[NuovoLaboratorio] diario (corposo) di una settimana in Pale…

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Author: dario rossi
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Subject: [NuovoLaboratorio] diario (corposo) di una settimana in Palestina
Vi giro, sperando di non ingombrarvi troppo la casella di posta, il
resoconto del nostro viaggio in Palestina.
Vi ricordo domani cena (sei euro) alla Bianchini di finanziamento per tre
ragazzi palestinesi! Proiezione del filmato dell'ISM e foto.
ciao
dario

DIARIO DI UNA SETTIMANA IN PALESTINA
Partecipanti alla missione Avv. Federico Micali (nella duplice veste di
avvocato e Filmaker) Serena Mandelli (attrice), Barbara Ghiara (operatrice
turistica), Stefano Lorenzi (filmaker), Franco Canevesio (giornalista), Avv.
Dario Rossi.
Sommario
1) Giovedì 25 Settembre
· Arrivo a Ramallah,
2) VENERDI 26 SETTEMBRE
· Betlemme
· Gerusalemme - capodanno sotto il muro.
· sera
· pensieri notturni
3) SABATO 27 SETTEMBRE
· missione medica nei territori del nord
4) DOMENICA 28 SETTEMBRE
· un incontro con Arafat mancato per poco - incontri con associazioni di
Ramallah
5) LUNEDÌ 29 TELAVIV
· processo Barghouti - commemorazione Iintifada a Ramallah.
6) MARTEDI 30 SETTEMBRE
· Hebron
· Ancora Gerusalemme
7) MERCOLEDì PRIMO OTTOBRE.
8) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

Giovedì 25 Settembre
1) ARRIVO A RAMALLAH,
Primo impatto con i ceck point.
Tra Gerusalemme e Ramallah ci sono una decina di chilometri, ma oggi nessuno
sa esattamente, quando decide di spostarsi tra una città e l'altra se
arriverà e quando arriverà.
Al ceck point puoi anche rimanere in attesa per delle ore, anche essere
respinto senza alcun particolare motivo. Entrando in Ramallah c'è un solo
C.P. entri abbastanza velocemente, per uscire ce ne sono ben due, e stai
fermo per delle ore.
La sera visitiamo il campo profughi di Ramallah, costruito nel 1948, sul
terreno di proprietà dell'Onu. Conosciamo una bimba di due anni che si
chiama Jenin, in ricordo del massacro fatto nel campo profughi durante la
seconda intifada. In un centro sportivo c'è un piccolo monumento che
ricorda 13 vittime di un'incursione israeliana nel campo profughi.
Il nostro accompagnatore, un professionista palestinese, con cui andiamo a
cena, e che nonostante i nostri tentativi di pagare, ci offre tutto quello
che consumiamo, ci racconta della vita che fanno lì, di suo fratello
dovrebbe curarsi gli occhi con il laser in un ospedale di Gerusalemme, ma le
autorità israeliane non gli rilasciano il permesso da anni, di una famiglia
che non è riuscita ad andare al matrimonio del figlio in un'altro paese,
perchè bloccata al ceck point, del fatto che sono tre anni che Israele,
contravvenendo agli accordi, incassa l'Iva dei palestinesi, senza poi
versarla all'autorità palestinese, che sono moltissimi i palestinesi che
hanno ancora il certificato di proprietà della loro casa che si trova sul
territorio attualmente di Israele, o addirittura le chiavi della porta, ma
ora le loro case sono abitate dagli israeliani e non possono più tornarvi,
che il Consolato italiano in Israele (correttamente) invece l'affitto lo
paga ai palestinesi trovandosi su un immobile di loro proprietà, che a
Jenin, a Hebron, a Nablus, c'è ancora il coprifuoco, per tutto il giorno, o
per alcune ore della giornata.

2) VENERDI 26 SETTEMBRE
BETLEMME
In tutto sono circa 25 Km, tempo di percorrenza indeterminabile. Passiamo
due ceck point e dobbiamo cambiare due volte il taxi.. Quando si arriva al
ceck point, si deve scendere, passare dall'altra parte a piedi, dopo che ti
hanno controllato i documenti, e prendere uno degli altri taxi che aspettano
in gran numero dall'altra parte.
Per evitare i ceck point di Gerusalemme facciamo un giro più lungo, e
passiamo vicino all'Università di Gerusalemme, dove stanno costruendo il
MURO; il muro passa esattamente sul campo da pallone dell'università,
tagliandolo in due.
A Betlemme ci riceve un ragazzo, D. che lavora nel Ministero del Turismo
palestinese, che ci dice che dopo l'inizio della seconda intifada e l'arrivo
dei militari israeliani a Betlemme, il turismo ha subito un tracollo con un
danno economico per la città incalcolabile. Le strade sono distrutte, tutti
i lampioni sono divelti. Ora sono in fase di ricostruzione secondo un
progetto finanziato dal Belgio.
Ci fermiamo a mangiare in un bar, e notiamo che i succhi di frutta sono
israeliani, l'acqua pure, e la cosa ci stupisce. Alcuni giorni dopo in Amman
troviamo invece bottiglie d'acqua made in Palestina. Perchè è più facile
acquistare prodotti palestinesi, ad Amman piuttosto che in Palestina? D. ci
dice che non possono fare altrimenti, tutte le importazioni e le
esportazioni sono controllate da Israele. In teoria, non c'è alcun divieto
di acquistare o vendere prodotti non israeliani, ma in pratica, sono tali
gli ostacoli burocratici che vengono imposti, che acquistare "non
israeliano" diventa antieconomico. I palestinesi riescono ad esportare in
Israele invece solo pochi prodotti dell'agricoltura.
Gli pongo la domanda di rito,"ma come li vedi i camiKaze? Sono utili,
condividi quello che fanno?"; mi risponde che non li condivide, e che
probabilmente vengono utilizzati ai mezzi di informazione internazionali per
giustificare la politica repressiva di Israele, ma che comunque, camikaze o
no, la politica israeliana di segregazione e di spopolamento nei confronti
dei territori sarebbe sempre la stessa.
È una posizione che sostanzialmente, alla fine del viaggio, mi sento di
condividere.
Visitiamo la chiesa della Natività dove sono ancora chiaramente visibili i
segni lasciati dalle pallottole sui muri e sulle porte di ingresso. Vi sono
rimaste chiuse dentro circa 150 persone per 38 gg. e alcuni sono stati
uccisi mentre erano li dentro. Non avevano nè da mangiare nè da bere, l'
acqua era nel cortile, e se cercavano di andarla a prendere gli sparavano. I
soldati israeliani durante l'assedio si erano arrampicati su delle gru
altissime, dalle quali tenevano sotto tiro l'interno della basilica.
Controllavano i movimenti delle persone all'interno con una telecamera
installata su un pallone aerostatico, che stazionava sopra la basilica. Le
persone uccise dai cecchini sono rimaste dentro per settimane, a putrefarsi
nella stessa stanza dove rimanevano gli altri assediati. Neanche i nazisti,
ci dice D., erano mai arrivati a tanto.
Nelle strade di Betlemme sono affissi dei poster che riportano il testo
della risoluzione ONU n. 194 del 1948, che sancisce il diritto dei
palestinesi a tornare nelle loro terre o ad essere risarciti nel caso in cui
non volessero tornare. Penso alle campagne di stampa che vengono fatte nel
nostro paese sul terrorismo palestinese, così lontane dalla realtà delle
richieste palestinesi.
