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2. La Jugoslavia dalla guerra al colpo di Stato
A questo punto, per misurare appieno la profondità dell'abisso in cui questi
compagni sono caduti, conviene soffermarsi sul significato della vicenda che
si è verificata in Jugoslavia. Interroghiamoci preliminarmente sulla natura
reale delle forze politiche che hanno conseguito la vittoria. Alla vigilia
delle elezioni "La Stampa" dava la parola ad un "oppositore serbo" che
esprimeva tutta la sua ripugnanza per la presenza massiccia di immigrati
cinesi: si tratta di un piano di "inquinamento etnico", messo in atto dal
solito, diabolico Milosevic (in Zaccaria, 2000).
Ma vediamo ora chi ha preso il posto di Milosevic. Appena divenuto
presidente, Kostunica si è affrettato a presentare il suo biglietto da
visita con una dichiarazione assai eloquente: "La distorsione della società
è iniziata non con Milosevic ma con la vittoria dei comunisti 56 anni fa"
(Erlanger, 2000 a).
Dunque, la fonte di tutti i mali della Jugoslavia sarebbe da individuare in
Tito, il leader della Resistenza antifascista. Eppure, il movimento di
liberazione aveva messo fine agli anni caratterizzati dall'aggressione e
dalle infamie del nazismo, dall'occupazione e dallo smembramento del paese,
dai massacri su larga scala, dai veri e propri genocidi che nella Croazia di
Pavelic e degli ustascia si erano abbattuti sui serbi, sugli ebrei e sui
rom. La morte di Tito e il crollo del campo socialista ci hanno fatto
assistere ad una sorta di replay: di nuovo l'occupazione militare e lo
smembramento del paese, di nuovo gli odi e i massacri tra le diverse
nazionalità ed etnie. In mezzo a queste due tragedie si colloca il periodo
titoista: sono gli anni in cui la Jugoslavia gode di una pacifica convivenza
e di una relativa tranquillità e, sul piano internazionale, di un notevole
prestigio come leader dei paesi non allineati. Ebbene, è proprio questa
felice parentesi a riempire d'orrore Kustonica! In quanto a revisionismo
storico e a pulsioni razziste l'ex-opposizione serba, ora al potere, può
dare lezioni a Haider.
Ma vediamo in che modo si è verificata la svolta. Nei giorni e nelle
settimane che precedono le elezioni, la stampa americana riferisce
compiaciuta delle difficoltà che incontra Milosevic nello svolgimento della
campagna elettorale: "Timoroso di essere assassinato, il cinquantottenne
presidente appare raramente in pubblico e solo per pronunciare dinanzi ai
suoi seguaci brevi discorsi sui mali del fascismo" (Smith, 2000). Non si
tratta di preoccupazioni immaginarie. Almeno per quanto riguarda i paesi più
deboli, ogni leader sgradito a Washington, che si tratti di Castro, Gheddafi
o Saddam Hussein, sa che deve guardarsi quotidianamente e in ogni istante
della giornata, dalle trame e dai tentativi di assassinio orchestrati dalla
Cia. D'altro canto, proprio in Jugoslavia, a partire dalla fine dei
bombardamenti aerei, si sono verificati attentati ed esecuzioni misteriose.
A gettare un fascio di luce su questo mistero provvede un altro giornalista
statunitense: non ci sarà pace nei Balcani "sino a quando. Milosevic non
viene o corrotto o sconfitto o trascinato via dal potere in una bara"
(Hoagland, 2000).
Al "criminale di guerra" ricercato dal "tribunale internazionale" al
servizio di Washington viene offerto persino un mucchio di denaro, oltre
alla libertà, a condizione, s'intende, che si pieghi alla volontà dei
padroni del mondo. Diversamente. Al di là di singole personalità, è un
intero popolo ad essere tenuto sotto tiro, e non solo per la minaccia della
continuazione ad oltranza di un embargo devastatore: "gli Stati Uniti
mandavano una portaerei in Adriatico pochi giorni prima del voto, quasi
fossero già pronti al peggio" (Biloslavo, 2000).
