[ssf] [Fwd: FW: Marcos- sulla Globalizzazione]

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Author: MAtteo HCE Valsasna
Date:  
Subject: [ssf] [Fwd: FW: Marcos- sulla Globalizzazione]
carissimi,

questo sarebbe stato uno dei soliti messaggio inviato alla lista
con allegati che non tutti possono leggere e comunque troppo grossi, che
normalmente sono rispediti al mittente nella speranza che
vengano riinviati in modo più educato.

visto il contenuto pregiato, e la scarsa propensione del mittente
a mandare i messaggi in modo educato, ho fatto un'eccezione e ho
convertito l'allegato in testo

buona lettura

MAtteo



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From: Enzo Arighi <attacchighi@???>
Subject: Marcos- sulla Globalizzazione
Date: 28 Oct 2003 22:20:13 +0100


----- Original Message -----
From: Colin <mailto:colin@nautilo.it>
To: lista cn attac <mailto:lista.cn@attac.org> ; Attac
<mailto:lista.comitati@attac.org> Comitati ; lista privatizzazioni
<mailto:lista.privatizzazioni@attac.org> ; Attac Chianti-Valdelsa
<mailto:colin@nautilo.it>
Sent: Tuesday, October 28, 2003 4:29 PM
Subject: [COMITATI] FW: incontro degli intellettuali

Allegato il discorso di Marcos e la dichiarazione conclusiva
dell'incontro internazionale degli intellettuali "IN DIFESA
DELL'UMANITà" tenutosi a Città del Messico il 24-25 ottobre
Ciao
Colin

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MARCOS:

LA LOTTA CONTRO LA GLOBALIZZAZIONE E’ UNA QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA

Buongiorno, buona sera, buona notte. Il mio nome è Marcos,
subcomandante insurgente Marcos. Sono stato invitato al Forum per la
difesa dell’umanità per dire qualche parola. Ringrazio per l’invito,
devo però avvertire che sono un soldato dell’Esercito Zapatista di
Liberazione Nazionale. Lo segnalo perché, come mi hanno riferito,
condividerei la parola con intellettuali e leader politici
sociali. Per questo la mia voce, forse, suonerà discordante (voglio
dire, al di là della registrazione) e fuori luogo. Oppure no, talora
ci saranno, in quanto dirò, ponti e coincidenze. A volte accade che la
penna e la spada coincidano.

Forse concordiamo nell’inquietudine per un necessario dibattito e uno
scambio di idee che aiutino a chiarire un poco questo confuso e
disordinato orizzonte che alcuni chiamano storia contemporanea e che,
a tratti, fa del triviale e del grottesco, questione di interesse e
scandalo mondiale; ed altre volte fa del terribile ed aberrante
qualche cosa che, a forza di ripetersi, diventa un ritornello monotono
e non percepito.

Citerò alcuni appunti frettolosi sulla globalizzazione e sul
neoliberismo, o meglio, su quello che noi riusciamo a percepire (e a
patire) di questi, e sulle resistenze in generale e la nostra
resistenza in particolare.

Come ci si può aspettare, in questi appunti regnano lo schematismo e
la riduzione, ma credo che riescano a tracciare una o più linee di
discussione, dialogo e riflessione. O, meglio ancora, di memoria e
vergogna.

“Dovresti vergognarti per avermi escluso”, dice Durito che è venuto a
rifugiarsi dalla pioggia.

“Non ti ho escluso. Il fatto è che non hanno invitato te, ma hanno
invitato me”, gli dico mentre con discrezione nascondo il tabacco.

“Una cosa va con l’altra, In questo caso, un naso va con una
tettoia. O forse mio raffreddato scudiero vorresti privare queste
buone persone del piacere di ascoltare le mie sagge parole, di
illuminarsi con la mia saggezza e di svegliarsi dal letargo in cui le
tue parole cominciano a gettarli?”, domanda Durito mentre mi punge il
naso con Excalibur, la leggendaria spada.

“Quella spada somiglia in maniera sospetta ad una penna che ho perso
l’altro giorno”, gli dico cambiando argomento. Ma Durito risponde:

“Non cambiare argomento! Puoi scegliere: o mi dai uno spazio per i
miei sapienti progetti o perirai sotto la mia penna, voglio dire,
sotto la mia spada”, dice Durito con un tono che farebbe l’invidia di
qualsiasi funzionario del Fondo Monetario Internazionale che stesse
parlando con qualche governo latino americano.