Anche a Betlemme, naturalmente c'è un campo profughi, creato nel 1948, dove
si trovano i profughi di ben 38 paesi diversi. Nel campo profughi c'è un
centro culturale, ben organizzato, che è "gemellato" con una associazione
svedese di tutela dell'infanzia. Parliamo con uno dei responsabili del
centro, che vorrebbe che degli italiani andassero lì a fare delle lezioni di
cinematografia, per insegnare ai bambini a documentare quello che succede in
Palestina. Ci fa vedere i resti della bomba che ha distrutto la sua casa nel
1948, la serratura di casa, che conserva ancora in una bacheca. Parliamo
anche con un bambino quidicenne del centro, che ci arringa per circa venti
minuti, dicendoci che i palestinesi non hanno alcun diritto. Gli facciamo la
solita stupida domanda, "cosa vorresti fare da grande?". Ci risponde che
vorrebbe avere un'arma potente come non si è mai vista, per tirarla sulla
testa di Sharon.
Uscendo da Betlemme passiamo davanti alla ex palazzina dell'autorità
nazionale palestinese, un cumulo di macerie. Quando l'hanno distrutta, mi
dicono, non c'era nessuno dentro, fortunatamente.

GERUSALEMME - CAPODANNO SOTTO IL MURO.
Arriviamo al ceck point di Gerusalemme, bisogna avvicinarsi due a due, io
faccio lo gnorri e cerco di passare, mi bloccano. "mi scusi, dico, non sono
abituato ai ceck point, e non so come comportarmi". Dentro il ceck point ci
sono tre soldati ragazzini, con delle torte e delle pizze, me ne offrono un
po'. Corraggiosamente rifiuto. I militari sembrano dei bambini il più delle
volte, e quando sono gentili, ti chiedono da dove vieni, dicono che l'Italia
gli piace.
Dopo un centinaio di metri c'è uno di quelli che chiamano ceck point
volanti, due militari che fermano macchine e pedoni, a loro piacimento e ti
chiedono i documenti. Mi avvicino ad uno di loro per sapere a che ora chiude
il C.P. di Kalandyia, non lo sa, ma in compenso, per punirmi della domanda,
mi chiede i documenti, solo a me in tutto il gruppo.
Decidiamo di fermarci a Gerusalemme, prima di tornare a Ramallah, ed
entriamo nel centro storico, dalla Porta di Damasco. Passando dal quartiere
islamico a quello israeliano, rimaniamo colpiti dalla quantità di ebrei
ortodossi che si vedono, stranissimi tipi, barbe lunghe, basette a boccoli,
nerovestiti, con cappelli a punta quadra e a tese larghe che ricordano un po
' il pifferaio magico. Notiamo il loro sguardo, per lo più vuoto, assente,
all'infinito, soprattutto nei più giovani. Non ti vedono, ti trapassano con
lo sguardo.
Arriviamo al tunnel che conduce al muro del pianto, combinazione il giorno
in cui inizia il capodanno ebraico. Per arrivarci, dobbiamo passare l'
ennesimo ceck point, presidiato da polizia, soldati, vigili, e chi più ne ha
ne metta. Mi devo togliere anche la cintura dei pantaloni, frugano
dappertutto. Sotto il muro del pianto molti pregano faccia al muro, molti
altri saltano, ballano e battono le mani cantando una nenia, sempre la
stessa, ripetuta all'infinito, per tutto il tempo che siamo stati li, circa
una mezzora. Sembrano invasati, e non hanno l'aria di chi si diverte
veramente. Mentre osserviamo veniamo avvicinati più volte da persone che con
aria minacciosa ci dicono che non si può fotografare, e facciamo del nostro
meglio per disobbedire. Stefano è un drago nel riprendere in qualsiasi
condizione e avversità.
Le donne sono oltre una paratia e pregano anche loro; quando si allontanano
dal muro devono camminare all'indietro, per non dargli le spalle in segno di
rispetto. Il tutto è decisamente surreale, sembra di essere tornati indietro
nel tempo di centinaia di anni, tanto l'abbigliamento, il taglio di capelli,
il modo di fare di quella gente è rimasto insensibile al decorso del tempo,
alle mode, all'influenza del mondo in cui sono vissuti. Comunicano
arroganza, e suscitano antipatia.
Prima di tornare a Ramallah, ci incontriamo con un avvocato dell'
associazione Mandela, accompagnato da uno psichiatra sessantenne israeliano
di origine ebrea, che divide il suo tempo tra Israele e la Somalia,
fortemente contrario alla politica israeliana, che definisce più volte
razzista e nazista. Ci dice che ha provato a chiedere il permesso di entrare
a Gaza, ma gli è stato rifiutato, adducendo motivi di sicurezza. Gli
israeliani non possono entrare a Gaza. Ma se è pericoloso per loro, si
chiede, perchè fanno entrare gli stranieri?
Forse, il vero motivo è che non vogliono che gli israeliani sappiano cosa
succede realmente a Gaza.
Tornando a R. notiamo che tutti i taxisti, che in genere, almeno per la mia
esperienza, nei paesi arabi sono piuttosto comunicativi, qui sono tristi,
non parlano mai, non ridono, non scherzano neanche con la forza.
SERA
Torniamo a cena con il nostro amico di Ramallah, stasera riusciamo a pagare
noi, placcandolo in tre; continua a raccontarci cosa accade in Palestina. Ci
dice che il suo ufficio, durante l'occupazione è stato devastato dai
militari che hanno rotto tutto, ha ancora i segni delle pallottole sui muri
che non vuole riparare. Quando è morto il giornalista italiano, Raffaele
Ciriello, sono venuti a recuperare la salma il capo dell'ambasciata italiana
ed un medico. Anche loro sono stati costretti a stare sei ore in coda al
C.P. Le auto diplomatiche del resto sono state più volte oggetto di spari da
parte degli israeliani, e a Betlemme, ne sono state colpite almeno una
decina delle più diverse nazionalità. Dice che difendersi è impossibile, non
hanno neppure la possibiltà di procurarsi delle armi, accerchiati come sono
su tutti i lati della Cisgiordania dagli israeliani. Il fatto poi che la
comunità internazionale non dica niente, e che gli USA appoggino
espressamente Israele, lo rende completamente sfiduciato sulla possibilità
di porre fine alla crisi che vivono nei territori. Non c'è da meravigliarsi,
ci dice, se poi ci sono i camikaze, l'unica risposta disperata che sia
consentita ai palestinesi. Non è più possibile neanche recarsi all'
Università di R. in quanto per raggiungerla bisogna passare un C.P. dove si
aspetta delle ore. È un C.P. privo di senso perchè in quella zona non ci
sono coloni, nè case, è fatto solo per rompere le scatole agli studenti.
Alcuni corsi universitari sono tenuti in città, stante le difficoltà di
raggiungere l'ateneo. Lo scorso anno scolastico per ovviare alla
impossibilità per gli studenti di raggiungere la propria scuola, l'Autorità
Palestinese ha stabilito che gli studenti possono recarsi a seguire le
lezioni in qualsiasi scuola si trovi nelle loro vicinanze, anche essendo
iscritti in altri istituti.
Lui stesso, che pur non ha alcuna limitazione di movimento nè precedenti di
alcun tipo, e che si può muovere liberamente in qualsiasi paese del mondo,
non ha il permesso di entrare in Israele.
