[NuovoLaboratorio] Fwd: [bastaguerra] no all'occupazione in …

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Szerző: Paola Manduca
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Tárgy: [NuovoLaboratorio] Fwd: [bastaguerra] no all'occupazione in Iraq - contributo al dibattito
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>List-Unsubscribe: <mailto:bastaguerra-unsubscribe@yahoogroups.com>
>Date: Wed, 3 Dec 2003 18:00:33 +0100
>Subject: [bastaguerra] no all'occupazione in Iraq - contributo al dibattito
>Reply-To: bastaguerra@???

>
>ciao a tutte/i,
>
>vi proponiamo questo (lungo - ma pensiamo che sia importante 
>cercare di approfondire alcune questioni) contributo al dibattito del 
>movimento contro la guerra.
>
>un abbraccio, Piero, Salvatore, Felice, Luciano (redaz. rivista
>"Erre")
>
>
>No alla guerra "senza se e senza ma" – No all’occupazione 
>militare “senza se e senza ma”
>
>
>La ripresa dell’iniziativa contro la guerra – dopo il Forum Sociale 
>europeo di Parigi e le manifestazioni del 22 novembre in Italia – per
> quanto ancora da sviluppare, ci sembra l’occasione per intervenire
> in un dibattito che si è aperto dentro il movimento contro la guerra,
> con un contributo alla discussione che vuole entrare nel merito di 
>alcuni nodi emersi in questo dibattito, evidentemente cruciali per  
>far crescere la consapevolezza e l’analisi critica del movimento.
>
>1 – La fine immediata dell’occupazione militare dell’Iraq e il ritiro 
>delle truppe straniere che partecipano a tale occupazione 
>rimangono gli obiettivi primari del movimento contro la guerra in 
>questa fase.
>Questo obiettivo è la conseguenza diretta della nostra opposizione 
>alla guerra (“senza se e senza ma”) – perché l’occupazione 
>militare, in Iraq come in Afghanistan, è la forma concreta e attuale 
>con cui viene combattuta in quei territori la “guerra infinita” – ben 
>definita dal movimento come “guerra globale permanente”.
>Così come la guerra globale non è la “risposta” – per quanto 
>“sbagliata” – al terrorismo, ma persegue obiettivi e strategie 
>proprie, in Iraq l’occupazione militare non è la risposta ad una 
>situazione caratterizzata da una generica violenza o dal caos: 
>l’occupazione militare è parte principale del problema – causa 
>scatenante della violenza oggi diffusa in tutto il territorio iracheno.
>in Iraq la dittatura di Saddam Hussein, tre sanguinose guerre 
>(contro l’Iran negli anni ’80 e poi le due guerre chiamate “del Golfo” 
>– con i bombardamenti contro la popolazione civile) e oltre dodici 
>anni di embargo voluti e ferocemente messi in atto dagli stessi 
>paesi che hanno voluto e combattuto l’invasione del paese nella 
>scorsa primavera (purtroppo con il complice appoggio di quasi tutti
>i governi, europei in prima fila – fossero essi di centrodestra o
>centrosinistra), hanno provocato una crescente disgregazione
>sociale e enormi sofferenze per tutta la popolazione irachena. 
>Sappiamo che questa situazione di disgregazione sociale e di 
>potenziale conflitto tra i vari settori della società irachena – per la 
>quale la guerra scatenata dagli angloamericani porta la principale 
>responsabilità – non potrà essere risolta solamente con la fine 
>dell’occupazione militare, ma sappiamo anche che questa 
>occupazione ne è allo stesso tempo una delle cause e il principale 
>catalizzatore della crescente violenza armata e terroristica (che 
>come diremo oltre, non possiamo considerare sullo stesso piano).