Non mancavano però le lusinghe. Se avesse votato in modo politicamente
corretto, il popolo jugoslavo sarebbe stato liberato dall'embargo, dal
pericolo di morire di fame e di freddo; anzi, sarebbe stato generosamente
aiutato a sanare le rovine e le ferite inferte dagli stessi che adesso si
atteggiavano a salvatori inviati dal cielo.
E, tuttavia, per pesanti e infami che fossero, ricatti e minacce non sono
bastati da soli a far trionfare la volontà della Nato. Ci voleva una
"rivoluzione". Cerchiamo di ricostruirla affidandoci esclusivamente a
giornali e riviste di provata fede anticomunista e atlantica. Cominciamo con
un quotidiano italiano ultrareazionario che, proprio per questo, non sente
il bisogno di un minimo di pudore. Già il titolo è di una chiarezza
sfrontata: "Così l'America in poco tempo ha inventato l'anti-Slobodan". Ma
vediamo per esteso il contenuto (si tenga presente che si tratta di un
articolo apparso prima ancora della consacrazione formale del trionfo di
Kostunica):
"Sullo sfondo della rivolta che rischia di travolgere il regime di Slobodan
Milosevic, non può passare inosservata un'abile operazione di pressioni e
interferenze, gestita dagli Stati Uniti. Washington aveva già speso 20
miliardi di lire, in dollari sonanti, per sollecitare le infruttuose
manifestazioni di protesta dello scorso anno e fonti americane confermano
che negli ultimi mesi sono stati stanziati altri 70 miliardi di lire. Prima
che il Dos, il cartello dei 17 partiti anti-Milosevic, partorisse il
candidato vincente delle presidenziali, i suoi leader, a cominciare da Zoran
Dijindjic, venivano ripetutamente chiamati a rapporto dagli occidentali in
Montenegro, Ungheria o addirittura a Londra. Grazie a questi vertici è
scaturito il fiume di contante, spesso giunto in Serbia con valigie
trasportate da spalloni provenienti da Romania e Ungheria. Le mazzette di
dollari sono servite ad acquistare fax, computer e fotocopiatrici per la
propaganda [.] A tutto ciò va aggiunto il sistema di trasmissioni radio
indipendenti, messo in piedi per circondare la Serbia".
Sia chiaro. L'accerchiamento messo in atto ai danni della Jugoslavia va ben
al di là della radiofonia. È sempre il medesimo quotidiano fascistoide a
riferire compiaciuto: "Nessuno ha preso in considerazione le disperate
denunce del ministro dell'Informazione serbo, Goran Matic, convinto che
agenti della Nato, "con indosso divise dell'esercito federale, si infiltrino
nel nostro Paese, per far pensare che i soldati sono dalla parte di chi
vuole organizzare tumulti"". Più in ombra, ma pronta a intervenire in ogni
momento è già schierata, come sappiamo, la forza aereo-navale degli Usa
(Biloslavo, 2000).
Come si vede, la campagna elettorale a favore di Kostunica è davvero
poderosa. Se poi, nonostante tutto dovesse fallire, nessuno a Washington o
in altre capitali della Nato pensa di attenersi alle regole del gioco e alla
democrazia formale. Sempre la medesima fonte finora utilizzata aggiunge: "Il
Sunday Times ha rivelato che una squadra delle Sas, i corpi speciali
britannici, si sarebbe appena ritirata dal Montenegro dove stava addestrando
la polizia indipendentista", in previsione di una secessione e di una
rivolta contro Belgrado. Ad ogni buon conto, cifre enormi sono state già
stanziate "per il prossimo anno se il regime di Belgrado sarà ancora in
piedi". Milosevic, l'uomo che ha osato sfidare la Nato, deve comunque uscire
di scena, e al più presto possibile.
