A MADRID IN DISCUSSIONE IL FUTURO DELL'IRAQ
Con il petrolio iracheno rivelatosi insufficiente a finanziare l'
occupazione, e i contribuenti statunitensi non disposti a sobbarcarsi il
relativo onere, l'esito della conferenza dei donatori in programma a Madrid
sarà decisivo per capire se gli Stati Uniti potranno restare in Iraq. Ma l'
occupazione, a sua volta, potrà proseguire solo se dall'attuale modello di
appropriazione unilaterale delle risorse irachene si passerà a un modello
'multilaterale'.
Di Herbert Docena
9 ottobre
Il 23 e 24 ottobre gli Stati Uniti, insieme ai ricchi paesi creditori, il
Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM),
parteciperanno a Madrid alla Conferenza internazionale dei donatori per l'
Iraq. L'FMI, la Banca Mondiale e le Nazioni Unite avevano precedentemente
stimato in 36 miliardi di dollari per i prossimi 4 anni la somma necessaria
per la ricostruzione dell'Iraq, in aggiunta a 19 miliardi di dollari per
ulteriori spese non militari calcolate dal regime americano di occupazione
[1]. In assenza di alternative, gli Stati Uniti saranno costretti a fare
colletta.
Questo incontro potrebbe costituire una svolta, perché la riuscita della
colletta sarà determinante per il prosieguo dell'occupazione. Ma i paesi
donatori, dal canto loro, decideranno di metter mano al portafogli solo se l
'appropriazione economica delle risorse di un paese occupato si trasformerà
da unilaterale a multilaterale.
"QUESTO NON HA NIENTE A CHE VEDERE CON IL PETROLIO"
Gli Stati Uniti sono adesso obbligati a rivolgersi ai paesi creditori,
inclusi i due paesi che si erano opposti alla guerra, Francia e Germania, e
alle istituzioni finanziarie internazionali (IFI), perché non hanno nessun
altro a cui rivolgersi.
Inizialmente gli Stati Uniti avevano due opzioni: rivolgersi agli iracheni o
ai contribuenti americani. Poche settimane dopo l'annuncio di Bush della
fine delle "ostilità" in Iraq, gli Stati Uniti si adoperarono per fare
passare all'ONU la Risoluzione 1483, che istituiva il cosiddetto "Fondo per
lo Sviluppo". In questo fondo, tutte le rendite petrolifere passate e future
dell'Iraq, oltre a tutti i beni dell'ex governo iracheno dentro e fuori il
paese, sarebbero finite sotto il diretto controllo degli Stati Uniti, con la
supervisione del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, su cui gli Stati
Uniti hanno fortissimo potere.
La Risoluzione fu approvata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU perché gli
Stati Uniti assicurarono a Russia, Francia e Cina che tutti gli accordi
conclusi dalle società di quei paesi nell'ambito del programma "Oil for
Food" (Petrolio in cambio di cibo) durante il periodo delle sanzioni
sarebbero stati onorati dalle autorità di occupazione e da ogni altro
successivo governo provvisorio [2].
Il Fondo per lo Sviluppo nasce per finanziare la ricostruzione di tutto ciò
che è stato distrutto durante la guerra. La scelta delle società cui
assegnare l'opera di ricostruzione, tuttavia, è stata finora di esclusivo
appannaggio degli Stati Uniti. E dal momento che molti contratti vengono
stipulati "a rimborso", il reale costo della "ricostruzione" dipenderà da
quelle stesse società. In altre parole, le somme che verranno corrisposte,
per esempio, alla Kellog, Brown & Root per riparare i macchinari e i pozzi
petroliferi saranno finanziate dagli introiti del petrolio iracheno a un
prezzo determinato dalla stessa Kellog, Brown & Root.
Divisione della Halliburton, compagnia statunitense operante nel settore
petrolifero ed energetico. Il vice presidente USA Dick Cheney è stato
amministratore delegato della Halliburton dal 1995 al 2000. (NdT)
PAGARE PER ESSERE DERUBATI?
Oltre a finanziare la ricostruzione, il Fondo sarà utilizzato dagli Stati
Uniti per dare impulso all'emissione di obbligazioni del governo
statunitense e finanziare direttamente gli investimenti delle aziende in
Iraq. Secondo un comunicato stampa della US Export and Import Bank, l'ente
incaricato della promozione degli interessi statunitensi all'estero, il
Fondo verrà utilizzato per prestare denaro alle compagnie USA interessate a
investire in Iraq. Sarebbero ben poche le banche private disposte a
concedere volentieri crediti ad un investitore desideroso di fare affari in
un paese sconvolto dalla guerra come l'Iraq. Con il Fondo per lo Sviluppo ci
saranno molti soldi a disposizione per tutti le compagnie che daranno prova
di intraprendenza e spirito d'avventura, o più semplicemente per chi è a
caccia di occasioni [3].
