[Lecce-sf] Ritiro immediato dall'Iraq

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Autore: Silverio Tomeo
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Oggetto: [Lecce-sf] Ritiro immediato dall'Iraq
Ritiro immediato dall'Iraq
            Segreteria nazionale della Cgil


            Subito dopo l'attentato di Nassiriya abbiamo detto che quella
            tragedia colpiva dolorosamente tutte le lavoratrici e i
lavoratori
            italiani e tutto il paese in egual misura: chi aveva sostenuto
le
            ragioni della guerra in Iraq e chi come noi ne ha sempre
sostenuto
            illegittimità e assurdità.
            E' un dolore che si è manifestato con i dieci minuti di
sospensione
            dal lavoro proclamati da Cgil, Cisl, Uil nel giorno dei
funerali,
            con mille segni e gesti di solidarietà alle famiglie dei
militari e
            dei civili morti, con lo sfilare silenzioso al Vittoriano e che
ha
            accomunato tutta la città di Roma e l'Italia.
            Un dolore a cui la retorica utilizzata a piene mani dai media
non ha
            aggiunto nulla, anzi. Il rispetto del lutto ha come suo
corollario
            insostituibile la sobrietà, quella contenuta nelle dichiarazioni
dei
            familiari dei carabinieri e dei militari uccisi, quella delle
            dichiarazioni di chi si trova ancora a Nassiriya: "non siamo
eroi,
            ma persone a cui è stato affidato un compito che cerchiamo di
            svolgere al meglio".
            Si è detto che in giorni come questi, il dolore (e noi,
            condividendo, aggiungiamo la sobrietà) impone che tacciano le
            polemiche politiche. Se è giusto sospendere la ricerca delle
            responsabilità (la polemica), è altrettanto doveroso che le
grandi
            forze sociali e politiche non vengano mai meno alle loro
            responsabilità. In verità in questi giorni e durante l'immediato
            dibattito parlamentare tutti hanno espresso opinioni sul tema
vero
            all'ordine del giorno: il ruolo che l'Italia ha scelto di
svolgere
            nella guerra in Iraq, di cui l'invio e la permanenza delle
truppe è
            diretta conseguenza, e quello che da oggi dovrà assumere per
            superare l'immane tragedia che la situazione in Medio-Oriente
            rappresenta.
            Si è reso evidente così che il silenzio del lutto per alcuni
            sottintendeva la cancellazione fastidiosa delle opinioni
diverse, in
            questo caso contrarie alla guerra e alla presenza militare in
            territorio iracheno.
            E' un errore d'altra parte circoscrivere la discussione in una
            disputa tra permanenza e ritiro delle truppe, perché in realtà
l'una
            e l'altra scelta sono conseguenze di una discussione più
complessa,
            che è quella che va fatta per intero.
            Per noi il giudizio sull'invio dei militari italiani e la loro
            permanenza discende, così come dovrebbe essere, in primo luogo
dal
            giudizio sulla guerra, sbagliata e illegittima, e dalla
valutazione
            sulle possibili soluzioni della crisi internazionale che quella
            guerra ha aggravato. Pensavamo e pensiamo che la guerra non
possa
            essere lo strumento per risolvere le controversie
internazionali,
            come afferma la Costituzione italiana e come abbiamo chiesto
venga
            inscritto nel Trattato costituzionale europeo. Lungi da essere
una
            semplice affermazione di valore, il rifiuto della guerra, nel
mondo
            globale e interdipendente, è una scelta strategica di politica
            internazionale.
            Pensavamo e pensiamo che il terrorismo, che non ha mai ragione,
            neanche quando brandisce le bandiere dell'ingiustizia, vada
            contrastato dalla comunità internazionale innanzitutto
asciugando
            l'acqua che lo alimenta, imboccando la strada del superamento
del
            baratro che oggi divide il Nord ricco del mondo dal Sud povero,
            ricostruendo per tutti speranza, libertà, diritti umani. Da più
di
            dieci anni la comunità internazionale assiste alla tragedia del
            conflitto israelo-palestinese. Quella tragedia e il suo carico
            quotidiano di morti continua ad alimentare un terrorismo sempre
più
            globale e aggressivo (di cui la strage nella sinagoga di
Istanbul è
            una nuova testimonianza) e foraggia la follia della
contrapposizione
            tra Islam e Occidente: come può una guerra mettere fine a tutto
ciò?
            La teoria della guerra preventiva è la risposta
dall'amministrazione
            americana alla necessità di ridefinire un nuovo ordine mondiale,
            franato insieme al muro di Berlino e travolto dalla
globalizzazione.
            Una risposta che propone una nuova egemonia militare, economica,
            politica e sociale, quella americana.
            La storia e la cronaca dimostrano tragicamente che quella
ricetta
            non è solo sbagliata in termini etici, è inefficace e perdente:
lo
            scontro di opinioni sulla scena mondiale e nella dialettica
politica
            italiana è avvenuto esattamente su questo punto.
            L'Europa si è divisa su questo; questo è stato il conflitto che