E, applicando quanto appreso dai governi “nazionali”, ho
ceduto. Questa è la parte che Don Durito de La Lacandona, il fiore e
il meglio della cavalleria errante, ha inviato a questo forum.

Si chiama:

Palloni o negozi

Il mondo è come un globo gonfiato. Cioè, è come un palloncino
gonfiato. Ovvero, quando si dice che c’è la globalizzazione, è che c’è
la mondializzazione delle parti del mondo.

Ma c’è, come si dice, una mondializzazione di quelli che hanno molto
denaro. E c’è pure, come si dice, la mondializzazione della lotta,
ovvero della resistenza.

Nella mondializzazione del denaro, cioè nella globalizzazione dei
potenti, c’è molta malvagità, ma la malvagità non se ne sta quieta
all’interno di un paese, ma si intromette in tutti i paesi. E questa
malvagità si introduce in altri paesi attraverso la guerra, con il
denaro, attraverso le idee, con la politica.

Ovvero, nella mondializzazione della malvagità quelli che sono molto,
molto ricchi non sono soddisfatti di essere ricchi e sfruttatori in un
paese, cioè tra la loro gente, ma vogliono più denaro e si introducono
in altri paesi per guadagnare altro denaro, e non rispettano niente
perché amano solo la loro astuzia sfruttatrice e vogliono solamente
guadagnar denaro; sebbene già ne posseggano tanto, non gli basta,
vogliono di più.

Ed allora si introduce il denaro in un altro paese e non rispetta quel
paese per colpa della globalizzazione del denaro che no rispetta i
paesi e la gente.

Cioè, ogni paese è come un pallone che scoppia e dal quale esce tutto
quello che lo rendeva speciale, come le sue usanze, la sua parola, la
sua cultura, la sua economia, la sua politica, la sua gente, insomma,
il suo modo di essere.

E nel momento in cui il paese si rompe e tutto il mondo si introduce
in quel paese, quel paese non è più quel paese, ma è tutto il
mondo. Ma non è il mondo della gente, ma è il mondo del denaro, in cui
la gente non ha importanza.

È come se una persona si rompesse e non fosse più una persona, e che
tutte le malvagità si introducessero in quella persona e se la
mangiassero e quindi non ci sarebbe più una persona, ma ci sarebbe
solo quello che si è mangiato la persona.

Quindi diciamo che la globalizzazione dei potenti, cioè del denaro, si
mangia i paesi e divora le persone che vivono in quel paese. Perché un
paese è come una casa in cui vive la gente del paese. E il denaro
mondiale distrugge la casa, cioè il paese, e la gente resta senza casa
e senza anima perché le persone non si conoscono tra loro e si
comportano come sconosciuti, con la sfiducia negli occhi e nelle
parole, proprio tristi.

E nel momento in cui un paese resta senza la sua anima, assume l’anima
del denaro.

E quel paese che si è rotto non è più una casa in cui vive la gente di
quel paese, ma è un negozietto in cui si vendono e si comperano cose e
genti.

Perché nella globalizzazione, il denaro costruisce negozi dove prima
esistevano paesi.

E allora, siccome il paese non è più un paese ma è un negozio, la ente
non è più gente, ma solo compratori o venditori.

E la gente non è proprietaria del negozio, ma il proprietario del
negozio è il denaro mondiale.

Cioè, la gente non comanda più nel proprio paese, comanda il denaro
mondiale.

Quindi, come diciamo noi, il pensiero dominante è il pensiero del
denaro.

Per esempio certa gente pensa, ad esempio, ad una nube ed è gente che
sta pensando ad una nube e dipinge il suo pensiero, per esempio, di
azzurro, e questa gente che se ne sta con il suo pensiero di una nube
azzurra è contenta del suo pensiero di una nube azzurra e si procura
un palloncino e lo gonfia e lo dipinge di azzurro e lo da ad un bimbo
o ad una bimba, e la bimba o il bimbo gioca con il palloncino che era
un pensiero di nube azzurra. Perché la gente, quando pensa come gente,
pensa pensieri per la gente.

Ma il denaro non pensa alla gente, ma pensa ad altro denaro. Cioè, il
denaro non ha limite e divora tutto per fare più denaro.

Cioè, il denaro non pensa ad una nuvola, ma pensa ad una merce che
venderà e da cui ricaverà altro denaro.

Cioè, con la globalizzazione del denaro si mondializza anche il
pensiero del denaro.