E in Iraq, di occasioni non ne mancheranno. Il Ministro delle Finanze del
governo provvisorio iracheno formato dagli USA, Kamel al-Kelani, ha
annunciato lo scorso 21 settembre la vendita di tutti i beni e risorse
irachene e delle società a controllo statale, eccetto l'industria del
petrolio. Musica per le orecchie degli acquirenti, i quali potranno
acquisirne la piena proprietà, usufruire del rimpatrio illimitato dei
profitti e di una tassazione minima [4]. Date le attuali condizioni dell'
Iraq, si tratterà di una vera e propria svendita. Ma tra qualche anno,
quello che è stato acquistato a prezzi stracciati - sfruttando le rendite
petrolifere dell'Iraq - potrà essere successivamente rivenduto realizzando
lauti profitti.
Usare le risorse irachene per la ricostruzione significa, in buona sostanza,
far pagare agli iracheni quello che gli americani hanno distrutto. Si tratta
di una violazione della convenzione di Ginevra, la quale afferma
inequivocabilmente che l'assistenza umanitaria, gli aiuti e qualsiasi spesa
per la ricostruzione sono obblighi legali e morali delle forze occupanti.
Gli iracheni si troveranno dunque a dover finanziare, con le proprie
risorse, il massiccio piano di privatizzazione dell'economia a vantaggio
delle società americane.
PETROLIO INAFFIDABILE
Ma il petrolio iracheno, sebbene indubbiamente abbondante, non è
sufficiente - almeno per ora. Per il gran dispiacere di chi ha voluto questa
guerra, il petrolio dei pozzi iracheni finora ha riempito solo un milione di
barili al giorno (mbd) - molto meno delle previsioni su cui si basavano i
piani statunitensi [5].
Secondo gli analisti dovranno passare ancora 18 mesi prima che la produzione
possa tornare ai livelli di prima della guerra (3 milioni di barili al
giorno), e bisognerà attendere ancora di più perché tale livello sia
superato. A questo calcolo va sommato un ulteriore ritardo di un paio d'
anni, qualora la frequenza dei sabotaggi degli oleodotti dovesse mantenersi
quella attuale.
Notizia ancora peggiore è che persino le grandi multinazionali del petrolio
si stanno tenendo a debita distanza. "E' necessario un adeguato livello di
sicurezza, un'autorità legittima e un processo legittimo. per consentirci di
stringere accordi che dovranno durare per decenni" - ha dichiarato Sir
Philip Watts, presidente della Royal Dutch/Shell. "Quando ci sarà un'
autorità legittima che opererà nell'interesse dell'Iraq, lo sapremo e la
riconosceremo. [6]" Sarà solo attraverso l'atteggiamento dell'industria
petrolifera che si comprenderà se Watts ritiene legittimo il governo
provvisorio (un cui membro è già stato ucciso dalla resistenza irachena)
messo in piedi dagli Stati Uniti in Iraq.
Nel tentativo di ovviare alle difficoltà economiche, gli Stati Uniti stanno
prendendo in considerazione l'ipotesi di convertire i futuri introiti
derivanti dal petrolio iracheno in titoli da mettere sul mercato adesso a
prezzi scontati [7].
Una misura che si rivelerebbe sicuramente controversa, non solo perché
potrebbe essere il segnale che gli USA resteranno in Iraq a lungo, ma anche
perché, come nel caso di altri provvedimenti, solleva una questione
scottante: se gli Stati Uniti abbiano o meno il diritto di decidere su
argomenti che dovrebbero normalmente essere di competenza di governi sovrani
e legittimi.
"IL PIU' IMPORTANTE DIBATTITO SULLA SICUREZZA NAZIONALE"
Se un paese invasore non può contare sulle risorse del paese che ha invaso
per finanziare l'occupazione stessa, certamente può contare sui suoi
contribuenti, nel cui interesse, in primo luogo, era stata intrapresa l'
invasione.
Non è così in questo caso. L'amministrazione Bush ha appena concesso ai suoi
contribuenti più ricchi 1.800 miliardi di dollari di tagli alle tasse, ma
non può permettersi di spendere 20 miliardi di dollari per il popolo che ha
appena liberato. Appena la settimana scorsa, i Repubblicani hanno bloccato
il tentativo dei Democratici di finanziare la guerra aumentando il carico
fiscale sugli americani più ricchi - una parte dei quali otterrà un profitto
non indifferente dal boom post-invasione in Iraq. Il vicepresidente Dick
Cheney, che è accusato di aver spinto i servizi segreti a gonfiare le accuse
contro l'Iraq, ha ancora interessi economici nella Halliburton, come di
recente reso noto dai Servizi informativi del Congresso [9].
