentro il movimento contro la guerra,
> con un contributo alla discussione che vuole entrare nel merito di
>alcuni nodi emersi in questo dibattito, evidentemente cruciali per
>far crescere la consapevolezza e lanalisi critica del movimento.
>
>1 La fine immediata delloccupazione militare dellIraq e il ritiro
>delle truppe straniere che partecipano a tale occupazione
>rimangono gli obiettivi primari del movimento contro la guerra in
>questa fase.
>Questo obiettivo è la conseguenza diretta della nostra opposizione
>alla guerra (senza se e senza ma) perché loccupazione
>militare, in Iraq come in Afghanistan, è la forma concreta e attuale
>con cui viene combattuta in quei territori la guerra infinita ben
>definita dal movimento come guerra globale permanente.
>Così come la guerra globale non è la risposta per quanto
>sbagliata al terrorismo, ma persegue obiettivi e strategie
>proprie, in Iraq loccupazione militare non è la risposta ad una
>situazione caratterizzata da una generica violenza o dal caos:
>loccupazione militare è parte principale del problema causa
>scatenante della violenza oggi diffusa in tutto il territorio iracheno.
>in Iraq la dittatura di Saddam Hussein, tre sanguinose guerre
>(contro lIran negli anni 80 e poi le due guerre chiamate del Golfo
> con i bombardamenti contro la popolazione civile) e oltre dodici
>anni di embargo voluti e ferocemente messi in atto dagli stessi
>paesi che hanno voluto e combattuto linvasione del paese nella
>scorsa primavera (purtroppo con il complice appoggio di quasi tutti
>i governi, europei in prima fila fossero essi di centrodestra o
>centrosinistra), hanno provocato una crescente disgregazione
>sociale e enormi sofferenze per tutta la popolazione irachena.
>Sappiamo che questa situazione di disgregazione sociale e di
>potenziale conflitto tra i vari settori della società irachena per la
>quale la guerra scatenata dagli angloamericani porta la principale
>responsabilità non potrà essere risolta solamente con la fine
>delloccupazione militare, ma sappiamo anche che questa
>occupazione ne è allo stesso tempo una delle cause e il principale
>catalizzatore della crescente violenza armata e terroristica (che
>come diremo oltre, non possiamo considerare sullo stesso piano).
>La cosiddetta comunità internazionale ha un enorme debito nei
>confronti della popolazione irachena per quello che ha contribuito
>a farle subire in questi anni: oggi questo debito si deve ripagare
>restituendo immediatamente agli iracheni (attraverso le loro forze
>politiche, sociali e culturali che stanno organizzandosi) la sovranità
> sulla costruzione delle proprie istituzioni e la libera scelta del
>proprio futuro garantendo internazionalmente che queste scelte
>possano essere prese in piena libertà e autonomia: non possiamo
>condividere il retropensiero di chi chiede che sia lOnu a svolgere
>una funzione analoga a quella degli occupanti angloamericani,
>continuando a considerare gli iracheni infantili o pericolosi per loro
>stessi, la regione o il mondo intero.
>In questo senso ci sembra importante elaborare una proposta, a
>partire dallappello del movimento contro la guerra statunitense per
>il 20 marzo, da quello dei movimenti sociali europei del Fse e da
>quello italiano elaborato a Parigi per le manifestazioni del 22
>novembre e dalle 6 idee per la pace elaborate dallassociazione
>Un ponte per
.
>LIraq non va posto sotto tutela internazionale: gli iracheni vanno
>sostenuti nelle loro decisioni e nella loro conquista
>dellindipendenza e libertà. Un sostegno che potrà significare
>anche linvio di forze internazionali che garantiscano una
>transizione non violenta e la stabilizzazione di istituzioni
>indipendenti (forze alle quali non devono in alcun modo partecipare
>i paesi che hanno voluto e appoggiato la guerra) ma innanzitutto
>sulla base di un effettivo processo di autodeterminazione e che
>dovrà vedere soprattutto limpegno diretto delle società civili e dei
>movimenti sociali di tutto il mondo (in primo luogo quelle europee e
>degli Stati Uniti per costruire un rapporto paritario e cooperativo
>con quella popolazione che faccia scordare le relazioni coloniali
>finora praticate dai nostri governi) come già sta avvenendo d
>esempio con iniziative come quella italiana del Tavolo di
>Solidarietà con le popolazioni dellIraq (appoggiata esplicitamente
>dallinsieme del movimento antiguerra e che non casualmente
>rifiuta ogni rapporto con i militari occupanti) o quella internazionale
>del Occupation Watch Center, che contribuisce a sviluppare
>uninformazione indipendente su quanto avviene in Iraq.