E questo pensiero del denaro è come una religione che adora il dio del
denaro, e i templi di questa religione sono le banche ed i negozi, e
le preghiere sono i conteggi del denaro, quanto vendono, quanto
guadagnano.

E questa religione del denaro si chiama “neoliberismo”, cioè che vuol
dire che esiste una nuova libertà per il denaro. Cioè, che il denaro è
libero di fare quello che vuole. E la gente non ha più la libertà ma
il denaro sì.

E con la globalizzazione del denaro si distrugge il mondo mondiale,
cioè si rompe il globo del mondo ed il palloncino mondiale scoppia, e
allora il denaro costruisce un negozio dove prima c’era un paese:
cioè, dove prima c’era una casa con gente ora c’è un negozio.

Quindi la globalizzazione del potere distrugge i paesi per costruire
negozi. E i negozi sono fatti per vendere e comperare.

E se per esempio uno non ha un reddito o non vuole comperare, allora
questo non conta niente e bisogna distruggerlo. E se, per esempio, non
ha nulla da vendere o non vuole vendere né vendersi, allora non serve
e bisogna distruggerlo.

La globalizzazione del potere è come una guerra contro la gente e le
sue cause, cioè è una guerra contro l’umanità.

La globalizzazione del potere distrugge le case della gente, cioè i
paesi, e a volte arriva a distruggere con una guerra. Altre volte
entra perché qualcuno dall’interno gli ha aperto la porta per venire a
distruggere.

E quelli che aprono la porta sono i politici, quelli che comandano nei
paesi, cioè nelle case della gente. Quindi i politici non servono più
per comandare, perché non comandano più loro ma chi comanda è il
denaro mondiale.

Allora i politici diventano negozianti, quelli che si occupano del
negozio che prima era un paese, una casa di certa gente.

Ma i politici di prima non servono più per occuparsi del negozio ed è
meglio mettere altri che studiano ed imparano ad occuparsi dei
negozi. E questi sono i nuovi politici, cioè sono negozianti.

E non importa se non sanno nulla di governo, ma importa che sappiano
occuparsi del negozio e procurino buoni incassi per il loro padrone
che è il denaro mondiale.

Quindi, nei governi dei paesi distrutti dalla globalizzazione del
potere, non ci sono più politici ma negozianti.

E lì, nei negozi che prima erano paesi, le elezioni non avvengono per
installare un governo, ma per mettere un negoziante.

Quindi si mettono in competizione, cioè a litigare tra loro, grassi,
magri, alti, piccoletti, di diversi colori che cominciano a parlare e
a parlare ed è puro chiacchiericcio, ma non dicono la cosa più
importante, cioè che tutti sono diversi in viso, ma tutti sono uguali
perché diventeranno negozianti.

Alla globalizzazione del potere non importa se il negoziante è verde,
azzurro, rosso o giallo. Quello che importa è che il negoziante
procuri buoni incassi.

I negozianti cambiano ma negozianti restano.

Nella globalizzazione del potere il mondo non è più rotondo, come un
palloncino gonfiato, ma scoppia ed al suo posto resta un grandissimo
negozio.

E i negozi, come tutti sanno, sono quadrati, non tondi.

Più o meno è così che funziona la globalizzazione, come se dicessimo
“la palloncizazzione”.

(Fine della relazione di Durito)

“Palloncizzazione?” Finalmente torno alla serietà ed alla formalità.

In aggiunta a quanto espresso da Durito in maniera tanto peculiare,
anche noi pensiamo quanto segue:

PRIMO. Se nella politica antica” (cioè, dalla greca Atene fino alle
moderne repubbliche) lo Stato era la “madre” dell’individuo ed il seno
in cui era in gestazione, cresceva e si riproduceva la società, nel
mondo globalizzato lo Stato non può più assolvere questa
funzione. L’individuo non deve più fare riferimento ad una patria, una
cultura, una razza o una lingua. Il ventre materno è ora una megasfera
che alcuni chiamano ancora “pianeta terra”. Il “cittadino” non è più
il membro della polis, ma il navigante della megapolis, per tanto
necessita di “altre” conoscenze e abilità che lo Stato nazionale non
può offrire.

SECONDO. Nello stesso modo, gli “uomini di Stato”, quei superuomini
autori di testi classici, guerre, imperi, leggi e repressioni, non
esistono più in quanto tali. “Quell’addestramento” interno che
esisteva nelle classi politiche per preparare i propri membri a
sostituirsi gli uni con gli altri è obsoleto, le capacità della
politica classica (oratoria, capacità di leader, sensibilità,
sobrietà, conoscenze storiche, filosofiche, di giurisprudenza,
adeguata relazione) sembrano ora più caratteristiche della nostalgia
circense. Il protocollo del potere, quel complesso miscuglio di
segnali e tendenze, non si apprende più né si esercita nello Stato.