I tagli alle tasse e l'aumento delle spese di guerra dovrebbero essere
inseriti nel contesto dell'abissale deficit di bilancio e commerciale con
cui la debole economia statunitense si trova attualmente a fare i conti. Il
deficit dell'interscambio commerciale sta pericolosamente raggiungendo il 5%
ed è ancora in salita; l'attuale disavanzo di bilancio segna una brusca
inversione di marcia rispetto ai ripetuti avanzi registrati negli anni
precedenti. La spesa mensile per l'occupazione irachena (5 miliardi di
dollari al mese, ricostruzione a parte) sta già raggiungendo quella del
Vietnam [10].
Se Bush non è stato ancora politicamente distrutto dal mancato ritrovamento
delle armi di distruzione di massa o dalla fuga di notizie dell'
intelligence, è sulla questione dei fondi per finanziare la guerra che
potrebbe perdere il suo controllo sugli organi legislativi.
La richiesta di fondi avanzata da Bush al Congresso, in quella che si sta
rivelando tutt'altro che una passeggiata per il presidente, è stata definita
dai Democratici "il più importante dibattito sulla sicurezza nazionale di
questa generazione" [11].
Un dibattito che Bush potrebbe anche perdere.
PRENDETEVI IL LORO PETROLIO, MA NON AUMENTATECI LE TASSE
I politici statunitensi, in particolare quelli appartenenti al partito di
governo, sono in fibrillazione all'idea che gli USA potrebbero dover pagare
di tasca propria per la ricostruzione di quanto essi stessi hanno distrutto
in Iraq. I repubblicani sono convinti che gli USA non hanno nessun obbligo
verso gli iracheni, e che ogni centesimo speso nella ricostruzione dell'Iraq
debba essere considerato un prestito, e non un contributo a fondo perduto.
Se questa posizione dovesse prevalere, e ci sono molte probabilità che ciò
avvenga, gli iracheni si troveranno in effetti a ricevere denaro dagli USA
per poter pagare quelle società americane che ricostruiranno quasi tutto nel
loro paese - dalle strade alle scuole, fino alle centrali elettriche. Con il
danaro avuto in prestito dagli Stati uniti dovranno pagare quelle stesse
società che non avrebbero avuto niente a che fare con l'Iraq, se non ci
fosse stata la guerra.
Il senatore Byron Dorgan, che non è stato probabilmente ragguagliato a
sufficienza sulla situazione petrolifera, insiste nel dire che "gli USA non
dovrebbero sostenere l'intero peso da soli. L'Iraq ha abbastanza petrolio
per pagare almeno in parte la ricostruzione" [12].
Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld si mostra ancora più deciso: "non
credo che spetti a noi ricostruire quel paese, dopo 30 anni di controllo
economico centralizzato di tipo stalinista" ha detto, come se i danni non
avessero niente a che fare con i missili Cruise e con l'embargo decennale.
"Non è affatto vero che le infrastrutture del paese siano state gravemente
danneggiate dalla guerra" sostiene Rumsfeld. [13]
Se i contribuenti non fossero disposti a pagare il conto, tuttavia, i
risultati sarebbero disastrosi. William Nordhaus, economista della Yale
University, dopo aver calcolato il costo della guerra e dell'occupazione,
ammoniva, ancor prima della guerra stessa, che "se i contribuenti americani
dovessero rifiutarsi di far fronte al benessere a lungo termine degli
iracheni, l'America potrebbe lasciarsi dietro una montagna di macerie e
moltitudini di persone infuriate". [14]
PAGARE PER LA DEMOCRAZIA
Ma gli USA non stanno per andarsene, almeno per ora. Non avendo ricavato
ancora abbastanza dalla colletta tra gli iracheni liberati e i presunti
liberatori (i contribuenti americani), gli USA si rivolgono ora alle Nazioni
Unite, alle ricche nazioni creditrici, e alle istituzioni finanziarie
internazionali per far soldi rapidamente.
Nella bozza di una risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell'
ONU, ma che è stata censurata dal solitamente arrendevole Kofi Annan, gli
USA "lanciano un appello agli stati membri e alle istituzioni finanziarie
internazionali affinché rafforzino il loro impegno diretto ad assistere il
popolo iracheno nella ricostruzione e nello sviluppo della sua economia".