>La cosiddetta “comunità internazionale” ha un enorme debito nei 
>confronti della popolazione irachena – per quello che ha contribuito 
>a farle subire in questi anni: oggi questo debito si deve ripagare 
>restituendo immediatamente agli iracheni (attraverso le loro forze 
>politiche, sociali e culturali che stanno organizzandosi) la sovranità
> sulla costruzione delle proprie istituzioni e la libera scelta del
>proprio futuro – garantendo internazionalmente che queste scelte 
>possano essere prese in piena libertà e autonomia: non possiamo 
>condividere il retropensiero di chi chiede che sia l’Onu a svolgere 
>una funzione analoga a quella degli occupanti angloamericani, 
>continuando a considerare gli iracheni infantili o pericolosi per loro 
>stessi, la regione o il mondo intero.
>In questo senso ci sembra importante elaborare una proposta, a 
>partire dall’appello del movimento contro la guerra statunitense per 
>il 20 marzo, da quello dei movimenti sociali europei del Fse e da 
>quello italiano elaborato a Parigi per le manifestazioni del 22 
>novembre e dalle “6 idee per la pace” elaborate dall’associazione 
>“Un ponte per…”.
>L’Iraq non va “posto sotto tutela” internazionale: gli iracheni vanno 
>sostenuti nelle loro decisioni e nella loro conquista 
>dell’indipendenza e libertà. Un sostegno che potrà significare 
>anche l’invio di forze internazionali che garantiscano una 
>transizione non violenta e la stabilizzazione di istituzioni 
>indipendenti (forze alle quali non devono in alcun modo partecipare 
>i paesi che hanno voluto e appoggiato la guerra) ma innanzitutto 
>sulla base di un effettivo processo di autodeterminazione e che 
>dovrà vedere soprattutto l’impegno diretto delle società civili e dei 
>movimenti sociali di tutto il mondo (in primo luogo quelle europee e 
>degli Stati Uniti – per costruire un rapporto paritario e cooperativo 
>con quella popolazione che faccia scordare le relazioni coloniali 
>finora praticate dai “nostri” governi) – come già sta avvenendo d 
>esempio con iniziative come quella italiana del “Tavolo di 
>Solidarietà con le popolazioni dell’Iraq” (appoggiata esplicitamente 
>dall’insieme del movimento antiguerra e che non casualmente 
>rifiuta ogni rapporto con i militari occupanti) o quella internazionale 
>del “Occupation Watch Center”, che contribuisce a sviluppare 
>un’informazione indipendente su quanto avviene in Iraq.
>
>Per questo pensiamo che sia ancora centrale per il movimento 
>contro la guerra la richiesta del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e 
>che sia una pericolosa ambiguità parlare di “modificare il senso 
>della missione”: la presenza delle truppe italiane è illegale, 
>illegittima e politicamente ingiusta, e non è nemmeno la risoluzione
> 1511 dell’Onu a fornire quella presunta legittimità. 
>
>2 – In questa situazione non si sembra allora utile e positivo il 
>generico appello per il “cessate il fuoco” o per la “fine delle 
>violenze” promosso da Emergency: se siamo d’accordo a voler in 
>ogni modo fermare la spirale guerra/terrorismo, non pensiamo che 
>siano di aiuto appelli da “leggere tra le righe” – nei quali manca 
>completamente una segnalazione dei soggetti responsabili di 
>quanto sta avvenendo. Cosa significa appellarsi a “chi sta 
>praticando e progettando attentati e guerre” – senza mai nominare 
>esplitamente coloro che parlano “in nome nostro”. Non si tratta di 
>fare una graduatoria delle violenze o delle responsabilità – ma 
>aiutare a comprendere come si è arrivati in questa situazione, quali
> sono le strategie che i nostri “democratici” governi hanno costruito 
>e praticato in questi anni – in Africa, in medioriente, in Asia – 
>costruendo o sviluppando le condizioni per la crescita delle 
>violenze e della guerra.
>Cancellare dagli appelli politici precise richieste politiche ci sembra
> in questo momento fuorviante – una concessione ad un “pacifismo
> generico” che anche coloro che hanno firmato l’appello hanno in 
>questi anni contribuito a superare.
>Perché ci si è scordati di nominare le occupazioni militari come 
>forma di guerra a cui porre termine immediatamente (quindi 
>esigendo il ritiro delle truppe)?