Lo scopo dei C.P. non è in alcun modo quello di garantire la sicurezza, lo
dimostra il fatto che non ti controllano mai la borsa, ma solo i documenti,
spesso hai la possibilità di evitarli semplicemente facendo un giro un po'
più lungo, passando da strade laterali. L'unico scopo più che evidente dei
C.P. è quello di esasperare la gente e rendere impossibile la normale vita
quotidiana. Ài C.P. fissi, che sono circa 200 in tutta la Palestina, si
devono aggiungere quelli ambulanti, che vengono improvvisati dalla polizia.
Spesso, ci dice il nostro amico, ti fermano, si fanno dare documenti e
chiavi della macchina e se ne vanno, lasciandoti sotto il sole, in mezzo al
deserto, per tornare dopo cinque ore. A qualcuno, dei camionisti, è capitato
che gli buttassero addirittura via le chiavi. Oggi una carovana di cinque
pulman proveniente da Betlemme, è stata bloccata al C.P. di Kalandyia; sono
scoppiati tafferugli, sono volte delle pietrate. Sono ormai 10 mesi che
Arafat è confinato nella sua Moqata, protetto da quattro scalcinati militari
palestinesi, e sorvegliato a vista dagli israeliani piazzati all'ultimo
piano del frontistante Ministero della Cultura palestinese. A volte ai C.P.
vedi i soldati che menano dei bambini, ma non ci puoi fare nulla, chi cerca
di intervenire o di fermarli viene a sua volta malmenato, se non gli sparano
addosso.
L'ingegnere ci dice che negli ultimi due anni il suo lavoro è calato di 8
volte, potrebbe lavorare dove vuole all'estero, ma si sente sempre più
attaccato a quella terra.
PENSIERI NOTTURNI
Quello che stupisce, nei nostri interlocutori, oltre la visione
completamente pessimistica, ma ahimè realistica della loro situazione, è il
loro spirito combattivo, mai rassegnato, e soprattutto la libertà e la
sicurezza con cui ci parlano della loro situazione. La coscienza politica, e
la lucidità dei ragionamenti, mi sembra molto elevata in tutti gli
interlocutori palestinesi con cui abbiamo avuto occasione di parlare.
Diverso mi era sembrato il Kurdistan, ove si respirava chiaramente la paura
anche di parlare e di muoversi. La paura più grossa in Palestina, è invece
quella di incontrare una pallottola che ti buca la fronte, ma più li
pressano più si rafforza la loro coscienza politica, la loro voglia di
urlare al mondo quello che stanno passando.
Dopo due giorni di permanenza in Palestina, dopo i racconti delle persone
che abbiamo intervistato, dopo avere visto i riti che si celebrano al Muro
del Pianto, mi chiedo se non ci sia qualche elemento nella religione ebraica
che facilita il verificarsi di tutto ciò. Mi chiedo se non ci sia qualcosa
che differenzia l'ebraismo dalle altre religioni, dal buddismo, dal
cristianesimo, dalla religione musulmana. Se quell'invenzione della mente
umana, che credo essere la religione, che ha lo scopo di appagare l'esigenza
di spiritualità dell'uomo, non abbia qualche difetto di fondo nell'ebraismo;
un difetto che li porta prima ancora a soffrire loro, che vivono comunque
male, per quanto siano armati. Non ne so abbastanza, cercherò di
documentarmi, ma il dubbio mi viene.
Come fanno a vestirsi come 10 secoli fa? Come fanno a essere rimasti così
appartati rispetto agli altri, a non sentirsi mai parte degli stati in cui
sono vissuti? E a non perdere questa caratteristica nel corso dei secoli?
Dei millenni?
Penso alla difficoltà anche linguistica oltre che concettuale che ho trovato
in questa settimana tutte le volte che dovevo affrontare discorsi che
riguardassero i rapporti tra palestinesi, israeliani, arabi, ebrei,
musulmani. Per esempio, se ti chiedi quanta della popolazione di Israele sia
palestinese e quanta non lo sia, devi confrontare necessariamente un'entità
numerica caratterizzata ad un territorio con una caratterizzata da un credo
religioso, due entità non omogenee che viene innaturale porre a confronto. I
palestinesi possono essere musulmani, cristiani, armeni, cattolici,
testimoni di geova; sono tutti coloro che sono legati per nascita,
residenza, tradizioni etc., al territorio della Palestina storica su cui è
sorto Israele; gli altri quelli che non sono "palestinesi" sono ebrei, non
li puoi chiamare israeliani perchè anche i palestinesi che vivono in Israele
lo sono. E' come chiedersi quanti sono i marchigiani che ci sono nelle
marche confrontandoli con quanti sono i testimoni di geova che vivono nelle
marche, e che non puoi chiamare marchigiani, è assurdo!

3) SABATO 27 SETTEMBRE
MISSIONE MEDICA NEI TERRITORI DEL NORD
Con l'avvocato di Mandela e lo psichiatra sessantenne, partiamo per il nord
della Cisgiordania (West Bank, ci dicono loro, è un termine Yankee), con una
carovana di macchine dell'associazione di medici israeliani PHR (Phisicians
of Human Rights che ha il suo omologo palestinese nel Medical Relife), a
portare delle medicine alla clinica mobile di uno sperduto villaggio (Tara,
si chiamava o qualcosa di simile). Sono medici israeliani, ma mancano gli
ebrei, perchè è ancora capodanno (beati loro dura tre giorni!). Per recarci
lì ci spostiamo lungo il territorio israeliano per entrare dal confine a
nord; entrare nei territori da Gerusalemme renderebbe il viaggio troppo
lungo e non certo di arrivare alla meta, nonostante ci sia solo una
ottantina di Km, a causa dei C.P. Costeggiamo per lunghi tratti il Muro
maledetto, che in questa zona è quasi completato. La città di Kolkilia è
quella che si trova nella situazione più agghiacciante, perchè è posizionata
proprio a ridosso della linea verde (che è la linea di confine tra i
territori occupati ed Israele), ed è stata completamente circondata dal
Muro, che la cinge con un anello. La popolazione è praticamente segregata
nel paese, e non può uscire che passando dai ceck point israeliani. Molti
coltivavano i campi fuori dalla città ed ora si trovano impossibilitati a
raggiungerli, se ne sono dovuti andare. Sono state spezzate tutte le
attività economiche. Da quando è stato ultimato il muro la popolazione è
drasticamente diminuita.
Kolkilia, è la prova evidente che il muro non ha alcuna correlazione con la
sicurezza di Israele, perchè se così fosse sarebbe stato sufficiente
costruirlo dal lato est della città e non circondarla completamente anche
rispetto agli stessi territori occupati. Lo scopo evidente è quello di
strozzare la città, costringendo gli abitanti alla fame e alla inevitabile
fuga.
Viene facile alla mente una frase che per ora mi ero limitato a ripetere
perchè sentita da altri, "crimine contro l'umanità".
Il muro prosegue verso nord, ecco alcuni dati: Lunghezza complessiva da nord
a sud: 360 chilometri. Altezza: 8 metri. In due anni, per costruirne 115
chilometri sono stati tagliati 83.000 alberi e sono stati sottratti ai
palestinesi 31 pozzi d'acqua sotterranea che ora sono a disposizione di
Israele. I pozzi fornivano acqua alla Palestina per 3,8 milioni di metri
cubi l'anno. Per costruirlo, 11 villaggi sono stati completamente separati
dal resto dei territori e 13.240 persone ora vivono isolate. Duemila
famiglie hanno perso il loro terreno. Per costruirlo, gli Stati Uniti danno
ogni mese a Israele THREE BILLION DOLLARS.