Inoltre "si invitano gli stati membri e le organizzazioni coinvolte a venire
incontro alle necessità del popolo iracheno fornendo le risorse necessarie
per il ripristino e la ricostruzione delle infrastrutture economiche."
La stessa risoluzione chiede altresì all'ONU di finanziare il processo
elettorale in Iraq: "si sollecita il Segretario Generale ad assicurarsi che
le risorse delle Nazioni Unite e delle organizzazioni collegate siano
disponibili, se richiesto dal Governo provvisorio iracheno, per istituire un
sistema elettorale in Iraq." Questa guerra era stata intrapresa per portare
in dono la democrazia agli iracheni, aveva detto Bush in precedenza. Con
questa risoluzione, gli USA adesso chiedono che siano altri a pagare per il
dono.
UN PEZZO DI TORTA
Le ultime notizie indicano tuttavia che gli Americani stanno incontrando
alle Nazioni Unite un'opposizione talmente rigida da convincerli a
rinunciare del tutto alla risoluzione [15]. Agli USA non rimane che
l'opzione di Madrid.
A Madrid, gli USA tenteranno di corteggiare sia i paesi che si erano opposti
all'invasione, sia le istituzioni finanziarie internazionali. Come la Banca
Mondiale, che si è fatta vanto in più d'una occasione del proprio ruolo nel
finanziare la ricostruzione di aree di conflitto come il Mozambico,
l'Uganda, Timor Est e la Palestina, rastrellando profitti attraverso il
pagamento degli interessi sui finanziamenti. Gli USA, nella loro colletta,
dovranno convincere questi paesi ed istituzioni che ciò che verseranno sarà
denaro ben speso.
Allo stato attuale, la situazione non sembra incoraggiante. All'inizio di
ottobre, stando a fonti ufficiali, l'Unione Europea stava pensando di
versare la misera somma di 250 milioni di dollari, neppure l'1% della somma
totale richiesta: gli USA - a quanto si riferisce - ne sono rimasti
"scioccati". Il Canada, da parte sua, è disposto ad assumersi una quota di
200 milioni di dollari [16]. Solo il Giappone sembra disposto a sborsare la
somma relativamente consistente di 5 miliardi di dollari e i giapponesi sono
stati molto franchi circa le loro motivazioni: puntano al petrolio del Medio
Oriente [17]. Tirando le somme, si arriva a un importo comunque ridicolo se
confrontato ai 36 miliardi di dollari richiesti.
Tutto ciò, tuttavia, potrebbe cambiare con un semplice impegno. "Dovete
offrir loro un pezzo della torta", è stato il consiglio di Bernard Kouchner,
politico francese ed ex rappresentante speciale dell'ONU in Kosovo [18].
Con oltre 100 miliardi di dollari ed anche più in ballo - uno dei più
imponenti programmi di costruzione degli ultimi decenni [19] - la torta da
distribuire sarà enorme.
NON SARA' UN BALLO DI BENEFICENZA
La Germania, la Francia e gli altri potenziali donatori, secondo il
Washington Post, hanno fatto ripetutamente presente che metteranno denaro
sul tavolo solo se alle proprie società saranno concesse maggiori
opportunità di prendere parte al banchetto della ricostruzione
multimiliardaria del dopo guerra. Saranno più propense a tirar fuori i
soldi, se avranno assicurazione che le loro compagnie non verranno sbattute
fuori dall'Iraq dalle compagnie USA [20]. In altre parole, i potenziali
donatori saranno disposti a firmare assegni a Madrid solo a patto che le
loro compagnie ricevano l'invito ufficiale alla spartizione della torta.
Per ora, si sono dovute accontentare delle briciole. Le leggi statunitensi
sull'approvvigionamento stabiliscono che i contratti governativi per l'Iraq
possono essere acquisiti soltanto da compagnie USA che, a loro volta, sono
libere di effettuare sub-appalti ogniqualvolta lo ritengano utile.
Halliburton e Bechtel sono state tempestate dalle offerte di subappalto, sia
presso le direzioni generali sia le loro succursali in Medio Oriente,
presentate da decine e decine di aziende di ogni parte del mondo [21].
Questa è l'unica via con la quale al momento le compagnie non-americane sono
riuscite ad entrare nel grande gioco.
L'attuale metodo di divisione delle spoglie potrebbe tuttavia cambiare in
funzione della capacità di alcuni governi di ottenere maggiori concessioni
in cambio di denaro per sostenere il costo dell'occupazione. Quel che è
sicuro è che le nazioni creditrici non si accontenteranno facilmente delle
briciole. La riunione di Madrid non sarà un ballo di beneficenza.