TERZO. Lo Stato nazionale tende a non essere più l’incaricato della
riproduzione degli uomini (intendendo “riproduzione” nel suo
significato più ampio, cioè, le condizioni economiche, politiche,
culturali e sociali per la sua riproduzione sociale), ma
l’amministratore-contenitore dei disordini di questa riproduzione. Il
megapotere, questo ente di cui poco si sa, ora impone una riproduzione
più importante: quella del denaro.

QUARTO. La lotta contro la globalizzazione del potere (e contro il suo
supporto ideologico: il neoliberismo) non è esclusiva di un pensiero o
di una bandiera politica o di un territorio geografico, è una
questione di sopravvivenza umana. Così come nella Seconda Guerra
Mondiale moltitudini di forse resistettero e lottarono contro il
fascismo, ora sono molte le forze che resistono e lottano contro il
neoliberismo.

QUINTO. Negli Stati nazionali il processo dell’accoppiata
globalizzazione-neoliberismo produce un fenomeno di reSistenza che,
ogni volta in forma sempre più accentuata, incorpora ampi settori
della popolazione SENZA CHE SIA PRIMORDIALE LA SUA CLASSE SOCIALE O IL
LUOGO CHE OCCUPA NEL PROCESSO DI RIPRODUZIONE DEL CAPITALE.

SESTO. Appaiono, per esempio, gruppi sconcertanti (di fatto, la teoria
aveva decretato la loro scomparsa o il loro “assorbimento” da quelli
che stanno in alto): da un lato, indigeni che parlano lingue
incomprensibili (cioè, inservibili per l’interscambio di merci) e che
sfidano con armi di legno elicotteri, carri armati, aerei,
mitragliatrici, bombe; d’altro lato, giovani disoccupati (il “lumpen”
che, teoria comanda, dovrebbe ingrossare le fila degli apparati
repressivi dello Stato) che si mobilitano contro il governo ed esigono
il rispetto; più in là, omosessuali, lesbiche e transessuali che
chiedono il riconoscimento della loro differenza.

SETTIMO. Questi fenomeni di resistenza (“sacche di resistenza” le
chiamiamo noi per opporle alle “altre” borse, quelle dei valori [gioco
di parole sul termine spagnolo “bolsa” N.d.T.]) tendono a ricercare la
comunicazione in fenomeni simili in altre parti del mondo. Le
superautostrade dell’informazione, concepite per facilitare il flusso
delle merci e del denaro, cominciano a vedersi (non senza timore)
percorrere da vecchie strade, animali da soma e pedoni che non
scambiano merci e capitali, ma qualche cosa di molto pericoloso:
esperienze, mutuo appoggio, STORIE.

È chiaro che sto parlando di quello che ho davanti: la nostra guerra,
le nostre armi, la nostra storia. Ma esistono altri esempi che ci
parlano di una nuova emergenza, di qualcosa di nuovo che irrompe qui e
là e che non abbiamo finito né di controllare né di comprendere, in
parte perché siamo un frammento di quei fenomeni, in parte per il
precipitare degli avvenimenti, in parte perché il presente è il luogo
peggiore per pensare l’oggi, in parte perché ci sono ancora molte cosa
da definire.

Ma qualcosa comincia ad essere sempre più chiaro: non è sicuro che
abbiamo perso noi e, soprattutto, non è sicuro che hanno vinto
loro. La storia che conta, quella che facciamo uomini e donne, ha
ancora molto filo da tessere e non si finisce di indovinare neppure il
disegno né il colore che dovrà avere questo gigantesco arazzo che è
l’umanità. Noi, e con noi molti come noi, sappiamo che, in ogni caso,
il colore non è il grigio che ora impongono, né il disegno che è solo
dolore e morte. Ci sono anche molti altri colori. E c’è anche molta
speranza.

Se il pianeta mostra ferite aperte e sanguinanti sulla sua tonda
geografia, non è solo nominandole che le saneremo, sicuramente, ma
compiamo un gesto di umanità che talvolta sembra perduto.

Citiamo quindi Palestina e che la vergogna ci ricopra.

Citiamo I Balcani e che la memoria ritorni.