>Non ci convince in questo senso neanche il passaggio della lettera 
>che il “Glt nonviolenza” della Rete Lilliput quando afferma che 
>“risulta addirittura inutile insistere per un ritiro immediato delle forze
> armate dell’Italia … perché la richiesta stessa alimenta risposte 
>improntate a valori nazionalisti e al peggior patriottismo”: è proprio 
>per contrastare questi falsi valori, coltivati e propagandati dal
>governo e da gran parte dei media, che il movimento deve 
>mantenere ferme le sue ragioni e le sue proposte politiche; non per
> contrapporsi alle migliaia di donne e uomini che sinceramente
>sono stati colpiti dalle morti di Nassiryia, ma per continuare a
>rivolgerci a loro con la consapevolezza delle cause che hanno
>portato a quelle morti, delle responsabilità politiche del governo
>che ha voluto quella “missione” e dell’impegno di solidarietà con il
>popolo iracheno che stiamo praticando (come scriveva Brecht
>sugli “elmi dei vinti” , “il giorno in cui siete stati vinti… fu quel primo
>giorno… quando vi siete messi sull’attenti e avete cominciato a
>dire si” – forse è il momento di recuperare anche la nostra
>tradizione antimilitarista per la quale “il nemico marcia sempre alla
>tua testa”).
>Se siamo convinti – e mi sembra che su questo concordiamo – 
>che le forze armate italiane sono forze di occupazione militare, 
>abbiamo il dovere di chiedere il loro ritiro immediato.
>
>Ci sembra in questo senso molto interessante la consapevolezza 
>del “mai più in nostro nome” che ha invece prodotto importanti 
>prese di posizione, come quella che Farid Adly ha rivolto agli 
>intellettuali arabi e musulmani affinché condannino e combattano 
>con decisione le forze terroristiche. Allo stesso modo noi dobbiamo
> opporci con forza alla “nostra” tradizione coloniale e di guerra – 
>opponendoci alle politiche di guerra dei “nostri” governi.
>
>3 – Il movimento ha sempre espresso con chiarezza la condanna 
>esplicita e decisa delle azioni terroristiche e delle reti che le 
>programmano e conducono: questa condanna è la conseguenza 
>della caratteristica fondamentale del movimento stesso, che si 
>basa sulla crescita della partecipazione politica e sociale di massa
> e il rifiuto della guerra – per questo già nei giorni subito seguenti 
>l’11 settembre 2001 manifestavamo (anche a fianco dei movimenti 
>pacifisti degli Stati uniti) “contro la guerra e contro il terrorismo”.
>La violenza terroristica è l’esatto opposto di quello che vuole e 
>pratica il movimento: non solo distrugge vite umane, ma si pone 
>come obiettivo l’espropriazione della partecipazione popolare e 
>sociale, che invece rimangono il solo strumento e la sola forza a 
>disposizione del movimento. 
>La condanna e la mobilitazione contro le azioni e le reti 
>terroristiche non possono però in alcun modo farci accettare una 
>categoria indistinta e opportunistica di “terrorismo” – che 
>comprenderebbe qualsiasi forma di rivolta o di resistenza armata 
>(che di fronte ad un’occupazione militare è comunque legittima, 
>fino a quando si rivolge contro gli occupanti e non è diretta 
>indiscriminatamente contro i civili - qualsiasi sia il giudizio che poi 
>diamo sulle azioni e sulle forze che praticano questa resistenza 
>armata): è questa la nozione di “terrorismo” che cerca di 
>propagandare la stessa amministrazione Bush, sulla stessa 
>lunghezza d’onda di Sharon o Berlusconi, inserendo in tale 
>categoria tutto quello che non contasta o non è compatibile con la 
>sua visione unipolare e con le sue strategie egemoniche globali: 
>come scrive Raniero La Valle sulla “Rivista del Manifesto” dello 
>scorso novembre “gli impuri, i non rassegnati, le ‘canaglie’, i 
>terroristi, i titolari del diritto di ribellione, evocato dalla Dichiarazione
> universale dei diritti dell’uomo del ‘48”.