Entriamo nei Territori, e veniamo fermati da un ragazzino vestito da soldato
che ci chiede i documenti, proseguiamo ed arriviamo al reticolato che in
molti punti fa le veci del muro, la strada ci sbatte dentro ed il cancello
che doveva essere aperto è irrimediabilmente chiuso, nessuno a sorvegliarlo.
Torniamo indietro, cerchiamo di passare da un altro C.P., presidiato da dei
Drusi (militari di origine araba, che sono considerati un po' dei traditori
dai palestinesi). Non lasciano passare nessuno, molti palestinesi sono li
dalle sei di mattina, ora sono le 11 e non hanno nessuna intenzione di
cedere. Uno di loro deve andare al funerale della nonna, ha anche il
"permesso", ma non c'è verso. Anche la nostra carovana viene bloccata,
nonostante sia guidata da una macchina con la bandiera della mezzaluna
rossa, e che abbiano minuziosamente perquisito il carro nel quale sono
portate le medicine. Con noi c'è anche un giornalista del Washinton Post,
cui chiedo una sua valutazione della situazione; lui la ritiene un po'......
"complessa"(?!) .
Dopo circa un'ora, nel quale ho consumato un rullino da 36, ci lasciano
passare. Costeggiamo ancora Kilometri di filo spinato, e raggiungiamo alfine
la meta, Tara. Mentre i medici consegnano le medicine giochiamo nel cortile
della clinica - scuola, al gioco del fazzoletto, un due tre stella,
specchio, con le decine di bambini presenti, facendo un casino incredibile.
Ci divertiamo come dei bambini anche noi.
Finisce anche qui con una grigliata di polpette e verdura!!

4) DOMENICA 28 SETTEMBRE
UN INCONTRO CON ARAFAT MANCATO PER POCO - INCONTRI CON ASSOCIAZIONI DI
RAMALLAH
Avevamo in programma un incontro con Arafat, unitamente alla delegazione di
diplomatici e avvocati europei, ma li abbiamo inseguiti tutta la mattina
senza riuscire a rintracciarli. Quando riusciamo a beccarli sono appena
usciti dal colloquio con Arafat. Peccato, sognavo una foto di dimensioni
naturali in casa mia con Arafat, che considero uno dei più grandi politici
degli ultimi 40 anni, ma è andata male, per la troppo fiducia riposta nei
colleghi.
Cerchiamo comunque di procurarci autonomamente un colloquio, ma il "Nonno",
come alcuni palestinesi lo chiamano, dorme, e dopo sarà indaffarato nella
preparazione del nuovo governo.
Chissà se avrò ancora l'occasione di scattarla quella foto!
Entriamo comunque nella Muqata, che è il complesso ove si "trovavano" gli
uffici governativi dell'Autorità Palestinese. Ora sono un cumulo di macerie.
E' un'area molto grande, di una ventina di edifici rimane in piedi solo il
complesso centrale, dove sono gli uffici di Arafat, che è sorvegliato, se
così si può dire, da quattro soldati male armati, che si dimenticano anche
di perquisirci o di chiederci i documenti, e che hanno abbandonato il posto
di guardia per seguire una svedese bionda alta un metro e ottanta, che con
noi si aggira per la Muqata.
Nonostante i pacchi e le delusioni, è comunque una giornata proficua.
Ramallah è in pratica la capitale della Gisgiordania e vi si trova la sede
di tutte le associazioni che operano in Palestina a favore dei diritti
umani.
Ci incontriamo con Palestine Monitor, con l'associazione Mandela, con l'
associazione per la liberazione di Marwan Barghouti, in pieno fermento
perchè domani ci sarà la penultima udienza del suo processo nel quale
rischia di prendersi una dozzina di ergastoli.
Entriamo per chiedere delle informazioni e ci chiamano immediatamente il
coordinatore dell'associazione, che arriva trafelato dal pranzo con i
parlamentari europei, "scusandosi per il ritardo". Non ci sembra vero che
qualcuno ci dia un po' di importanza, e lo ascoltiamo per un'ora e mezza,
che viene integralmente registrata dai nostri due filmakers, nel corso della
quale ci riassume praticamente tutto quello che c'è da sapere sulla
Palestina. Ci parla delle convenzioni violate (sulla Tortura, la IV Conv.
Ginevra, la conv. Onu sui Diritti dei Bambini), delle condizioni nelle
carceri, dei dodicenni arrestati, dei territori del 48, del 67, della Road
Map, dell'accordo di libero scambio tra UE ed Israele, del muro etc. E' un
fiume di informazioni, e ascoltarlo è un piacere. Gli chiediamo se sarebbe
disponibile a venire in Italia, a parlare della Palestina, e ci dice che
basta chiederglielo. Si chiama S'Ad Nimir, è stato arrestato a 16 anni e
condannato dopo un processo di tre minuti a sei mesi di carcere, a 17 con
altri sei mesi e a 27, quando è stato condannato ad altri sette anni. Gli
chiediamo se verrà domani al processo a Barghuti di Telaviv, ma ci dice che
non gli è permesso perchè è considerato un pericoloso terrorista. Per lui
la situazione Palestinese è disperata perchè manca completamente all'interno
di Israele qualsiasi interlocutore con cui avviare un discorso per una
soluzione pacifica. Dice che Rabin lo era, ora non c'è più nessuno come lui
(ho sentito altri palestinesi dare giudizi diversi su Rabin).
Incontriamo anche la moglie di Barghouti, che viene impietosamente
intervistata dai nostri filmakers, che non perdono un colpo. Anche lei
domani, pur essendo la moglie, e pur facendo parte del collegio legale in
quanto avvocato del marito, non ha avuto il permesso di recarsi a Telaviv. È
del resto abbastanza frequente che i palestinesi arrestati, e deportati in
Israele, in violazione della IV Conv. Di Ginevra, non possano essere difesi
dai loro avvocati, cui non viene concesso il permesso di recarsi in Israele.
Barghouti a parte, che è difeso da un collegio internazionale, spesso i
palestinesi sono difesi da avvocati di ufficio ebrei - israeliani.

5) LUNEDÌ 29 TELAVIV
PROCESSO BARGHOUTI - COMMEMORAZIONE INTIFADA A RAMALLAH.
Taxi per Telaviv alle 7, con partenza da Gerusalemme. Il processo si tiene
alla Hig Court, e possono entrare solo le persone accreditate. Molti
avvocati rimangono fuori; prima di me fanno entrare un prete, e alla mia
contestazione che siamo in Tribunale e non in una sinagoga, rispondono senza
tanti giri di parole che preferiscono fare entrare i preti piuttosto che gli
avvocati.