I dollari (o le sterline o i marchi), che corrono a fiumi, servono "pure a
finanziare sofisticati sondaggi d'opinione realizzati dalla stessa società
utilizzata da Bill Clinton". Deve far riflettere l'aggettivo utilizzato. Si
parla qui di sondaggi non già laboriosi ma "sofisticati", miranti come sono
a diffondere nell'opinione pubblica la persuasione che il risultato è già
scontato: "A poche ore dalla chiusura delle urne Kostunica è stato indicato
come il vincitore, ma stonava che soprattutto inglesi e americani lo abbiano
subito considerato un fatto compiuto". Ad avere perplessità, a mostrarsi
"reticente" è lo stesso "professore" chiamato dalla Nato a divenire "nuovo
capo dello Stato jugoslavo". Ed ecco allora le "pressioni su Kostunica per
autoproclamarsi presidente", tanto più che è scontato "l'immediato
riconoscimento internazionale" (Biloslavo, 2000).
È a questo punto che, a chiudere definitivamente la partita, intervengono le
manifestazioni e le violenze di piazza. Diamo ora la parola a due giornali
americani: "Uno sguardo attento alla rivolta rivela una pianificazione che
include una scelta accurata degli obiettivi, la penetrazione del sistema
segreto di trasmissioni della polizia, il reclutamento di muscolosi ma
disaffezionati ufficiali di polizia e paracadutisti fuori servizio nonché l'
invio di un rappresentante a Budapest per informare il governo USA"
(Erlanger and Cohen, 2000).
L'uomo forte della situazione, particolarmente caro a Washington, è
Dijindjic che, alla vigilia della rivolta, s'incontra "con l'ex-capo della
polizia segreta". Ed ecco che ufficiali con importanti posizioni di potere
passano all'opposizione "democratica". E, ben s'intende, operano questo
mutamento di campo non già per inseguire nobili ideali, ma, come rivelano
fonti ben informate, per realizzare obiettivi ben più corposi: "Per salvare
le loro vite. E il loro denaro, sì un bel po' di denaro. Forse anche per
garantirsi la libertà" (Ash, 2000, p. 13). Dunque, l'opera di persuasione sa
ben intrecciare ricatti, minacce e corruzione. Il tutto, per citare questa
volta il quotidiano fascistoide italiano, secondo un "copione" ben preciso
(Biloslavo, 2000). E che può essere ancora di grande utilità. La prossima
tappa è la Bielorussia: annuncia trionfalmente il "Washington Post", che già
dichiara truccate e non valide elezioni che dovessero riconfermare al potere
l'attuale gruppo dirigente (Chiesa, 2000). È un gruppo dirigente tanto più
sgradito agli Usa per aver condannato a suo tempo la guerra contro la
Jugoslavia. Non è solo alle porte della Bielorussia che bussa la
"rivoluzione democratica" orchestrata dalla Nato: "Se ciò è potuto accadere
in Serbia, perché non dovrebbe accadere in Birmania? E perché no a Cuba?"
(Ash, 2000, p. 14).
3. La lotta per la democrazia e il punto di vista de il Manifesto
Negli stessi giorni in cui i servizi segreti occidentali celebravano i loro
trionfi a Belgrado, il manifesto, nel suo supplemento mensile, riproduceva
un articolo di Le Monde diplomatique, che riferiva della recente
divulgazione di un rapporto della Cia sul colpo di Stato, da essa
organizzato e perpetrato, in collaborazione coi servizi segreti britannici,
nell'Iran del 1953.