Citiamo Euskal Herria e ammiriamo la silenziosa e incompresa
resistenza di un popolo che, da secoli, rifiuta di essere
conquistato. Là, sull’altra sponda dell’Atlantico, un popolo è
accerchiato in una classica manovra a tenaglia: da un lato la superbia
del potere che, protetto dietro giudici incantati dai clic delle
macchine fotografiche, comanda un’autentica guerra di sterminio;
d’altro lato, la codardia di un settore che si dichiara progressista e
che, più attento alla correttezza politica, mantiene un complice
silenzio mentre la cultura basca viene classificata come “terrorista”.

Citiamo Cuba e che il sangue latinoamericano cerchi i ponti su cui ci
siamo incontrati ieri e su cui ci incontreremo domani. Nei Carabi, un
popolo affronta un accerchiamento che non ha rappresentazione
letteraria. Questo popolo ha fatto sì che solo citare il suo nome
richiami una storia di lotta e resistenza, di generosità e coraggio,
di nobiltà e fratellanza. Si dice “Cuba” come si dice “dignità”.

Citiamo Bolivia e salutiamo l’eroico percorso di aymaras e quechua
nella difesa della terra. Salutiamo quelli che fanno dell’essere
indigeno un orgoglio e che con la loro ribellione fanno tremare i
negozianti di tutta l’America.

Citiamo Chiapas e scopriamo nei piedi dei più piccoli, il domani del
“per tutti, tutto”.

Citiamo qualsiasi angolo del pianeta e siamo perseguitati insieme a
omosessuali, lesbiche e transessuali; resistiamo con le donne al
destino imposto di decorazione idiota; resistiamo con i giovani alla
macchina trituratrice di inconformismi e ribellioni; resistiamo con
operai e contadini al salasso che, nell’alchimia neoliberista,
trasforma la morte in dollari; percorriamo il passo degli indigeni
dell’America Latina e con i loro piedi facciamo il mondo rotondo
affinché ruoti.

Citiamo chi non ha nome. Guardiamo chi non ha volto.

Citiamo e guardiamo il mondo che ora non esiste, ma che comincerà ad
esistere nelle nostre parole e nei nostri sguardi.

Citiamo dunque i dolori dell’umanità. Non solo perché sono anche
nostri dolori. Anche perché citandoli ci rendiamo un poco più
umani. Perché davanti a queste ferite, il silenzio è rinuncia, resa,
claudicazione, morte.

Se c’è chi ha fatto della penna una spada, che faccia scintillare
l’aria con il suo fulgore, che segnalando le nostre ferite si
nobiliti, che citandoci ci renda parte di un rompicapo che domani sarà
un mondo non mancante di memoria né di vergogna.

Perché entrambe, la memoria e la vergogna, ci rendono esseri umani.

Non siamo i delatori della nostra storia, della nostra coscienza, i
traditori della parola che abbiamo innalzato ieri e che oggi ci
convoca per essere affilata e unita alla memoria e alla vergogna.

Bene. Salute e che la penna sia anche una spada, e che il suo filo
tagli l’oscuro muro da cui dovrà passare il domani.

Dalle montagne del sudest messicano.

Subcomandante Insurgente Marcos

Messico, ottobre 2003

Relazione del subcomandante insurgente Marcos all’incontro
internazionale di intellettuali a difesa dell’umanità, tenutosi nei
giorni 24 e 25 ottobre 2003 al Polyforum Culturale Siqueiros, Città
del Messico.







Dichiarazione finale dell'incontro internazionale "In difesa
dell'umanità"

Città del Messico - 24 e 25 ottobre 2003



Noi, intellettuali universitari, dei mezzi di comunicazione, della
cultura e dei movimenti sociali di diverse regioni del mondo,
partecipanti all'incontro internazionale "In difesa dell'umanità", ci
siamo dati appuntamento a Città del Messico con il proposito di
riflettere sulla gravissima situazione mondiale. Coscienti delle
nostre responsabilità emettiamo la seguente dichiarazione:

Dichiarazione:

L'umanità è arrivata ad un punto critico che contiene seri
pericoli. Si affaccia una nuova barbarie. Non si tratta solo del fatto
che una minoranza abbia concentrato una porzione enorme di ricchezze,
mentre le masse impoverite possono appena sopravvivere. Il sistema
egemonico opera come un macchinario d'esclusione sociale.

Una quantità sempre maggiore di esseri umani è stata dichiarata
prescindibile dal modello in espansione e predomina l'idea che gli
organizzatori pubblici non devono preoccuparsi della sorte degli
esclusi della globalizzazione.