>
>Oggi non è in corso una “guerra di civiltà” (della quale le religioni 
>sarebbero il fondamento) – non c’è in atto uno scontro globale tra 
>due soggetti “antagonisti”: al contrario è dentro il processo di 
>globalizzazione capitalistica, dentro le logiche di dominio globale, 
>che nascono le strategie di riempimento degli spazi che 
>accomunano i “signori della guerra” – siano essi presidenti 
>regolarmente eletti o miliardari sauditi arricchiti dentro le 
>speculazioni del sistema finanziario e i commerci globali di armi e 
>simili. E’ in questi spazi economici, politici e sociali, asimmetrici a 
>un processo di globalizzazione economica che, anch’esso, 
>espropria miliardi di persone del proprio destino, che si radicano e 
>crescono quella reti terroristiche – che non sono certamente una
>“rappresentanza degli oppressi e degli sfruttati” (in nome dei quali 
>pretendono di parlare) e nemmeno una “alternativa di sistema” – 
>ma una forma di quello stesso sistema che il movimento dei 
>movimenti in tutto il mondo sta cercando di sconfiggere sulla 
>strada del “altro mondo necessario”. 
>Il progetto di Al Qaeda è evidentemente un progetto di alcune 
>classi dirigenti arabe che puntano a destabilizzare interi paesi e a 
>candidarsi come carta di ricambio. In Arabia Saudita o in Turchia il 
>progetto è ben visibile.
>Diverso è il caso di quelle organizzazioni che utilizzano metodi 
>terroristici come tragico strumento della loro battaglia politica – uno
> strumento che in nessun modo possiamo ammettere e tollerare. I 
>“kamikaze” del 11 settembre 2001 non sono la stessa cosa degli 
>attentatori suicidi palestinesi – non perché questi ultimi sono in 
>alcun modo “giustificabili”, ma perché sono il frutto avvelenato di 
>una condizione esistenziale di disperazione, indotta anche in quel 
>caso da decenni di occupazione militare e repressione quotidiana. 
>Naturalmente vi sono soggetti politici che sfruttano questa 
>disperazione – ma senza comprendere questa non potremo mai 
>aiutare un processo di rifiuto degli attentati. 
>Allo stesso modo, l’attacco ai soldati italiani a Nassiryia, chiunque 
>sia il responsabile, non è “l’11 settembre italiano”, ma la 
>conseguenza tragica della partecipazione italiana all’occupazione 
>militare angloamericana dell’Iraq.
>
>
>Il terrorismo non è però in nessun modo la “conseguenza 
>necessaria” delle drammatiche condizioni economiche, politiche e 
>sociali che vivono intere popolazioni e tantomeno il “giusto 
>compenso” che raccolgono i responsabili di quelle condizioni: 
>molte sono le cause e le condizioni su cui crescono i terrorismi – 
>ma è chiaro che senza affrontare quelle drammatiche condizioni e 
>rendere quelle popolazioni nuovamente titolari delle proprie scelte, i
> terrorismi non potranno essere sconfitti.
>Quando scriviamo e diciamo che il movimento è il principale 
>antidoto e avversario del terrorismo intendiamo proprio questo – 
>solamente costruendo partecipazione popolare e protagonismo 
>sociale sulla strada delle alternative possiamo chiudere gli spazi 
>alle politiche di guerra e terroristiche.
>
>4 – Dentro la crescita dell’iniziativa contro la guerra è cresciuto 
>anche il dibattito sulla “nonviolenza” – e allo stesso tempo le 
>richieste inaccettabili di “ripudiare la violenza” fatte da chi invece 
>continua a pensare e praticare la guerra come strumento 
>“possibile” della politica, con i suoi interventi militari, l’aumento 
>delle spese militari ecc: non è a questi personaggi, evidentemente,
> che siamo chiamati a rispondere, perché non hanno alcun titolo
>per darci lezioni!
