[Cpt] Fw: [Migrantibologna] siriano espulso, in siria viene …

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Autor: Anna Tonioni
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Asunto: [Cpt] Fw: [Migrantibologna] siriano espulso, in siria viene torturato a morte
ricevo e giro
anna
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From: <mumkin@???>
To: <migrantibologna@???>
Sent: Tuesday, July 08, 2003 12:02 PM
Subject: [Migrantibologna] siriano espulso, in siria viene torturato a morte


Pazzesco, dopo i 40 pakistani rispediti a tradimento,
ora questa storia raccapricciante.
Spero che il Governo italiano paghi un prezzo molto alto per questo ennesimo
OMICIDIO di sua diretta responsabilità. Non basta mandarli a casa, devono
pagare.
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08.07.2003
«Ucciso il siriano espulso dalla Bossi-Fini». L'hanno massacrato in carcere
di Maura Gualco

Morto sotto tortura. Tra bastonate e scosse elettriche, Mohammad Said
Al-Sahri, l’ingegnere siriano espulso dall’Italia insieme alla moglie e ai
quattro figli nel novembre scorso, sembra che sia stato ucciso. Ha
incontrato il suo boia, in un carcere di sicurezza alle porte di Damasco,
dove era detenuto da quando l’Italia lo ha rispedito nel suo paese,
nonostante avesse richiesto l’asilo politico perché perseguitato politico. A
darne la notizia sono il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e la
famiglia che attualmente vive a Londra. «Abbiamo avuto la notizia da alcuni
parenti che vivono a Damasco», dice Murhaf Lababidi, cognato di Mohammad, al
quale fa eco il direttore del Cir, Christopher Hein: «La notizia, che stiamo
cercando di accertare, ci è stata data da una fonte che si trova in Siria e
che preferiamo mantenere anonima. Ma non si tratta di parenti». E il tre
luglio scorso un comunicato è stato inviato dai legali della famiglia
Lababidi alla Corte di Strasburgo. «Da fonti attendibili - è scritto sulla
nota - il signor Mohammad Said Al-Sahri è stato ucciso a causa delle torture
subìte in carcere». Conferme dal governo siriano non ce ne sono. E la
Farnesina interpellata sull’argomento si limita a un: «Verificheremo».
La storia di Mohammad Al-Sahri comincia nella città di Hama, antica città
siriana, considerata dal regime di Assad la roccaforte dei Fratelli
Mussulmani, i cui membri - prevede la legge del 7 luglio dell’80 e ancora in
vigore - sono condannati alla pena capitale. Teatro di una spietata
repressione della popolazione, che tenta di liberarsi del “Leone di Damasco”
, Hama viene bombardata, accerchiata, distrutta dall’esercito. Un’escalation
di violenza che culmina il due febbraio dell‘82 nel massacro di oltre
diecimila vite. Mohammad Al Sahri, che all’epoca ha 24 anni, fugge. Va prima
in Giordania e poi in Irak, dove si stabilirà con la moglie Maysun e i
quattro figli. Ma la famiglia di sua moglie, anch’essa ricercata dal regime
di Damasco, si era già stabilita in Europa, tra la Danimarca e l’
Inghilterra. Così anche Mohammad, dopo circa vent’anni di esilio, decide di
partire per l’Europa. E il 23 novembre scorso arriva insieme ai suoi cari,
proveniente da Baghdad via Amman, all’aeroporto Malpensa di Milano. Bloccati
dalla polizia di frontiera vengono trattenuti in una zona riservata dell’
aeroporto per ben cinque giorni impedendo loro di vedere Murhaf, il fratello
di Maysun, che nel frattempo era volato da Londra in loro soccorso. Ma
Murhaf era riuscito il giorno dello sbarco a sentirla telefonicamente e non
soltanto si era assicurato che la sorella avesse richiesto l’asilo politico
per lei e i suoi cari, ma le aveva anche tradotto dall’arabo il termine
“refugee”. «Devi dire alla polizia di frontiera: ”We are refugee”». Una
veloce deportazione fa seguito ai cinque giorni di detenzione in isolamento.
Vissuto libero nel paese del feroce Saddam, Mohammad non trova, dunque,
altrettanta tolleranza nella “democratica” Italia. Ma in aereo le lacrime