Questa è l'udienza in cui Barghuti si difende, da solo (la prossima che sarà
l'ultima parlerà l'accusa), avendo rinunciato a farsi assistere in udienza
dal suo collegio difensivo. Non riconosce comunque la giurisdizione della
Corte Israeliana, che non ha il potere di giudicarlo nè in base agli accordi
di Oslo, nè in base al diritto internazionale, sostiene che si tratta di un
processo meramente politico, e infatti fa una difesa solo e soltanto
politica, senza spendere una parola per se stesso, nonostante l'accusa
chieda la sua condanna a circa 12 ergastoli, uno più uno meno. Ricostruisce
la storia della Palestina, e dice che Israle non cerca la pace, finchè non
cessa l'occupazione non potrà esserci pace. E' un buon oratore, parla per
circa 40 minuti venendo interrotto più volte dal presidente della Corte che
lo accusa di dire cose non vere. B. invita i giudici ad alzarsi in piedi in
segno di rispetto verso i 25 piloti che hanno rifiutato di partecipare alle
azioni di uccisioni mirate nei territori palestinesi. Rivolge una domanda
retorica, quasi ovvia, al giudice, che non può che rispondere dandogli
ragione. "ecco, dice B., questa è la prima volta che lei da ragione ad un
palestinese", ride la sala, ride anche il giudice. Come fa a essere così
brillante, mi chiedo con 12 ergastoli che gli pesano sulla schiena due anni
di isolamento? Conclude dicendo che i palestinesi vivono in quella terra da
sempre, e che non ci si trovano per fare i turisti. Quando finisce l'udienza
si leva un applauso, e lui ringrazia gli osservatori internazionali per
essere venuti ad assistere al processo. Un brivido di commozione mi prende.
Ritorno a Gerusalemme. Sorge qualche problema, tutti gli autisti israeliani
hanno paura ad accompagnarci. Troviamo dopo un po' un ebreo immigrato dalla
Polonia 15 anni fa, che accetta di portarci egualmente. Ci chiede perchè
siamo lì e da che parte stiamo. Ci confessa di essere preoccupato perchè in
Israele c'è la guerra. Pur essendo apertamente schierato contro i
palestinesi, ammette che gli insediamenti sono ingiusti e che dovrebbero
essere tolti. Non ha idea di dove sia Ramallah, di cosa sia un ceck point,
nè ha mai sentito parlare di Kalandyia dove da più di due anni, fanno la
fila auto e pedoni sul percorso Gerusalemme - Ramallah.. Da un lato è
terrorizzato, dall'altro, incuriosito di infilarsi in una zona dove ci sono
solo arabi, con un veicolo che è chiaramente riconoscibile per essere
proveniente da Tealviv, fosse solo per la pubblicità demenziale che gli
tappezza la carrozzeria. Ci accompagna fino al ceck point, e gli ultimi
chilometri li percorre a passo d'uomo, chiedendoci in continuazione quanto
manca. Al ritorno si dovrà beccare anche lui uno dei ceck point, cosa che
gli farà perdere almeno un'oretta, ma lo aiuterà sicuramente a capire come
passano le giornate i palestinesi.
Giungiamo a Ramallah in tempo per partecipare alla manifestazione che
celebra il terzo anniversario della seconda Intifada. Non c'è moltissima
gente, ma l'atmosfera è surriscaldata. Ad un certo punto arrivano alcuni
incappucciati di nero, sparando in aria; passano velocemente tra la folla e
si dileguano in un attimo. Una nota di folklore, più che altro.
Verso sera visita alla sede del Medical Relife, dove chiediamo ad una
ragazza molto cortese, di consigliarci un itinerario per l'indomani.
Telefona a Jenin, c'è ancora il coprifuoco, meglio andare ad Hebron, dove ci
accoglierà un medico della sua associazione. Nella sede del Medical Relife,
per una strana combinazione del destino, incontro un ragazzo dell'
associazione Papa Giovanni di Rimini, che ho incontrato due anni fa a
Diyarbakir, in Kurdistan, il quale sta discutendo con uno dei responsabili
dell'associazione di un progetto di servizio civile internazionale per
mandare degli obiettori di coscienza in Palestina. E' un bel progetto, che
mi riprometto di studiare anche su Genova.

6) MARTEDI 30 SETTEMBRE
HEBRON
E' decisamente il posto che sta peggio di tutti quelli che abbiamo visitato.
La provocazione degli israeliani è arrivata al punto da creare una colonia
nel centro della città, occupando case già abitate da palestinesi. Hebron si
divide in H1 e H2, la prima sotto il controllo palestinese, e la seconda
corrispondente alla parte centrale della città, sotto il controllo
israeliano, nella quale pullulano soldati posti a difesa di quattrocento
stronzissimi coloni, che paralizzano un centro cittadino di circa 40.000
abitanti. Il centro è percorso da una strada che lo divide in due, alla
quale hanno accesso solo i coloni con le loro vetture. Se un palestinese
vuole passare da un lato all'altro della strada, distante poche decine di
metri, deve fare un giro di una decina di km per uscire dalla città e
rientrare dall'altra parte. Il Dr. Del Medical Relife, ci porta a visitare
il centro con un'ambulanza. Il panorama è agghiacciante. Las città è
controllata dalle alture da diverse postazioni militari, che hanno la
visuale su tutta la città. Una di queste postazioni è stata installata in
una scuola, costringendo gli scolari ad andare a fare lezione altrove. Nel
centro storico ci sono numerose postazioni militari sui tetti delle case. Si
riconoscono i luoghi dove sono posizionati dalle reti che coprono le
terrazze per non consentire la visione dei soldati. Sono sparpagliati un po'
ovunque. Quel giorno non c'era il coprifuoco, che viene imposto molto
spesso. Il centro è un dedalo di viuzze sulle quali si affacciava il
mercato, che dava vita ad una delle più graziose Kasbe che mi sia capitato
di vedere, molto antica sicuramente. L'atmosfera è ora surreale, i negozi
sono quasi tutti chiusi, il mercato è praticamente morto. Solo alcuni vecchi
nelle botteghe, a parlare agli angoli delle vie, e qualche bambino che torna
da scuola con la cartella sulle spalle. Il medico ci dice che i negozi sono
stati costretti a chiudere a causa del coprifuoco continuo, ormai non
circolava più nessuno. C'era in giro la stessa gente che ci sarebbe potuta
essere di notte, ma si era in pieno giorno. Anche questo è un crimine contro
l'umanità. Ci compriamo qualche ricordino nei pochi negozi rimasti aperti,
un po' perchè sono degli oggetti decisamente belli, un pò per premiare la
cocciutaggine di quei negozianti, che nonostante tutto si ostinano a tenere
aperto. I vicoli, sono protetti dall'alto da spesse reti, sopra le quali si
vede di tutto, pietre grosse come un pugno, scatole di fagioli, spazzatura
di ogni genere, che i soldati che stanziano sui tetti riversano nei vicoli
sulla testa della gente. Un negoziante ci fa entrare nel suo negozio di
alimentari per farci vedere i danni provocati dall'acqua che i soldati
lasciano deliberatamente aperta al piano di sopra, che filtra nel suo
negozio, ove sono immagazzinati gli alimentari. Telefonare all'
amministratore ovviamente in questa situazione è impossibile, ed il
negoziante è decisamente furioso!
Nel centro cittadino sono molte le case distrutte, un ragazzo sordomuto ci
accompagna all'interno di una di queste, ci fa vedere le porte scardinate,
le finestre sfondate, i mobili distrutti. Ci affacciamo alla finestra dell'
ultimo piano, Stefano prova a filmare 12 militari sul tetto della casa di
fronte, ma rientra di corsa, è troppo pericoloso. Ci dicono che gli
israeliani non permettono di eseguire ristrutturazioni nelle case
danneggiate, destinate a rimanere dei ruderi disabitati. Scopriremo poi che
anche a Gerusalemme succede la stessa cosa, i palestinesi non possono
ripararsi le case; e se non ci fai la manutenzione ad una casa, prima o poi
cade a pezzi e te ne devi andare.