>Il rifiuto di pratiche violente - perlopiù finalizzate 
>all’autorappresentazione di sé o alla costruzione di un’identità - e 
>della separazione tra mezzi e fini crediamo sia una caratteristica 
>ormai diffusa e condivisa del/nel movimento – e dobbiamo 
>continuare a operare perché lo sia sempre di più.
>Il dibattito che dobbiamo affrontare – senza alcun timore o 
>atteggiamento difensivo – non può però partire da assunti ideologici
> (per cui la nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede 
>aprioristica) ma nemmeno dall’idea della nonviolenza come 
>semplice “pratica” o metodologia. 
>Dobbiamo lavorare per un'alternativa di società non violenta, 
>riconoscibile anche nel suo percorso di formazione ma 
>l’opposizione ai processi di espropriazione sociale e alla violenza 
>delle politiche di guerra può rendere necessaria la resistenza, la 
>disobbedienza civile, il boicottaggio, il “sabotaggio” delle leggi 
>ingiuste e illegittime (pensiamo alla Bossi-Fini, ma anche alla 
>legge 30, alle spese militari o alla presenza di basi e depositi 
>militari sul territorio ecc.). 
>Il problema, secondo noi, è la visuale da cui si guardano a queste 
>azioni e il metodo delle lotte. Siamo convinti dell'inevitabilità del 
>conflitto sociale, anzi della sua necessità per far avanzare una 
>nuova società. Ma il conflitto sociale è utile ed efficace solo se
>coniugato al consenso, alla partecipazione popolare, alla 
>democraticità delle scelte e delle decisioni comuni. Le forme di 
>lotta vanno individuate sulla base di un criterio fondamentale: 
>quanto più riescono a rafforzare la partecipazione, il protagonismo, 
>la consapevolezza delle proprie ragioni, la coscienza di sé, dei 
>propri obiettivi il coinvolgimento nelle pratiche, l'allargamento delle 
>lotte, tanto più sono giuste e necessarie. Altrimenti si corrono due 
>rischi speculari: l'avanguardismo fuori tempo massimo, il dirigismo 
>"machista" e muscolare oppure la subordinazione al pensiero, e 
>agli interessi, dominanti sempre in cerca di sterilizzazioni 
>ideologiche di qualsiasi tipo di conflitto.
>
>
>Sperimentare nuove forme di conflitto sociale e politico, nuove relazioni tra
>mobilitazione sociale e consenso, tra partecipazione e costruzione di spazi
>pubblici sottratti al dominio del mercato e della violenza – questo è il
>terreno di confronto e di lavoro a cui siamo chiamate/i, tutte/i insieme.
>
>
>
>Tutte/i insieme, al Fse di Parigi, abbiamo deciso che il 20 marzo sarà una
>giornata internazionale contro la guerra e le occupazioni militari,riprendendo
>la proposta del movimento contro la guerra degli Stati Uniti. 
>E' molto importante costruire questa scadenza nelle forme più unitarie che il
>movimento sarà capace di darsi a partire dalla riunione del Gruppo di continuit
>à allargato del 7 dicembre. 
>Ci sembra utile, però, richiamare l'attenzione sulla necessità di un
> approfondimento tematico - seminariale e
>assembleare - del movimento (a partire dalla proposta del tavolo 
>Bastaguerra) per non nascondere le differenze tra noi, ma 
>valorizzarle ecomunicarle e costruire, così meglio, una 
>consapevolezza comune e l¹affermazione delle nostre ragioni 
>condivise.
>
>Salvatore Cannavò, Piero Maestri, Felice Mometti, Luciano 
>Mulhbauer – redazione “Erre”
>
>
>
>
>
>Per annullare l'iscrizione a questo gruppo, manda una mail all'indirizzo:
>bastaguerra-unsubscribe@???
>
>
>
>L'utilizzo, da parte tua, di Yahoo! Gruppi è soggetto alle http://it.docs.yahoo.com/info/utos.html


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Paola Manduca