>
>Per questo pensiamo che sia ancora centrale per il movimento
>contro la guerra la richiesta del ritiro delle truppe italiane dallIraq e
>che sia una pericolosa ambiguità parlare di modificare il senso
>della missione: la presenza delle truppe italiane è illegale,
>illegittima e politicamente ingiusta, e non è nemmeno la risoluzione
> 1511 dellOnu a fornire quella presunta legittimità.
>
>2 In questa situazione non si sembra allora utile e positivo il
>generico appello per il cessate il fuoco o per la fine delle
>violenze promosso da Emergency: se siamo daccordo a voler in
>ogni modo fermare la spirale guerra/terrorismo, non pensiamo che
>siano di aiuto appelli da leggere tra le righe nei quali manca
>completamente una segnalazione dei soggetti responsabili di
>quanto sta avvenendo. Cosa significa appellarsi a chi sta
>praticando e progettando attentati e guerre senza mai nominare
>esplitamente coloro che parlano in nome nostro. Non si tratta di
>fare una graduatoria delle violenze o delle responsabilità ma
>aiutare a comprendere come si è arrivati in questa situazione, quali
> sono le strategie che i nostri democratici governi hanno costruito
>e praticato in questi anni in Africa, in medioriente, in Asia
>costruendo o sviluppando le condizioni per la crescita delle
>violenze e della guerra.
>Cancellare dagli appelli politici precise richieste politiche ci sembra
> in questo momento fuorviante una concessione ad un pacifismo
> generico che anche coloro che hanno firmato lappello hanno in
>questi anni contribuito a superare.
>Perché ci si è scordati di nominare le occupazioni militari come
>forma di guerra a cui porre termine immediatamente (quindi
>esigendo il ritiro delle truppe)?
>Non ci convince in questo senso neanche il passaggio della lettera
>che il Glt nonviolenza della Rete Lilliput quando afferma che
>risulta addirittura inutile insistere per un ritiro immediato delle forze
> armate dellItalia
perché la richiesta stessa alimenta risposte
>improntate a valori nazionalisti e al peggior patriottismo: è proprio
>per contrastare questi falsi valori, coltivati e propagandati dal
>governo e da gran parte dei media, che il movimento deve
>mantenere ferme le sue ragioni e le sue proposte politiche; non per
> contrapporsi alle migliaia di donne e uomini che sinceramente
>sono stati colpiti dalle morti di Nassiryia, ma per continuare a
>rivolgerci a loro con la consapevolezza delle cause che hanno
>portato a quelle morti, delle responsabilità politiche del governo
>che ha voluto quella missione e dellimpegno di solidarietà con il
>popolo iracheno che stiamo praticando (come scriveva Brecht
>sugli elmi dei vinti , il giorno in cui siete stati vinti
fu quel primo
>giorno
quando vi siete messi sullattenti e avete cominciato a
>dire si forse è il momento di recuperare anche la nostra
>tradizione antimilitarista per la quale il nemico marcia sempre alla
>tua testa).
>Se siamo convinti e mi sembra che su questo concordiamo
>che le forze armate italiane sono forze di occupazione militare,
>abbiamo il dovere di chiedere il loro ritiro immediato.
>
>Ci sembra in questo senso molto interessante la consapevolezza
>del mai più in nostro nome che ha invece prodotto importanti
>prese di posizione, come quella che Farid Adly ha rivolto agli
>intellettuali arabi e musulmani affinché condannino e combattano
>con decisione le forze terroristiche. Allo stesso modo noi dobbiamo
> opporci con forza alla nostra tradizione coloniale e di guerra
>opponendoci alle politiche di guerra dei nostri governi.
>
>3 Il movimento ha sempre espresso con chiarezza la condanna
>esplicita e decisa delle azioni terroristiche e delle reti che le
>programmano e conducono: questa condanna è la conseguenza
>della caratteristica fondamentale del movimento stesso, che si
>basa sulla crescita della partecipazione politica e sociale di massa
> e il rifiuto della guerra per questo già nei giorni subito seguenti
>l11 settembre 2001 manifestavamo (anche a fianco dei movimenti
>pacifisti degli Stati uniti) contro la guerra e contro il terrorismo.