Siamo fortunati, oggi si può visitare la moschea, la cui parte più antica
risale nientedimeno che ai tempi di Erode il Grande. Nella mosche sono
custodite le tombe di Abramo, di Giacobbe e soci. Nel 1994 i coloni ebrei
entrarono nella moschea durante la preghiera, e mentre i fedeli si trovavano
accucciati aprirono il fuoco, uccidendo 29 persone, e ferendone centinaia.
Da allora la moschea è stata divisa in due, una parte per i musulmani, ed
una (la più grande) per gli ebrei. Attualmente è circondata da ceck point,
che consentono l'accesso alla moschea solo ai musulmani con più di quarant'
anni, i più giovani no, per motivi di sicurezza. Per accedere si deve
passare una cancellata di ferro,presidiata da un soldato che dormiva con la
testa appoggiata al vetro, poi un primo ceck point dove ti fanno passare
dentro un metaldetector e ti perquisiscono minuziosamente tasche e borse. La
prossima volta che vado in Palestina mi porto una cintura con una fibbia in
plastica, me la sono dovuta togliere decine di volte!
Ci rivestiamo saliamo una breve scalinata ed ecco un altro ceck point, altra
perquisizione, del tutto analoga a quella precedente. Sto per chiedere al
soldato il motivo per cui ci perquisiscono due volte, quando i due controlli
sono così vicini che si vede benissimo cosa succede nell'altro. La guida, un
settantenne che aveva fatto da interprete agli inglesi negli anni quaranta,
che è abile nello scherzare con i soldati e nel farsi ben volere,
impeccabile in giacca e cravatta, mi sconsiglia di fare la domanda, e la
tengo per me.
Non riesco a capire, guardando i soldati, se anche loro sono consapevoli
della stupidità di quello che stanno facendo, oppure se sono veramente
convinti. Ho una fiducia incrollabile nella bontà della natura umana, e sono
convinto che presi uno a uno ammetterebbero di comportarsi come dei
deficienti. Il motivo reale della perquisizioni, è comunque quello di
rendere impossibile, o quantomeno scoraggiare oltre ogni limite l'accesso
alla moschea. Il tutto avviene in un'atmosfera da day after, in una città
fantasma, che fino a qualche anno fa doveva pullulare di vita. Dentro la
moschea altri soldati ancora, a garantire la sicurezza della divisione tra
la parte ebrea e quella araba.
Una curiosità, da quello che ho capito, mai nella sua storia, la moschea
risulta essere stata utilizzata come sinagoga, ma comunque il complesso è di
una bellezza straordinaria, e non mi meraviglio che gli ebrei ci vogliano
pregare loro.
Il nostro gruppo si divide, i cineoperatori decidono di fare un giro nella
parte israeliana, dove però il nostro medico non può entrare e si
avventurano da soli. Si imbattono in altri 4 ceck point, dove tuttavia non
vengono perquisiti, ed entrano in una scuola di Settlers, dove dei bambini
stanno facendo lezione; ad ogni risposta giusta il prof. gli lancia una
caramella, come premio, come allo zoo.
Io e Franco, il giornalista, andiamo invece alla ricerca dei funzionari dell
'ONU, che il nostro medico dice essere presenti ad Hebron come osservatori.
Scopriamo però che non si tratta di ONU, ma del TIPH, una missione
internazionale creata dopo il massacro della moschea del 1994 che ha il
compito di monitorare il rispetto dei diritti umani a Hebron. Il funzionario
norvegese che ci riceve dice che loro si limitano ad osservare quello che
succede e a scrivere dei rapporti che vengono poi inviati alle autorità
competenti dei rispettivi paesi. Fa riflettere la composizione del TIPH; ne
fanno parte la Norvegia, la Danimarca, l'Italia, due paesi che non ricordo e
la TURCHIA, un esempio mirabile di nazione rispettosa dei diritti umani, la
quale, dopo avere sterminato milioni di Armeni negli anni 20, sta cercando
di fare altrettanto con i Kurdi, ed è stata più volte condannata dalla Corte
di Giustizia europea, se non mi sbaglio, proprio per la violazione dei
diritti umani. L'Italia ha inviato in qualità di osservatori nientedimeno
che 400 Carabinieri, dei quali sarei curioso di leggere i rapporti per
sapere se lo standard su cui modellano i loro giudizi in materia di diritti
umani è quello che hanno fatto vedere a Genova 2001, dal quale non hanno mai
preso ufficialmente le distanze. Penso comunque che sarebbe utile avere
notizia di che fine facciano questi rapporti perchè provengono pur sempre da
una fonte istituzionale. Si tratta dell'unica missione internazionale
presente nei territori occupati.
Cerco di saperne di più, ma il funzionario norvegese non ha tempo e mi dice
che per dire veramente quello che pensa della situazione, dell'Onu e del
TIPH, dovrebbe togliersi prima la divisa della missione internazionale, per
sentirsi più libero di parlare.
Visitiamo anche una clinica dove una giovane dottoressa appena saputo che
sono italiano mi chiede di Roberto Baggio, ripassiamo un pò di calciatori
italiani, poi anche loro ci raccontano delle loro difficoltà in cui sono
costretti a lavorare, delle ambulanze fermate per ore ai ceck point, delle
persona ferite o uccise without reason ai ceck point. Uno dei dottori che
vive nella H2, non può più prendere la macchina, come tutti gli altri
palestinesi, ora ci mette un'ora e mezza contro i dieci minuti di prima.
Sulle strade di accesso alla città, gli israeliani hanno messo delle
barriere costituite da cumuli di terra sulla strada, che possono essere
superato solo a piedi. La prima di queste è a circa 2 km dalla città, la
seconda è a ridosso del centro. In mezzo ci sono decine di taxi, che fanno
la spola tra le due barriere senz poter uscire da quel tragitto. Sotto la
strada palestinese passa la strada che gli israeliani usano per uscire dalla
città completamente deserta. Quando usciamo dalla città, i passaggio dei
pedoni tra le due barriere viene osservato da vicino da quattro soldati con
i fucili spianati, armati come se avessero di fronte dei feroci vietcong, e
no delle casalinghe con i sacchetti della spesa e dei vecchi vestiti della
sola jalabeia. Ho chiesto al nostro accompagnatore cosa succede se rimuovono
i blocchi: li rimettono, più alti di prima.
Prima di partire, al Medical Relife dimostrano che in quanto ad ospitalità
non sono secondi a nessuno, e ci offrono due polli enormi, ripieni di riso e
mandorle, condite con salse di ogni genere, paste alla crema, caffè arabo.
ANCORA GERUSALEMME.
Torniamo a Gerusalemme, la cui città vecchia è divisa nel quartiere
musulmano, ebraico, armeno e cristiano. Un crogiuolo di storia e di
religioni, l'ombelico del mondo.
Ci dirigiamo verso il quartiere ebraico che attira la nostra curiosità, e
saliamo sui tetti del mercato seguendo alcuni degli ebrei ortodossi, quelli
cappello-basettoni a boccoli-palandrana nera- barba lunga, per capirci.
Giungiamo ad una sinagoga sopraelevata che brulica di questi personaggi. L'
effetto è singolare, decine di persone si muovono in continuazione in un
ambiente ristretto, mangiando e bevendo, sembrano molto indaffarati,
stupisce il silenzio, strano rispetto al livello dell'affollamento. Provo a
fermare uno di loro, che se ne sta andando, gli chiedo cosa ci sia li dentro
(non avevo ancora capito che era una sinagoga), lui si gira verso di me, ma
il suo sguardo mi passa oltre, non si ferma su di me, scuote la testa con il
naso all'insù, come se dovesse cacciare una mosca, e tira via. Proviamo ad
interrogare dei bambini dalle lunghe basette che indossano delle camicie a
scacchi che non si trovano più in commercio per i comuni mortali da almeno
ottantanni. Anche loro non rispondono, ma sono un po' più cordiali, ci
guardano comunque stupiti.