Il 4 aprile di quell'anno "la sezione della Cia di Teheran riceve un milione
di dollari destinati "a far cadere Mossadeq con qualunque mezzo"", ma,
preferibilmente, "in modo "quasi legale"". Ed ecco allora dispiegarsi le
diverse tappe dell'operazione. Innanzitutto, è necessario procedere ad un'
opera di corruzione su larga scala: "Alla fine di maggio del 1953, la
sezione della Cia è autorizzata a investire circa 11.000 dollari a settimana
per assicurarsi la cooperazione dei parlamentari"; fondi cospicui giungono
anche ai "capi religiosi". A questo punto può iniziare la "campagna di
stampa contro Mossadeq", che risulta tanto più efficace per il fatto di
essere intrecciata con "azioni clandestine" e attentati, talvolta attribuiti
alla sinistra in modo da aggravare il clima di incertezza e di confusione.
Per farla breve, l'opera di sgretolamento della base sociale di consenso del
governo Mossadeq, colpevole di aver pestato i piedi alle compagnie
petrolifere anglo-americane, sfocia in violente manifestazioni di piazza che
si concludono con la presa di possesso "delle stazioni radio e di altri
punti chiave". Secondo la definizione contenuta nel rapporto della Cia, si
tratta di manifestazioni "semi-spontanee" (Gasiorowski, 2000); di
"spontaneità organizzata" parla invece l'"International Herald Tribune" a
proposito della "rivolta" contro Milosevic (Erlanger and Cohen, 2000).
Non c'è dubbio: siamo in presenza di un "copione" ben collaudato. Ma allora
come spiegare gli applausi tributati ai golpisti di Belgrado da parte del
manifesto? Come è potuto accadere che una certa sinistra abbia celebrato
come protagonista di una rivoluzione democratica quel Kostunica che la
stampa statunitense definisce ora come il "beneficiario dello sforzo
occidentale e americano di indebolire ed estromettere l'ex presidente
Slobodan Milosevic"? (Erlanger, 2000 b)
Si potrebbe dire che forse ha inciso negativamente la mancanza di
informazioni. In realtà, anche a voler fare totale astrazione dalle trame di
cui pure ha dato notizia la stampa internazionale, un fatto era comunque
sotto gli occhi di tutti: le elezioni presidenziali a Belgrado si sono
svolte sotto la minaccia di intervento militare della Nato e col ricatto di
prolungamento a tempo indeterminato dell'embargo. Almeno nei comunisti
italiani, tutto ciò avrebbero dovuto suscitare ricordi familiari. La lupara,
o la minaccia della lupara, ha talvolta punteggiato le campagne elettorali
della mafia in Sicilia; ma non bisogna dimenticare neppure i pacchi di
spaghetti o le scarpe che, a Napoli, Achille Lauro prometteva agli elettori
fedeli di erogare ed erogava in effetti, ma con una sequenza assai
raffinata: in caso di risultato politicamente corretto, alla scarpa del
piede destro avrebbe fatto seguito la scarpa del piede sinistro. In
occasione della recente campagna elettorale in Jugoslavia, i vari Clinton
Chirac, Schröder, Amato hanno realizzato un'impresa straordinaria: sono
riusciti ad essere nello stesso tempo gli spietati capi mafiosi e i generosi
corruttori e benefattori della situazione. E questa sorta di Giano bifronte,
col volto di Totò Riina da un lato e quello di Achille Lauro dall'altro, ha
saputo incantare buona parte della sinistra italiana!
Come ha potuto verificarsi questa bancarotta intellettuale e morale? Abbiamo
visto prestigiosi maîtres à penser del manifesto condannare Togliatti per il
suo "democratismo" e il suo attaccamento alla "Costituzione" e allo "Stato
di diritto": è di qui che bisogna prendere le mosse per comprendere la
persistente sordità che una certa sinistra rivela per le "forme"? In realtà,
nel frattempo, il manifesto ha cambiato posizione in modo radicale. Eccolo
ora alla testa della campagna per l'universalizzazione dello Stato di
diritto e del governo della legge, contro ogni violazione dei diritti dell'
uomo. Ma l'assenza di un qualsiasi bilancio autocritico si fa sentire in
modo assai negativo. Solo così riesco a spiegarmi il paradosso per cui
questi compagni, mentre da un lato guardano con benevolenza ai golpisti di
Belgrado, dall'altro, con lo zelo tipico dei neofiti, giungono persino a
rimproverare alla borghesia internazionale un'eccessiva timidezza nella
lotta contro i misfatti attribuiti ai comunisti cinesi!