>La violenza terroristica è lesatto opposto di quello che vuole e
>pratica il movimento: non solo distrugge vite umane, ma si pone
>come obiettivo lespropriazione della partecipazione popolare e
>sociale, che invece rimangono il solo strumento e la sola forza a
>disposizione del movimento.
>La condanna e la mobilitazione contro le azioni e le reti
>terroristiche non possono però in alcun modo farci accettare una
>categoria indistinta e opportunistica di terrorismo che
>comprenderebbe qualsiasi forma di rivolta o di resistenza armata
>(che di fronte ad unoccupazione militare è comunque legittima,
>fino a quando si rivolge contro gli occupanti e non è diretta
>indiscriminatamente contro i civili - qualsiasi sia il giudizio che poi
>diamo sulle azioni e sulle forze che praticano questa resistenza
>armata): è questa la nozione di terrorismo che cerca di
>propagandare la stessa amministrazione Bush, sulla stessa
>lunghezza donda di Sharon o Berlusconi, inserendo in tale
>categoria tutto quello che non contasta o non è compatibile con la
>sua visione unipolare e con le sue strategie egemoniche globali:
>come scrive Raniero La Valle sulla Rivista del Manifesto dello
>scorso novembre gli impuri, i non rassegnati, le canaglie, i
>terroristi, i titolari del diritto di ribellione, evocato dalla Dichiarazione
> universale dei diritti delluomo del 48.
>
>Oggi non è in corso una guerra di civiltà (della quale le religioni
>sarebbero il fondamento) non cè in atto uno scontro globale tra
>due soggetti antagonisti: al contrario è dentro il processo di
>globalizzazione capitalistica, dentro le logiche di dominio globale,
>che nascono le strategie di riempimento degli spazi che
>accomunano i signori della guerra siano essi presidenti
>regolarmente eletti o miliardari sauditi arricchiti dentro le
>speculazioni del sistema finanziario e i commerci globali di armi e
>simili. E in questi spazi economici, politici e sociali, asimmetrici a
>un processo di globalizzazione economica che, anchesso,
>espropria miliardi di persone del proprio destino, che si radicano e
>crescono quella reti terroristiche che non sono certamente una
>rappresentanza degli oppressi e degli sfruttati (in nome dei quali
>pretendono di parlare) e nemmeno una alternativa di sistema
>ma una forma di quello stesso sistema che il movimento dei
>movimenti in tutto il mondo sta cercando di sconfiggere sulla
>strada del altro mondo necessario.
>Il progetto di Al Qaeda è evidentemente un progetto di alcune
>classi dirigenti arabe che puntano a destabilizzare interi paesi e a
>candidarsi come carta di ricambio. In Arabia Saudita o in Turchia il
>progetto è ben visibile.
>Diverso è il caso di quelle organizzazioni che utilizzano metodi
>terroristici come tragico strumento della loro battaglia politica uno
> strumento che in nessun modo possiamo ammettere e tollerare. I
>kamikaze del 11 settembre 2001 non sono la stessa cosa degli
>attentatori suicidi palestinesi non perché questi ultimi sono in
>alcun modo giustificabili, ma perché sono il frutto avvelenato di
>una condizione esistenziale di disperazione, indotta anche in quel
>caso da decenni di occupazione militare e repressione quotidiana.
>Naturalmente vi sono soggetti politici che sfruttano questa
>disperazione ma senza comprendere questa non potremo mai
>aiutare un processo di rifiuto degli attentati.
>Allo stesso modo, lattacco ai soldati italiani a Nassiryia, chiunque
>sia il responsabile, non è l11 settembre italiano, ma la
>conseguenza tragica della partecipazione italiana alloccupazione
>militare angloamericana dellIraq.
>
>
>Il terrorismo non è però in nessun modo la conseguenza
>necessaria delle drammatiche condizioni economiche, politiche e
>sociali che vivono intere popolazioni e tantomeno il giusto
>compenso che raccolgono i responsabili di quelle condizioni:
>molte sono le cause e le condizioni su cui crescono i terrorismi
>ma è chiaro che senza affrontare quelle drammatiche condizioni e
>rendere quelle popolazioni nuovamente titolari delle proprie scelte, i
> terrorismi non potranno essere sconfitti.
>Quando scriviamo e diciamo che il movimento è il principale
>antidoto e avversario del terrorismo intendiamo proprio questo
>solamente costruendo partecipazione popolare e protagonismo
>sociale sulla strada delle alternative possiamo chiudere gli spazi
>alle politiche di guerra e terroristiche.