Mi dirigo al Santo Sepolcro, dove trovo un'altra sorpresa; una trentina di
soldati armati, che disposti in semicerchio, ascoltano quella che sembra
essere una loro istruttrice. Subito dopo arrivano altrettanti soldati, che
si dispongono anche loro intorno ad un'altra istruttrice, anche loro armati
fino ai denti. Sono tutti dentro al piazzale interno alla chiesa ove è
seppellito Cristo (così si dice), la provocazione è evidente! Rispondo alla
provocazione e mi metto a guardarli incuriosito, da vicino alle spalle dell'
istruttrice, poi chiedo ad uno di loro cosa cavolo ci facciano lì, se è
successo qualcosa; il contrasto tra il luogo sacro e la parata militare è
evidente. Mi risponde che ci fa le stesse cose che faccio io (il turista),
che è tutto normale, che stanno imparando qualcosa. Cocciuto come sono,
entro in chiesa, e trovo un prete ortodosso, al quale chiedo cosa ne pensi
di tutto ciò e se gli faccia piacere tanto sfoggio d potenza militare da
parte di soldati che sono tutti ebrei, nell'area interna di una chiesa che è
uno dei massimi luoghi di culto di cristiani, ortodossi-cattolici-armeni che
siano. Mi dice, con un filo di voce, che è difficile vivere in Israele, che
ci sono molte cose sbagliate, che non vanno, che è difficile far valere i
propri diritti. Provo molta pena per questo fratino, e mi chiedo come, i
cattolici, che sono comunque sempre piuttosto potenti, possano tollerare
quello che anche a me che sono un fondamentalista ateo, sembra un oltraggio.
Proseguiamo il nostro percorso, nel quartiere ebraico, ed entriamo, quasi
per caso in un negozio, che reca l'insegna di "Centro Studi", incuriositi da
una bacheca ove è esposto in bella mostra un bel modello di tempietto. Non c
'è altro nel negozio, che ha evidentemente l'unica funzione di mostrare il
modellino. Chiediamo alla persona seduta nella stanza, un ragazzo
barba-boccoli-palandrana nera, che tiene avanti a se la bibbia aperta sul
tavolo, di cosa si tratti. Ci dice che è il nuovo tempio che sarà costruito
sulla spianata dell moschee ove ora si trova la più grande moschea di
Gerusalemme, e penso di tutta la Palestina, e ove ogni venerdì si recano a
pregare migliaia e migliaia di musulmani. Gli chiediamo che fine farà la
moschea attuale e lui come se fosse la cosa più elementare del mondo, ci
dice "will be destroied". Si sviluppa una discussione veramente
interessante, con noi sei che cerchiamo di trattenerci dal dare in
escandescenze, per comprendere cosa frullasse nella testa di quell'uomo, il
cui pensiero, considerato anche l'ufficio pubblico in cui lo abbiamo
trovato, probabilmente è comune a quello di molti altri suoi compagni di
"studi". Ci dice che loro sono obbligati a fare ciò, che ormai il progetto è
pronto, e che non ha alcun dubbio sul fatto che verrà realizzato. Il giorno
dopo abbiamo verificato che ai pellegrini ebrei che visitano il muro del
pianto, vengono distribuiti volantini con il nuovo progetto. Gli chiediamo
come pensa che potranno reagire i musulmani, alla distruzione del loro
tempio, sottolineando che non ci risulta ci siano mai stati dei conflitti
religiosi tra loro e gli ebrei. Non è un problema suo, ma dei musulmani, che
se ne andassero a pregare alla Mecca, i paesi di religione musulmana sono
anche troppi. Quella è la loro terra, è scritto nell'Holy Book, ed è loro
dovere prendersela, con le buone o con le cattive, anche a costo di rovina e
distruzione di migliaia di vite. Per loro è una strada obbligata. Gli arabi,
anche se vivono lì da secoli e secoli, sono in pratica degli usurpatori,
perchè quella terra è la terra destinata a loro (la Terra Promessa, e ogni
promessa si sa è debito). Non si sente affatto in conflitto con gli arabi,
evidentemente perchè non li considera delle entità con cui è necessario
confrontarsi. Its not my problem, è la frase che gli continua a ripetere a
tutte le nostre proteste. L'unico conflitto che lo preoccupa, è quello
interno alla comunità ebraica, tra quelli che sono di recente immigrazione,
e quelli di più lunga permanenza. Gli chiediamo se riterrebbe giusto che gli
indiani d'America, che indiscutibilmente sono i legittimi proprietari degli
attuali USA, pretendessero di espellere anche a costo di ammazzarli tutti,
200 milioni degli attuali abitanti degli Stati Uniti. It's not my problem.
Registriamo filmando per terra, perchè non voleva farsi riprendere durante l
'intervista, quasi tutta la conversazione, mi auguro che si riesca a farne
un buon uso. Rubiamo anche un volantino con il progetto del Tempio.
Ce ne andiamo disgustati, pensando che la famosa "passeggiata" di Sharon
sulla spianata delle moschee, che ha dato il via alla seconda intifada, è
stata una cazzata rispetto a quello che potrebbe succedere. Più tardi il
nostro albergatore ci dirà che l'ultimo venerdì durante la preghiera,
Gerusalemme è stata sorvolata in continuazione da elicotteri dell'esercito
che volavano a bassa quota, con evidente funzione di disturbo e di
intimidazione. La mattina successiva ci siamo recati sulla spianata delle
moschee, cui si può accedere solo dal muro del pianto, passando 2 ceck
point. Tutti gli altri varchi, chiusi con dei pesanti cancelli di acciaio,
sono sorvegliati da 4/5 soldati o poliziotti israeliani. Possibile che la
sicurezza della moschea sia protetta dagli stessi israeliani che la vogliono
buttare giù? O non è un altro modo di intimidire ed umiliare gli arabi che
si recano nel loro luogo di culto, creando sempre più ostacoli all'accesso.
Mi chiedo se non sia questione di tempo il ripetersi a Gerusalemme un
massacro quale quello di Hebron del 1994, cui è seguita la confisca della
moschea. Questa è impossibile confiscarla, è troppo araba dal punto di vista
architettonico; non potrà mai essere spacciata per una sinagoga. Meglio
buttarla giù e farne un'altra.

7) MERCOLEDì PRIMO OTTOBRE.
Ultimi giri per Gerusalemme, visitiamo la moschea, finalmente. Splendida.
Uscendo dalla moschea percorriamo la "via dolorosa", ovvero la strada che ha
fatto Cristo con la croce sulle spalle (così dicono). Molte delle stazioni
della via crucis sono presidiate da militari israeliani. Ci sono molti più
militari nel quartiere islamico che in quello ebraico. Alla Porta di
Damasco, ingresso alla città vecchia dal quartiere musulmano, ci sono delle
vecchie contadine per terra che vendono i prodotti del loro orto, basilico,
verdure, raccolte in grossi sacchi di iuta. Si avvicinano tre militari con
aria minacciosa, prendono a calci i sacchi, le fanno spostare. Le vecchie
non davano fastidio a nessuno, li fotografo, loro si incazzano, mi allontano
in fretta.