Se importa poco il destino di questi esclusi, importano ancor meno i
loro valori e le loro culture, le loro identità e comunità, a meno che
non siano assorbiti dall'imperativo del mercato. Con questa concezione
escludente, comunità umane o modi di vita privati sono destinati
all'estinzione. Insieme a loro soffrono milioni di lavoratori
supersfruttati, sottomessi alle arbitrarietà dei capitalisti e alla
constante perdita di diritti.

Il medio ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi con i quali ha
convissuto l'umanità lungo millenni si sono convertite in oggetto di
commercio e di accumulazione, al servizio degli interessi
privati. L'acqua ed altri risorse fondamentali per la vita umana sono
prigionieri di quegli stessi interessi. Il consumismo e lo sperpero
delle risorse sono le norme promosse dal capitalismo neoliberale.

L'umanità affronta dei pericoli che attaccano direttamente la sua
sopravvivenza sociale, culturale ed ambientale. Questa minaccia non
proviene da forze naturali, ma da poteri economici e politici che
negano i più alti valori concepiti lungo la storia ed esaltano invece
l'avarizia e l'egoismo.

La diversità è sostanziale nella società umana ed ha resistito a tutti
i tentativi di omogeneizzazione. I progetti di uniformità
socioculturale risultano funzionali ai progetti di dominazione. Tale
fortuna della pluralità umana può convertirsi in discordie, scontri
tra popoli, in fondamentalismi ed odi etnici. Intese come
globalizzazione escludente, le cosiddette leggi del mercato richiedono
una umanità indifferenziata e uniformata. Però aldilà dello sforzo per
convertire in un tutto omogeneo la società umana, affiorano
permanentemente le differenze e la diversità linguistica e culturale
dei popoli e delle nazioni. Di fatto, contro ciò che gli ideologi
della globalizzazione sperano e nonostante all'assedio neoliberale,
assistiamo ad una rinascita delle lotte etnico-nazionali in tutto il
mondo, con nuovi orizzonti di liberazione pieni di promesse, che si
uniscono alle lotte sociali.

I centri di potere pretendono di imporre il loro proprio personalismo
socioculturale a tutta l'umanità, con la presunzione che costituirebbe
l'autentica e l'unica forma di vita umana piena. Contro questa
tendenza, affermiamo che la diversità del mondo è un valore in se
stesso e una ricchezza dell'umanità.

Agli albori del secolo XXI, l'imperialismo - con le sue diverse
espressioni, alleanze e contraddizioni interne - si è convertito in un
megapotere di carattere politico militare in quegli stati nazionali
che rinunciano all'interesse pubblico.

La "uguaglianza sovrana" dei membri dell'Organizzazione delle Nazioni
Unite (ONU), tale come consta nel primo articolo dei propositi della
Lettera Costitutiva del 1945, è stata messa in forse. A più di mezzo
secolo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale questa organizzazione
viola il proprio marco giuridico: "sopprimere atti di aggressione e
altre rotture della pace" (art. 1); un "assetto pacifico delle
controversie" (art. 3), il rifiuto del "uso della forza contro la
integrità territoriale" (art. 4); il "non intervento negli affari
interni degli stati" (art. 7), altre soluzioni che affermano il
"diritto inalienabile dei popoli all'integrità del loro diritto
territoriale" (1960).

In questo senso, la convalidazione dell'attacco e dell'occupazione
militare dell'Iraq da parte degli Stati Uniti (risoluzione 1511 del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), lascia in sospeso le
speranze di pace che i popoli avevano deposto nell'ONU.

Il messianismo ideologico che definisce l'equipe politica della Casa
Bianca rappresenta un pericolo per la pace mondiale. Il governo
statunitense attacca ed offende senza distinzione i paesi restii a
subordinarsi alla sua

politica imperiale e con la sua dottrina della "guerra preventiva"
minaccia di portare il mondo ad interminabili scontri militari.

Per il governo degli Stati Uniti, l'unica "legge internazionale"
valida è quella che dettano il suo Congresso ed il suo Potere
Esecutivo. Qualsiasi altra interpretazione corre il rischio di essere
associata al "terrorismo".

Ciononostante, la stessa ONU nei suoi documenti differenzia il
terrorismo, slegandolo dalle forme di resistenza nazionale contro
l'occupazione straniera e dal diritto alla ribellione che consacrano
pure molte carte costituzionali del mondo.