Sì, è veramente inquietante l'articolo dedicato dal manifesto al viaggio a
New York recentemente effettuato da Li Peng, uno dei massimi dirigenti della
Repubblica Popolare Cinese, in occasione di un incontro organizzato dall'
Onu. Nel riferire della denuncia sporta contro di lui da alcuni "dissidenti"
e avallata da un tribunale americano, il "quotidiano comunista" annuncia
compiaciuto già nel titolo: "L'ombra di Tian 'An Men. Li Peng rischia l'
arresto a New York per la repressione studentesca di 10 anni fa". L'
articolista poi aggiunge: "la denuncia all'ex premier", per "grave
violazione dei diritti umani" è "molto circostanziata e sopportata da
numerose e dirette testimonianze di esuli ora residenti negli Stati Uniti"
(R. Es., 2000).
Una considerazione s'impone. Se proprio vogliamo attenerci al 1989, dobbiamo
dire che in quell'anno c'è stata certo la repressione di piazza Tian 'An
Men, ma c'è stata anche, promossa dall'allora presidente Bush, l'invasione
di Panama, preceduta da intensi bombardamenti, scatenati senza dichiarazione
di guerra e senza preavviso: quartieri densamente popolati vengono sorpresi
nella notte dalle bombe e dalle fiamme. Centinaia, più probabilmente
migliaia sono i morti, in grandissima parte "civili, poveri e di pelle
scura"; almeno 15 mila sono i senza tetto: si tratta dell'"episodio più
sanguinoso" nella storia del piccolo paese (Buckley, 1991, pp. 240 e 264).
Non risulta chiaro in base a quali considerazioni, a distanza di 11 anni, il
manifesto auspica l'arresto di Li Peng e non quello di Bush senior.
Ma concentriamoci sugli aspetti più propriamente giuridici. Quale idea del
diritto può avere colui che attribuisce una competenza extraterritoriale ad
un tribunale statunitense, cioè ad un tribunale non solo nazionale, ma per
di più di una nazione collocata su posizioni di antagonismo rispetto alla
Cina? Se giudici americani hanno il diritto di processare Li Peng per piazza
Tian 'An Men, a maggior ragione giudici cinesi avrebbero diritto di
processare Bush senior per Panama e, soprattutto, Clinton per il
bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado. Ma cosa inseguono certi
compagni a livello internazionale: il governo della legge o la legge della
giungla?
Il fatto è che il manifesto insiste a non volersi occupare seriamente dello
Stato di diritto o del diritto internazionale, più in generale del governo
della legge; continua ad essere fedele al ricordo di una "rivoluzione
culturale" insofferente di qualsiasi regola o norma di carattere generale,
solo che ora lo stato maggiore di questa "rivoluzione" siede a Washington e
prende di mira in primo luogo i paesi e le personalità che continuano a
richiamarsi al socialismo o che comunque resistono all'egemonismo.
4. Contraddizioni e conflitti nella lotta per la democrazia
Sia chiaro, reagire al clima di confusione e capitolazione che abbiamo visto
imperversare nelle file della sinistra e dell'ex-sinistra non significa
certo ritornare alle vecchie certezze del socialismo reale, riesumando la
tesi del carattere puramente mistificatorio della democrazia formale. Si
tratta invece di riprendere e sviluppare l'elaborazione che abbiamo visto
delinearsi nella storia del movimento comunista internazionale. Per quanto
riguarda in particolare l'Italia, siamo chiamati a ridiscutere la tesi cara
a Berlinguer del valore universale della democrazia. In questa formulazione,
in sé giusta, ci sono però tre silenzi e tre lacune.