Partiamo per il confine, diretti ad Amman, da dove partiremo la notte
successiva. Prima e dopo il confine, infinita serie di ceck point, il
passaporto entra ed esce dal marsupio in continuazione. Il taxi palestinese
arriva alla frontiere e si ferma nel piazzale nello stesso identico posto
ove avevamo preso il taxi quando siamo arrivati. Scendiamo con i bagagli,
arrivano di corsa due militari israeliani col fucile con la canna alzata,
dicono di tutto all'autista, ci costringono a risalire sul taxi. Chiedo
spiegazioni, un militare mi dice "he know the rules", che rules, mi chiedo.
Ripartiamo, il taxista che evidentemente queste regole non le conosce, vaga
per il piazzale non sapendo dove fermarsi. Viene chiamato da uno dei soldati
di prima che muovendo istericamente il braccio con l'indice rivolto a terra,
indica dove deve fermarsi. Sono sei metri più avanti di dove si era fermato
prima. Quello è il posto giusto per i palestinesi. Passando davanti al
militare, che imbraccia sempre il fucile mezzo alzato, con entrambe le mani
e l'indice sempre disteso sul grilletto, gli bisbiglio coraggiosamente
"strange rules". Dopo un'oretta di attesa ai passaporti provo a uscire a
prendere una boccata d'aria, vengo ributtato nella stazione dallo stesso
militare. Mi piacerebbe che venisse in Italia, disarmato, gli farei un bel
discorsetto, qui è impossibile, l'atmosfera intimidatoria contagia anche
noi. Vedo uscire un vecchio palestinese, deve andare verso i taxi, viene
fatto passare ma è accompagnato da insulti e gesti di disprezzo. L'ultima
immagine che mi rimane di Israele, bel posticino.
8) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
Ciò che risalta con evidenza, dalla visione diretta dei territori, è la
volontà manifesta degli israeliani di cacciare i palestinesi dai territori.
Non c'è alcuna concreta volontà di pace, da parte loro, quello che si vede è
solo ed unicamente una volontà distruttiva, annichilente della realtà
palestinese. Devono sparire, o essere rinchiusi in dei recinti privi di
mezzi e di risorse, impossibilitati a muoversi e infine costretti ad
andarsene. Senza alcun rispetto per la vita umana, e dunque utilizzando
quale mezzo alternativo allo sgombero, l'eliminazione fisica di queste
fastidiose entità, cui non viene attribuito il valore di essere umano. Tutto
quello che abbiamo visto va in questa direzione, così come tutto quello che
mi hanno raccontato i palestinesi.
Non c'è nulla nella politica israeliana che faccia pensare che ha intenzione
di creare delle zone di rispetto entro cui consentire ai palestinesi una
vita dignitosa anche nei minuscoli spazi e territori che vorrebbero
recintare con il muro della vergogna. La vita all'interno delle zone murate
sarà impossibile, perchè non comunicano con l'esterno e non comunicano tra
loro.
Esemplare quello che abbiamo visto ad Hebron, dove è stata devitalizzata una
intera città, sembra Genova durante il G8. E i coloni che vivono lì non lo
fanno certo perchè ci stanno bene, vivono peggio delle galline, stanno
sicuramente meglio i palestinesi.
Sembra che ogni azione della politica israeliana nei territori sia ispirata
dai fondamentalisti, come quello con cui abbiamo parlato a Gerusalemme,
anche se ci sono segni di risveglio della società civile, come è dimostrato
dal recente rifiuto di 27 piloti, cui è seguito il messaggio di solidarietà
di 50 professori universitari.
I palestinesi non sanno più a chi rivolgersi e sostengono a ragione di non
avere più alcun interlocutore con cui provare a costruire un percorso di
pace.
Il loro obiettivo sarebbe quello di tornare ad una situazione precedente al
1967, che coincide in pratica, con quanto stabilito dagli accordi di Oslo;
anche elementi più estremisti la pensano così anche perchè contestare l'
esistenza dello stato israeliano o pretendere il 50% dei territori, come
sancito dalla risoluzioni ONU del 1948 non avrebbe alcun senso.
Israele è uno stato confessionale, chi non è ebreo, ha meno diritti degli
altri, il 20% della popolazione israeliana è araba, ma è profondamente
discriminata. Il fatto che gli arabi non prestino servizio militare, li
priva di una serie di diritti e di possibilità, che li escludono
praticamente dalla partecipazione alla vita politica ed amministrativa. Non
credo che esistano impiegati pubblici arabi.
Il razzismo che si respira è palpabile, non solo nei confronti dei
musulmani, ma nei confronti di tutti coloro che non sono ebrei.
Più volte abbiamo discusso dei camikaze, che qui chiamano "martiri", c'è chi
li approva, chi no, ma nessuno li condanna apertamente. Ci dicono che è l'
unico strumento di difesa praticabile, e che comunque se è vero che colpisce
civili, è anche vero che in Israele il militare lo fanno tutti, uomini e
donne, e che possono essere richiamati alle armi come riservisti fino a
tarda età. I civili in senso proprio, in realtà non esistono in Israele.
Ho chiesto espressamente, a chi mi è parso più favorevole ai camikaze,
perchè non si limitano ad attaccare i soldati ai ceck point, senza usare gli
uomini bomba, a fare una guerra più aperta, ho chiesto se i camikaze siano
in qualche modo una scelta precisa, in presenza di alternative praticabili,
magari per il gusto di immolarsi per motivi religiosi e diventare "martiri".
No mi hanno risposto, se avessimo tank e fucili ci comporteremmo
diversamente, ma abbiamo solo i sassi e le mani nude. Pare che le uniche
armi vengano comprate dai militari israeliani stessi che le rubano all'
esercito e le rivendono ai palestinesi.
I palestinesi, da soli, sarà ben dura che ce la facciano. Anche le pressioni
internazionali lasciano Israele piuttosto indifferente, l'unico alleato che
conta, che li foraggia in queste dissennate spese militari e repressive,
sono gli USA, loro fedelissimi "compagni di merende".
Esiste comunque un trattato di cooperazione commerciale tra UE ed Israele,
che prevede espressamente la sua sospensione in caso di violazione di
diritti umani da parte di Israele, e riuscire a bloccarlo, potrebbe già
essere un primo passo.
Ai palestinesi, in ogni caso, la solidarietà fa estremamente piacere, e lo
dimostra il fatto che siamo sempre stati accolti con la massima
considerazione da tutti coloro che abbiamo incontrato, da Barghouti, che
mentre lo portavano via a braccia gli agenti dal Tribunale ha trovato il
tempo per ringraziarci, ai dottori impegnati nei territori, ai
rappresentanti delle associazioni di ogni genere. Buona anche l'idea del
servizio civile internazionale nei territori dell'associazione Papa Giovanni
XXIII.
Bisogna andare, filmare, raccontare, denunciare, e rompere il muro di omertà
e di connivenza che circonda Israele.
Ultima annotazione. Un palestinese la prima cosa che ci ha detto è stata:
"volete fare qualcosa per la Palestina? Liberativi di Berlusconi". E se
quando incontrano gli italiani dicono ancora spaghetti, maccheroni,
mandolino, mafia e Roberto Baggio, ora iniziano a dire anche "italiani?
Berlusconi!" e tirano dritto schifati. Anche noi non ce la passiamo poi così
bene...................