Così, i responsabili degli atti di terrorismo di stato più atroci
accusano di "terrorismo" i patrioti che lottano per la libertà dei
loro popoli. Le azioni coperte, l'impiego di mercenari, la violazione
dei diritti umani, l'applicazione della extra-territorialità ai
prigionieri di guerra e l'incitazione all'assassinio dei capi di
stato, come nel caso di Israele rispetto ai leader palestinesi, danno
un'idea del quadro politico contemporaneo.

Nel 1989, le potenze imperialiste hanno assicurato che con la caduta
del Muro di Berlino il mondo entrasse in una era di comprensione di
prosperità sicuri. Ma altri muri cospirano contro questo proposito:
muri alla frontiera del Messico con gli Stati Uniti e nei territori
occupati della Palestina; muri legali e razziali nelle legislazioni
dei paesi dell'Unione Europea che offrono un trattamento indegno agli
immigrati dei paesi poveri; muri economici di carattere protezionista
che bloccano l'accesso al "mercato libero" predicato dal neoliberismo;
muri che violentano i diritti di donne e bambini; muri di intolleranza
alle opzioni sessuali, alle preferenze, alle abitudini ed ai modi di
vita dell'umanità; muri politico-economici che emarginano il
continente africano.

In America Latina, negli Stati Uniti si continua a minacciare Cuba,
con la possibilità di un intervento militare diretta contro una
rivoluzione che per 45 anni ha resistito ad innumerevoli campagne di
destabilizzazione, di aggressione e di blocco economico, grazie alla
sua stabilità popolare ed alla sua ferma volontà di costruire un altro
tipo di società. Perciò, è necessario intensificare la solidarietà e
stringere legami con l'isola assediata e rifiutare tutti i tentativi
aggressivi del governo statunitense.

"L'America per gli americani"... del nord è il rinnovato slogan dei
falchi che occupano il potere a Washington. Grazie all'Area di Libero
Commercio delle Americhe, il cui primo capitolo è stato il Trattato di
Libero Commercio del Messico con Stati Uniti e Canada ed il Piano
Puebla Panama, l'imperialismo pretende d'imporre le sue "leggi" di
mercato. Il discorso che propone di "espandere la democrazia e la
libertà" ha il suo contrapposto nella militarizzazione crescente
dell'America Latina. Sta dimostrato di volta in volta che la
democrazia per l'imperialismo ha un valore strumentale: la appoggia
nei suoi aspetti formali se conviene ai suoi interessi e cospira
contro di lei se le forze popolari arrivano al potere attraverso la
via democratica. Questo concetto si svuota di contenuto quando dà un
permesso legale ai governanti affini al neoliberismo per la consegna
delle risorse al capitale trasnazionale.

Lo illustra il fatto che nel quadro del "Piano Colombia", e con il
pretesto di combattere il "narcoterrorismo", il Pentagono ha
installato una grande base militare nel porto di Manta (Ecuador), per
facilitare le missioni intervenzioniste nell'insieme di paesi della
regione andina. Così pure i governi del Cono Sud si vedono costretti
alla realizzazione di frequenti manovre militari congiunte con gli
Stati Uniti, partendo dal presupposto che nella cosiddetta "triplice
frontiera" (Argentina, Brasile e Paraguay) si radicherebbero dei
gruppi di terroristi islamici.

Il neoliberismo stimmatizza il conflitto sociale e fomenta fenomeni di
disarticolazione dei progetti comunitari (col clientelismo), aliena
l'azione politica (con la demagogia), stimola l'alienazione culturale
(con l'acriticismo), dà risposte filantropiche alla povertà (con
l'assistenzialismo) e reprime con la polizia o militarmente lo
scontento popolare.

Di fronte a queste politiche si alza nel mondo intero una nuova
generazione di intellettuali solidali e coloro che lottano nel sociale
che hanno rotto con le macchinazioni di politici di professione
corrotti.

Sorta da una società oltraggiata e con le armi invincibili della
coscienza e della capacità di organizzazione, i boliviani si sono
alzati in difesa delle loro risorse naturali ed hanno defenestrato un
governo totalmente subordinato agli Stati Uniti.