Marx e Engels ci hanno insegnato che non è realmente libero un popolo o un
paese che ne opprime un altro (MEW, vol. IV, p. 417 e vol. V, p. 155). Per
chiarire il significato di questa tesi, sottoscritta e ulteriormente
ribadita da Lenin, facciamo un esempio desunto dalla realtà dei giorni
nostri. La stampa italiana e internazionale gronda di articoli o prese di
posizione impegnate a celebrare o, per lo meno, a giustificare Israele: dopo
tutto - si afferma - è l'unico paese del Medio Oriente in cui sussiste
libertà di espressione e di associazione, in cui è all'opera un regime
democratico. Viene così rimosso o considerato insignificante un particolare
macroscopico: il governo della legge e le garanzie democratiche valgono
soltanto per la razza dei signori, mentre i palestinesi possono essere
espropriati della loro terra, arrestati e detenuti senza processo,
torturati, uccisi e, comunque, dal regime di occupazione militare vengono
quotidianamente umiliati e calpestati nella loro dignità umana. Diventa qui
chiara e netta la contrapposizione tra ideologia borghese da un lato e
marxismo e leninismo dall'altro. La prima fa leva sulla "democrazia" in
Israele per riconoscere a questo paese un diritto al dominio, al saccheggio,
all'oppressione coloniale o semicoloniale; il secondo invece desume proprio
da questa realtà di dominio, saccheggio e oppressione il carattere tutt'
altro che democratico di Israele.
Considerazioni analoghe si possono fare per il grande alleato e protettore
di Israele. Inaugurando il suo primo mandato presidenziale, Clinton ha
sentenziato: l'America è "la più antica democrazia del mondo", ed essa "deve
continuare a guidare il mondo"; "la nostra missione è senza tempo". La
patente di democrazia attribuita agli Usa già al momento della loro
fondazione autorizza a passare sotto silenzio il genocidio delle popolazioni
indigene e la schiavitù dei neri (che pure costituivano il 20% della
popolazione complessiva). La medesima logica viene messa in atto con lo
sguardo rivolto al presente e al futuro. Non molto tempo fa, la "commissione
per la verità" istituita in Guatemala ha accusato la Cia di aver
potentemente aiutato la dittatura militare a commettere "atti di genocidio"
a danno degli indiani maya, colpevoli di aver simpatizzato con gli
oppositori del regime caro a Washington (Navarro, 1999). Ma, dato che
costituiscono la più antica e la più grande democrazia del mondo, gli Usa
non hanno difficoltà a rimuovere tutto ciò. Conservando la loro buona
coscienza, possono così continuare a rivendicare il diritto di bombardare o
smembrare ogni Stato da Washington sovranamente definito Stato-pariah (o
canaglia o antidemocratico), condannando alla fame o all'inedia la sua
popolazione. Da un punto di vista marxista e leninista, invece, proprio il
trattamento inflitto ieri ai pellerossa e ai pellenera e oggi ai maya ovvero
alle "canaglie" e ai "pariah" in ogni angolo del mondo dimostra la natura
ferocemente antidemocratica degli Stati Uniti.
Per dirla di nuovo con Marx: "La profonda ipocrisia, l'intrinseca barbarie
della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi
metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle
colonie, dove vanno in giro ignude" (MEW, IX, 225). Lo sguardo rivolto alle
colonie ovvero alle popolazioni tenute in condizioni coloniali o
semicoloniali rivela in modo inoppugnabile "l'intrinseca barbarie" di
Israele e degli Usa.
In questo senso, le lotte che il movimento operaio e comunista ha sviluppato
contro l'oppressione coloniale sono stati grandi lotte per la democrazia; e,
qualunque sia il giudizio sull'Unione Sovietica o sulla Cina, il contributo
da esse fornito a tali lotte è stato un enorme contributo alla causa della
democrazia.