ha
            pesato sulla stesura del Trattato costituzionale; questa
l'ambiguità
            tra i paesi e nei paesi europei sulla stessa missione
dell'Europa:
            concorrente-alleato Usa o attore che promuove, in virtù del suo
            modello sociale, un nuovo ordine mondiale fondato sulla
            multipolarità, su una nuova democrazia mondiale, su una nuova
            definizione di beni pubblici e diritti fondamentali che la
comunità
            internazionale ha il dovere di promuovere e tutelare
universalmente.
            L'Italia ha scelto in questi mesi la subordinazione a
prescindere
            all'amministrazione Bush; ha assecondato il senso della guerra
            preventiva, sposandone motivazioni e implicazioni geo-politiche
e di
            modelli di sviluppo. Ha smarrito perfino il profilo della sua
            tradizionale politica estera attenta, per la sua stessa
            configurazione geografica, ai paesi arabi, e per questo ha
            rinunciato a quella funzione, anch'essa tradizionale, di
mediazione
            tra israeliani e palestinesi.
            L'invio delle truppe italiane in Iraq è stato il corollario di
            quelle scelte, al di là delle giustificazioni di peace-keeping:
è
            possibile "mantenere la pace" sotto comando inglese, nel corso
di
            una guerra che oggi, tutti, riconoscono in corso?
            La real politik consiglia di pensare all'oggi e non al passato,
ma
            in realtà è proprio sulla scorta della genesi della situazione
che
            si possono trovare rimedi efficaci e definitivi.
            La direzione di marcia da imboccare non ha molte alternative: la
            comunità internazionale, l'Onu, deve assumere responsabilità;
deve
            promuovere una nuova speranza per il conflitto
israelo-palestinese
            con l'invio di una forza di interposizione a cui l'accordo di
            Ginevra tra intellettuali israeliani e palestinesi dà
ancoraggio;
            deve agire subito per avviare il processo di ricostruzione dello
            stato iracheno e delle sue istituzioni, liberamente scelte.
            La nostra opinione è che la presenza in quel territorio di
truppe
            anglo-americane e italiane sia da un lato un ostacolo decisivo
per
            l'avvio di quel processo, dall'altro costituisca l'acqua per
nuovo
            terrorismo.
            Anche su questo occorre intendersi: perché si avvii un processo
di
            ricostruzione della fisionomia di uno stato iracheno
democratico,
            occorre che il popolo iracheno riconosca legittimità
all'autorità
            che promuove quel processo: è possibile che tale legittimità, e
            quindi il consenso, vengano riconosciuti a chi, il comando
            anglo-americano, ha bombardato alla ricerca di armi non trovate,
ha
            distrutto il suo apparato militare e amministrativo, ha
cancellato
            il suo patrimonio artistico, la sua memoria?
            E' possibile scongiurare il sospetto che esistano interessi
propri
            che le truppe anglo-americane presidiano in quel territorio in
luogo
            degli interessi loro?
            Il ruolo dell'Onu non è necessario solo per ripristinare il
diritto
            internazionale violato dalla guerra illegittima (pure se nel
vuoto
            del diritto internazionale l'arbitrio diventa la nuova regola
            dell'ordine mondiale), ma per ragioni squisitamente politiche e
di
            consenso, per rendere credibile il processo che è necessario
            avviare: il ritiro delle truppe è la condizione di premessa per
la
            ricostruzione politica e sociale dell'Iraq, per il suo
auto-governo,
            per togliere acqua al terrorismo.
            La risoluzione 1511 dell'Onu costituisce un tentativo di
rimettere
            insieme i cocci del diritto internazionale violato dalla guerra
            preventiva: cerca di affrontare il tema importante della
legalità
            internazionale, non risolve quello decisivo della legittimità
            politica di fronte al popolo iracheno.
            La Cgil ha assunto in questi mesi una posizione netta sulla
guerra,
            sulla missione dell'Europa, dunque sullo scontro geo-politico
aperto
            sullo scenario internazionale, perché riteniamo che gli esiti di
            quello scontro incidano pesantemente sulle condizioni materiali
e
            sulle libertà delle persone che rappresentiamo:non l'abbiamo
fatto
            da soli ma insieme al grande e composito movimento per la pace
che
            oggi non può non tornare in campo.
            Continueremo a farlo promuovendo, a dicembre, una iniziativa di
            discussione che avrà il profilo generale di cui si diceva e
            partecipando e aderendo a tutte le iniziative che si muovano
nella
            medesima direzione: (cominciando da sabato 22 novembre) no al
            terrorismo, no alla violenza, no alla guerra preventiva,
immediata
            assunzione di responsabilità della comunità internazionale e
            immediato ritiro delle truppe.


            La Segreteria Nazionale della CGIL
            Roma, 19 novembre 2003





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