La ribellione popolare di Bolivia coincide con la resistenza civile e
politica in Haiti contro il potere personalista e autoritario di Jean
Bertrand Aristide, con quella di Porto Rico che vuole lo
smantellamento della base navale nordamericana di Vieques, con quella
dell'Argentina e dei disoccupati che bloccano le strade, con quella
degli

indigeni dell'Ecuador, che si sollevano contro il razzismo e la
discriminazione, con quella del Brasile e dei contadini senza terra
che vedono con inquietudine il rinvio a data indeterminata delle loro
rivendicazioni, con quella del Messico che difenda le sue risorse
strategiche di fronte alla voracità trasnazionale ed i Caracoles
zapatisti che ampliano la lotta per l'autonomia, con quella del
Venezuela e degli attivisti che hanno intrappreso la difesa della
rivoluzione bolivariana ed, infine, con quella del Cile e dei giovani
che lottano contro un sofisticato modello di esclusione sociale.

Attualmente, le forze imperiali cercano di combinare, con le modalità
più raffinate, con l'uso senza pietà del potere militare con il
controllo delle menti e dei cuori delle persone. Si pretende che il
mondo della globalizzazione neoliberale sia l'unico possibile, senza
alternative viabili, e che l'unico atteggiamento di fronte alla vita
dev'essere il conformismo e la rassegnazione. Per loro, il regime
neoliberale non è una costruzione ed una pratica di gruppi di
interessi mondiali e nazionali, ma è il risultato naturale dello
sviluppo delle cose e secondo questa concezione, qualsiasi cambiamento
a questa forma di organizzare il mondo aggraverebbe la
situazione. Sostengono che esiste un solo pensiero economico e una
sola politica che i governi devono applicare.

Una tendenza in marcia inesorabilmente è quella di convertire anche le
università pubbliche in strumenti del progetto economico, politico e
culturale neoliberale. Quest'orientamento corrisponde alla logica
attuale del processo di accumulazione neoliberale che privatizza e
elitizza l'educazione e sopprime a poco a poco i rami umanistici
proclivi al pensiero critico ed alla "sovversione".

L'imperialismo utilizza i credo religiosi come discorsi legittimanti
la sua espansione militare neocoloniale, corrompendo dà il potere ai
gerarchi delle religioni maggioritarie, togliendo loro connotazioni di
protesta e d'impegno sociale.

Questa combinazione militare e ideologica deve essere chiara in tutte
le manifestazioni, in tutto ciò che ha di distruttivo e di inumano, e
sottoposta a una rigorosa ed energica critica. Qui, il ruolo degli
intellettuali è più vitale che mai. Perciò, si richiede di rafforzare
o di recuperare, secondo il caso, il ruolo critico di tutti gli
intellettuali in difesa dell'umanità. La battaglia contro l'attuale
sistema deve esser data anche sul piano intellettuale, culturale e
morale. Il frutto del lavoro intellettuale è la conoscenza, però il
suo autentico carattere è la forza critica e demistificatrice. Il
pensiero sociale, le scienze sociali in particolare, ritrovano il loro
pieno significato quando rivelano gli inganni ed i reali interessi che
soggiacciono a determinate ideologie, e non zoppicano nel loro su
impegno con la verità e con gli interessi della società.

Non ignoriamo che negli ultimi lustri, sotto l'influsso delle idee
neoliberali, alcuni intellettuali hanno dimenticato la loro capacità
critica e, in varie occasioni, si sono addirittura sommati agli
affanni del pensiero unico. Inoltre abbiamo nei nostri paesi una
presunta sinistra che quando arriva al governo ripete gli stessi
precetti e mette in pratica le stesse formule neoliberali.

Nella tappa presente, valutiamo il lavoro intellettuale che si sfodera
in procedimenti rigorosi e, allo stesso tempo, è sensibile
all'ingiustizia del mondo in cui viviamo; che apprende da tutti i
settori in tutte le regioni, nazioni e continenti che si sollevano
contro l'ordine stabilito. Ci riferiamo agli intellettuali che,
formatisi all'università o nel seno dei movimenti sociali, conducono
una battaglia su molti fronti contro la guerra, contro una economia
nella quale si monopolizzano i benefici e si estende lo sfruttamento e
l'esclusione, e che invece propugnano la pace ed i diritti umani
integrali (individuali, collettivi, civili, politici, però anche
sociali e culturali), difendono l'autodeterminazione dei popoli ed il
diritto all'autonomia dei popoli indigeni in tutto il mondo,
l'uguaglianza di tutte le lingue ed, infine, si impegnano a favore
dell'uguaglianza economica e di genere, postulando che la dignità, la
libertà ed il rispetto della ricchezza culturale dell'umanità devono
prevalere sul capitale.



La Jornada - Domenica 26 ottobre 2003