In altre parole, non c'è democrazia senza democrazia nei rapporti
internazionali. Questa grande tesi marxista e leninista ha trovato un
qualche riconoscimento persino nella Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo sancita dall'Onu nel 1948: essa esige, già nel suo preambolo, lo
"sviluppo di rapporti amichevoli tra le nazioni", fondati cioè sull'
uguaglianza e il rispetto reciproco, non già sulla legge del più forte. Nel
praticare, e persino teorizzare, una politica di sopraffazione, gli Usa e la
Nato calpestano la lettera e lo spirito dell'Onu. Pauroso è dunque da
considerare, sul piano teorico e politico, lo scivolone che spingeva
Berlinguer ad attribuire una sorta di patente democratica alla Nato!
C'è un secondo aspetto che deve richiamare la nostra attenzione. Certo, la
democrazia è ormai divenuta un valore universale. Epperò, in una situazione
concreta, la libertà di certi soggetti politici e sociali può cadere in
contraddizione con la libertà di altri soggetti politici e sociali. Al fine
di chiarire ciò, prenderò questa volta le mosse da un grande autore borghese
del Settecento, e cioè da Adam Smith. Questi osserva che la schiavitù può
essere soppressa più facilmente sotto un "governo dispotico" che non sotto
un "governo libero", nell'ambito del quale "ogni legge è fatta dai loro
[degli schiavi] padroni, i quali non lasceranno mai passare una misura a
loro pregiudizievole". Con lo sguardo rivolto alle colonie inglesi in
America, dove c'è una sorta di autogoverno locale esercitato dai coloni
bianchi spesso proprietari di schiavi, Smith osserva: "La libertà dell'uomo
libero è la causa della grande oppressione degli schiavi. E dato che essi
costituiscono la parte più numerosa della popolazione, nessuna persona
provvista di umanità desidererà la libertà in un paese in cui è stata
stabilita questa istituzione" (A. Smith, 1978, pp. 452-3 e182). Viene qui
indirettamente espressa una preferenza per il "governo dispotico", il solo
in grado di eliminare l'istituto della schiavitù! In effetti, molti decenni
più tardi, nel Sud degli Stati Uniti la schiavitù viene abolita solo in
seguito ad una guerra sanguinosa e alla successiva dittatura militare
imposta dall'Unione a carico degli Stati secessionisti e schiavisti. A
gridare allo scandalo sono i cosiddetti "democratici", che condannano i
metodi giacobini di Lincoln, e lo accusano di aver liquidato il governo
della legge e di aver imposto il "potere del presidente di imprigionare
chiunque e per il periodo di tempo che gli aggrada". Ebbene, chi
rappresenta, nel corso di questo gigantesco scontro, la causa della
democrazia: il presidente giacobino che abolisce la schiavitù o gli
esponenti del partito "democratico", in quel momento impegnato a difendere l
'istituto della schiavitù o a realizzare un compromesso coi proprietari di
schiavi? Almeno Marx non ha dubbi, come dimostra il giudizio caloroso da lui
espresso su Lincoln. In quella concreta situazione storica la liberazione
dei neri passava attraverso il pugno di ferro a danno dei proprietari di
schiavi e dei loro alleati e complici, attraverso lo scioglimento degli
organismi di autogoverno degli stati del Sud.
Infine, un terzo aspetto: certi momenti essenziali della democrazia possono
entrare in contraddizione con altri aspetti altrettanto o ancora più
essenziali. È un punto che può essere chiarito a partire da un filosofo
liberal contemporaneo, e cioè Rawls. Questi esige sì la subordinazione dell'
uguaglianza alla libertà, epperò aggiunge che tale principio può essere
considerato valido solo "al di là di un livello minimo di reddito". E cioè,
il diritto alla vita, e ad una vita rispettosa della dignità umana, è
prioritario rispetto ad altri diritti; in caso di conflitto, è il primo a
dover prevalere.