>
>4 Dentro la crescita delliniziativa contro la guerra è cresciuto
>anche il dibattito sulla nonviolenza e allo stesso tempo le
>richieste inaccettabili di ripudiare la violenza fatte da chi invece
>continua a pensare e praticare la guerra come strumento
>possibile della politica, con i suoi interventi militari, laumento
>delle spese militari ecc: non è a questi personaggi, evidentemente,
> che siamo chiamati a rispondere, perché non hanno alcun titolo
>per darci lezioni!
>Il rifiuto di pratiche violente - perlopiù finalizzate
>allautorappresentazione di sé o alla costruzione di unidentità - e
>della separazione tra mezzi e fini crediamo sia una caratteristica
>ormai diffusa e condivisa del/nel movimento e dobbiamo
>continuare a operare perché lo sia sempre di più.
>Il dibattito che dobbiamo affrontare senza alcun timore o
>atteggiamento difensivo non può però partire da assunti ideologici
> (per cui la nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede
>aprioristica) ma nemmeno dallidea della nonviolenza come
>semplice pratica o metodologia.
>Dobbiamo lavorare per un'alternativa di società non violenta,
>riconoscibile anche nel suo percorso di formazione ma
>lopposizione ai processi di espropriazione sociale e alla violenza
>delle politiche di guerra può rendere necessaria la resistenza, la
>disobbedienza civile, il boicottaggio, il sabotaggio delle leggi
>ingiuste e illegittime (pensiamo alla Bossi-Fini, ma anche alla
>legge 30, alle spese militari o alla presenza di basi e depositi
>militari sul territorio ecc.).
>Il problema, secondo noi, è la visuale da cui si guardano a queste
>azioni e il metodo delle lotte. Siamo convinti dell'inevitabilità del
>conflitto sociale, anzi della sua necessità per far avanzare una
>nuova società. Ma il conflitto sociale è utile ed efficace solo se
>coniugato al consenso, alla partecipazione popolare, alla
>democraticità delle scelte e delle decisioni comuni. Le forme di
>lotta vanno individuate sulla base di un criterio fondamentale:
>quanto più riescono a rafforzare la partecipazione, il protagonismo,
>la consapevolezza delle proprie ragioni, la coscienza di sé, dei
>propri obiettivi il coinvolgimento nelle pratiche, l'allargamento delle
>lotte, tanto più sono giuste e necessarie. Altrimenti si corrono due
>rischi speculari: l'avanguardismo fuori tempo massimo, il dirigismo
>"machista" e muscolare oppure la subordinazione al pensiero, e
>agli interessi, dominanti sempre in cerca di sterilizzazioni
>ideologiche di qualsiasi tipo di conflitto.
>
>
>Sperimentare nuove forme di conflitto sociale e politico, nuove relazioni tra
>mobilitazione sociale e consenso, tra partecipazione e costruzione di spazi
>pubblici sottratti al dominio del mercato e della violenza questo è il
>terreno di confronto e di lavoro a cui siamo chiamate/i, tutte/i insieme.
>
>
>
>Tutte/i insieme, al Fse di Parigi, abbiamo deciso che il 20 marzo sarà una
>giornata internazionale contro la guerra e le occupazioni militari,riprendendo
>la proposta del movimento contro la guerra degli Stati Uniti.
>E' molto importante costruire questa scadenza nelle forme più unitarie che il
>movimento sarà capace di darsi a partire dalla riunione del Gruppo di continuit
>à allargato del 7 dicembre.
>Ci sembra utile, però, richiamare l'attenzione sulla necessità di un
> approfondimento tematico - seminariale e
>assembleare - del movimento (a partire dalla proposta del tavolo
>Bastaguerra) per non nascondere le differenze tra noi, ma
>valorizzarle ecomunicarle e costruire, così meglio, una
>consapevolezza comune e l¹affermazione delle nostre ragioni
>condivise.
>
>Salvatore Cannavò, Piero Maestri, Felice Mometti, Luciano
>Mulhbauer redazione Erre
>
>
>
>
>
>Per annullare l'iscrizione a questo gruppo, manda una mail all'indirizzo:
>bastaguerra-unsubscribe@???
>
>
>
>L'utilizzo, da parte tua, di Yahoo! Gruppi è soggetto alle http://it.docs.yahoo.com/info/utos.html
--
Paola Manduca