UNILATERALE O MULTILATERALE?
In ogni caso, ciò che i negoziatori dei governi donatori porteranno nelle
proprie tasche a Madrid, non saranno i loro soldi né i soldi delle loro
società, bensì quelli dei contribuenti dei loro paesi. La conferenza di
Madrid rappresenta il tentativo degli Stati Uniti di trasferire l'onere
dell'Iraq dai contribuenti americani a quelli - per dire - francesi,
giapponesi e tedeschi. Contrarre prestiti dal Fondo Monetario Internazionale
e dalla Banca Mondiale per conto del popolo iracheno sposterà il debito
sulle generazioni future di iracheni che, successivamente, si ritroveranno
indebitate verso le istituzioni finanziarie internazionali e sottoposte alle
loro condizioni. Per l'onere che gli iracheni sosterranno, altri ne
trarranno benefici.
Che gli Stati Uniti considerino ancora remunerativa l'occupazione in Iraq, e
dunque decidano di portarla avanti, dipenderà da questi tre fattori: quanto
rapidamente i pozzi di petrolio dell'Iraq produrranno soldi a palate; la
volontà dei contribuenti americani di rinunciare ai propri soldi; e la
disponibilità dei paesi donatori a fornire fondi. Gli iracheni sembrano non
figurare da nessuna parte nell'equazione. Oggi, fare affidamento sul
petrolio è semplicemente impossibile. Così stando le cose, rimane ancora la
seconda alternativa, anche se è difficile pensare che Bush, in qualità di
paladino degli sgravi fiscali per i ricchi e presidente di una economia
debole e piena di deficit, desideri davvero portarla avanti.
La terza diventa così l'unica alternativa possibile.
Ma la possibilità di ricevere miliardi dai donatori, a questo punto, sembra
dipendere esclusivamente dalla decisione che prenderanno gli americani: se
manterranno ben salda la presa sulle opportunità di affari in Iraq o se la
allenteranno. La domanda cruciale di Madrid è, allora, se tutto questo
continuerà ad essere un'appropriazione di risorse di tipo unilaterale o
multilaterale. E visto che i paesi donatori offriranno il denaro dei propri
contribuenti, un ulteriore interrogativo sarà se i contribuenti del mondo
sono disposti a finanziare questa appropriazione multilaterale, a fronte
della riluttanza dei liberatori.
Una cosa è certa: la leva degli interessi economici è attualmente l'unico
elemento che tiene in piedi l'occupazione. Questa è stata una guerra per
scelta, non per necessità, e secondo i sondaggi un numero sempre crescente
di persone ritiene che sia stata una scelta sbagliata. Senza la garanzia di
fondi e il pubblico sostegno, le truppe americane e la squadra capitanata
dalla Halliburton a un certo punto saranno forse costrette a ritirarsi.
Senza i soldi necessari a tenere in piedi l'occupazione, c'è un reale
possibilità che l'organizzazione guidata dagli americani in Iraq possa
disgregarsi - non a Baghdad, ma a Madrid.
Herbert Docena fa parte di "Focus sul Global South", un istituto di ricerca
e supporto con sede a Bangkok (
www.focusweb.org).
Per contatti: herbert@???
Traduzione a cura dei TpP (Traduttori per la pace)
Diffusione a cura dell'Osservatorio Iraq
Fonti:
[1] New York Times, 2 ottobre 2003
[2] Michael Renner, "The Other Looting," Foreign Policy in Focus, luglio
2003.
[3] Steve Kretzmann and Jim Vallete, "Operation Oily Immunity",
CommonDreams.org, 23 luglio 2003
[4] The Independent, 22 settembre 2003
[5] Houston Chronicle, 22 settembre 2003
[6] Financial Times, 24 luglio 2003
[7] Los Angeles Times, 11 luglio 2003
[8] Washington Post, 3 ottobre 2003
[9] Washington Post, 26 settembre
[10] USA Today, 8 settembre 2003
[11] Christian Science Monitor, 7 ottobre 2003
[12] Financial Times, 3 ottobre 2003
[13] Seattle Times, 11 settembre 2003
[14] Yale Herald, 15 novembre 2002
[15] New York Times, 8 ottobre 2003
[16] New York Times, 2 ottobre 2003
[17] Financial Times, 6 ottobre 2003
[18] International Herald Tribune, 18 marzo 2003
[19] New York Times, 11 aprile 2003
[20] Washington Post, 26 giugno 2003
[21] New York Times, 21 maggio 2003