non servono. Destinazione: Damasco. Dove ad attendere l’ingegnere all’
aeroporto c’è l’ascia del boia. Arrestato immediatamente dalla sicurezza
siriana, infatti, viene portato via e dalle autorità non si è mai avuta
alcuna informazione. Sua moglie, insieme ai bambini, vive ad Hama dove due
volte a settimana, racconta Murhaf, riceve la visita dei Mukabarat, i
servizi segreti che la intimidiscono e le bombardano di domande sui contatti
del marito e sul resto della famiglia. In Italia, intanto, l’Unità denuncia
il caso e in Parlamento fioccano le interrogazioni al governo. Il ministro
dell’Interno, Giuseppe Pisanu, si difende: «Queste persone non hanno mai
avanzato domanda di asilo, sono stati trattenuti in luoghi ospitali,
trattati con umanità e rimpatriati in Siria nel pieno rispetto della legge
Bossi-Fini». Difficile credere che in cinque giorni di detenzione non
abbiano mai espresso tale richiesta. E in ogni caso, spiegano i legali della
famiglia Lababidi che, intanto, hanno denunciato il governo italiano alla
Corte europea di Strasburgo per numerose violazioni del diritto
internazionale, la Convenzione di Strasburgo vieta «il rimpatrio forzato
verso un paese in cui vige la pena di morte». E a rispondere a Pisanu sull’
ospitalità della polizia di frontiera ci pensa Maysun che dai suoi “arresti
domiciliari” in cui si trova, scrive al fratello. «Abbiamo ricevuto il
peggior trattamento. C’era una donna, la stessa che ci ha scortato in
Siria...Avevamo chiesto rifugio, una vita normale...invece ci hanno
rinchiuso in una stanza con le telecamere, dove ci hanno perquisito e fatto
le foto segnaletiche...Abbiamo chiesto varie volte un interprete, un
avvocato...Poi ci hanno condotto in un posto vicino all’aeroporto...un posto
freddo, gelido, senza riscaldamento, niente coperte...Così fino a giovedì 28
novembre alle 21 quando quella donna è venuta con tre agenti di polizia e ci
ha detto “hanno accettato la vostra richiesta. Raccogliete i vostri effetti
personali”. Dove andiamo? “Sarete trasferiti in un posto migliore” mi ha
risposto la donna. Solo in aereo abbiamo capito dove eravamo diretti».
Un racconto raccapricciante, difficile da provare: la parola degli immigrati
contro quella di un funzionario di polizia. Ma che offende non solo la
famiglia Sahri, bensì la dignità di ogni essere umano. Si tratterebbe di
quei “trattamenti disumani e degradanti” citati nella Convenzione di Ginevra
e in quella di Strasburgo. Perché proprio in Siria visto che venivano dalla
Giordania? Si sono rifiutati di andare in Giordania, risponde il governo.
Dunque, per andare in Giordania si sarebbero opposti con tutte le forze,
mentre per la Siria avrebbero accettato a cuor leggero. Ma sì, in fondo
laggiù ci aspetta solo una condanna a morte. E non è tutto. Carlo
Giovanardi, ministro per i rapporti per il Parlamento, dagli scranni dell’
aula, assicurò alcuni mesi fa: «Naturalmente, il governo si impegna a
seguire la vicenda anche a livello europeo, nel caso in cui emergesse la
notizia che i diritti umani non vengano rispettati». Ebbene, come si è
impegnato questo governo? Come ha ottemperato all’impegno preso? Amnesty
International non ha mai smesso di riferire, in seguito alle inchieste da
essa condotte, che in Siria la tortura è praticata sistematicamente ed è
concreto il pericolo di scomparsa dei detenuti politici. Soprattutto gli
appartenenti ai Fratelli Mussulmani. Il governo, quindi, non poteva non
sapere. Non poteva non immaginare la fine che avrebbe fatto Mohammad Al
Sahri. «La notizia della morte dell’ingegner Sahri che riferiscono fonti
attendibili - dice Anton Giulio Lana, uno dei legali della famiglia
Lababidi - mi lascia sconcertato ma purtroppo non sorpreso. Il rischio di un
tale epilogo era fin troppo prevedibile. Spetterà a questo punto alla Corte
Europea accertare le responsabilità dell’Italia, anche sotto questo
profilo».

(dall'Unità online di oggi)




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