5. Valore universale della democrazia e frase filo-imperialista
Proviamo a unificare in una sintesi i tre punti qui evidenziati. La
democrazia è senza dubbio un valore universale, ma universalità non è
affatto sinonimo di unilinearità e omogeneità. La linea di demarcazione tra
democrazia e antidemocrazia non è definibile una volta per sempre e in modo
omogeneo. Il riconoscimento dell'universalità del valore della democrazia
non esime dal compito faticoso dell'analisi concreta della situazione
concreta. E questa analisi deve essere sviluppata senza smarrire la
consapevolezza che, di regola, in una situazione concreta s'intrecciano e
entrano in conflitto soggetti e aspetti diversi del processo democratico.
Facciamo un esempio. L'eventuale trionfo del pluripartitismo a Cuba, dopo
decenni di spietato embargo e di pressioni esercitate da un mostruoso
apparato militare e multimediale, comporterebbe un miglioramento delle
condizioni dei pochi "dissidenti" e, probabilmente, uno sviluppo della
libertà di espressione e di associazione. Epperò al tempo stesso, si
verificherebbe la liquidazione dei diritti economici e sociali e dei diritti
nazionali del popolo cubano, con la consacrazione a livello internazionale
del diritto del più forte. Nel complesso, sarebbe una disfatta della causa
della democrazia. Sulla stampa americana possiamo leggere che "gli Stati
Uniti sono divenuti una plutocrazia" e che ormai si è consumata "la presa di
possesso delle istituzioni governative ad opera della ricchezza dei privati
e delle società per azioni", mentre "il resto della popolazione è tagliato
fuori" (Pfaff, 2000). Se questo modello dovesse trionfare anche a Cuba, ad
operare la "presa di possesso" non sarebbe neppure una borghesia nazionale!
Le considerazioni qui svolte possono essere fatte valere anche per gli altri
paesi che si richiamano al socialismo o che sono comunque impegnati nella
lotta contro l'imperialismo.
Alla luce di tutto ciò, a Milosevic bisogna rivolgere una critica
direttamente contrapposta a quella a lui di solito rivolta. Ha peccato di
ingenuità "democratica". Non si è reso conto che, nelle attuali condizioni,
data la strapotenza economica, militare e multimediale dell'imperialismo,
anche in assenza di un colpo di Stato vero e proprio come quello che si è
verificato in Jugoslavia, non sono possibili elezioni realmente libere nei
paesi di volta in volta presi di mira dall'aspirante sovrano planetario di
Washington. E prima di Milosevic hanno peccato di ingenuità "democratica" i
dirigenti del Nicaragua sandinista. Come potevano essere libere elezioni
svoltesi mentre il popolo nicaraguense continuava ad aver puntato alla gola
il coltello dell'embargo e della minaccia della ripresa dell'aggressione su
larga scala?
È probabile che da queste mie conclusioni si ritraggano inorridite le anime
belle della sinistra occidentale. In Italia, rimproverano giustamente a
Berlusconi di cancellare la par condicio e quindi di svuotare di senso la
competizione elettorale, ma non si rendono conto che Berlusconi è un
angioletto rispetto al Riina-Lauro che siede alla Casa Bianca e che dispone
di un potere e dà prova di una prepotenza infinitamente maggiori.
La sinistra e i comunisti possono ben avvertire un senso di disagio e di
impazienza per la complessità della lotta per la democrazia e per la
lentezza del processo di costruzione di una democrazia socialista. Epperò
non bisogna perdere di vista l'essenziale: rimuovere i conflitti e le
contraddizioni, che inevitabilmente accompagnano la lotta per la democrazia,
significa trasformare in una "frase" la giusta affermazione dell'
universalità del valore della democrazia, e agitare questa "frase" equivale,
in ultima analisi, a mettersi al servizio o alla coda dell'imperialismo.
Riferimenti bibliografici
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Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea
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