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From: Silverio Tomeo
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Sent: Thursday, June 19, 2003 11:15 PM
Subject: Una inferriata in riva al mare
Una inferriata in riva al mare
FEDERICA SOSSI
Una inferriata in riva al mare
Si chiama Regina Pacis, sorge nei pressi di Lecce ed è un
Centro di detenzione per stranieri in via di espulsione.
Da
qui parte Annamaria Rivera per indagare l'inedita
categoria di
«discriminazione legale» e l'orizzonte in cui si
inserisce,
quello del razzismo istituzionale. Per Deriveapprodi,
«Estranei e nemici»
Si potrebbe immaginare la seguente scena: sera inoltrata,
all'uscita da un bar un «normale» controllo di polizia,
due,
tra le persone controllate, non hanno con sé i documenti.
Vengono fermate e arrestate. Trascorrono i loro giorni
nella
stessa cella, condividono il cibo e la parola, poi una
delle
due viene rilasciata, è trascorso un mese, ed è questa la
durata massima dell'arresto previsto dalla legge italiana
nel
caso di mancata esibizione dei documenti di
identificazione.
L'altra persona verrà a sua volta rilasciata, ma cinque
mesi
dopo. Si potrebbe immaginare anche la seguente scena:
paesaggio marino, una macchina si accosta sulla strada
sterrata accanto agli scogli, dalla macchina scendono
alcune
donne e un bambino, non si dirigono verso il mare ma si
fanno
aprire dai carabinieri un alto cancello a inferriate ed
entrano nell'unica struttura abitativa della zona, poi si
apre
un altro cancello, passano tra carabinieri e persone
detenute
all'interno di quella struttura, si apre un ulteriore
cancello
e scompaiono. Abitano lì, le donne e il bambino. Una di
queste
due scene è soltanto immaginata, l'altra la si può
scorgere
tutti i giorni nei pressi di Lecce. Trascinati dal proprio
istinto voyeuristico si potrebbero precisare ulteriormente
i
tratti della scena reale. Non quella della cella, ma
quella
del bambino. Applicando il proprio occhio a una
piccolissima
fessura del cancello di ferro dietro a cui il bambino ero
scomparso, si potrebbero scorgere, infatti, altri due o
tre
bambini nel cortile, un trattore di plastica, un box e una
carrozzina, qualche panno steso al sole.
Vivono lì, alcune donne, alcune bambine e alcuni bambini,
figlie e figli di quelle donne, sembra che alcuni di loro
vi
siano addirittura nati, non comunque il bambino sceso con
la
mamma dalla macchina che vive lì da due anni e ne ha tre.
Il
posto in cui vivono dovrebbe essere un luogo di protezione
e
integrazione sociale, previsto da una legge del 1998, in
cui
far trascorrere non anni ma alcuni mesi alle donne
straniere
ed eventualmente anche ai loro figli che abbiano deciso di
denunciare le situazioni di «violenza o di grave
sfruttamento»
da esse subite e i loro sfruttatori. Capita, invece, che
il
posto in cui vivono quelle donne con i loro bambini, non
per
alcuni mesi, ma per anni, sia all'interno di un Centro di
detenzione per stranieri in via di espulsione, nei pressi
di
Lecce, il cui direttore, insieme ad altri operatori e
carabinieri, è da qualche mese indagato per i gravi
maltrattamenti subiti dagli stranieri detenuti nel Centro.
Perché raccontare insieme queste due scene? Perché sono
possibili a partire dallo stesso testo di legge. Nella
scena
soltanto immaginata, infatti, la differenza tra le due
persone
arrestate e poi rilasciate non è né di sesso, né di
professione, né di condotta all'interno del carcere, ma
unicamente di luogo di provenienza. La persona rilasciata
dopo
un mese ha la cittadinanza italiana, l'altra è straniera,
di
cittadinanza non appartenente a uno stato della Comunità
europea.
L'esempio di questa differenza viene riportato da
Annamaria
Rivera nel suo Estranei e nemici. Discriminazione e
violenza
razzista in Italia (Deriveapprodi, 2003, pp. 157, 13 euro)
come uno dei tanti possibili, e certamente «non dei più
gravi», per dar conto di una strana categoria di
discriminazioni che vanno indagate nella loro storia e
origine: quelle «discriminazioni perfettamente legali» che
hanno accompagnato l'arrivo degli stranieri in Italia, da
tutti falsamente percepito come un fenomeno recentissimo,
e
che, proprio perché legali, volute e stabilite da testi di
legge, passano per lo più inosservate.
L'orizzonte in cui si inserisce e da cui è resa possibile
questa forma di discriminazione, che può fare a meno di
una
forte componente ideologica e dottrinaria, è quello del
razzismo istituzionale. Nozione spesso criticata per le
sua
ambiguità e astrattezza, ma che, secondo Rivera, «resta un
categoria utile a mostrare che la discriminazione razzista
(...) può presentarsi come un meccanismo opaco e banale,
così
interiorizzato che coloro che concorrono a riprodurre
possono
non esserne consapevoli; e che gli stereotipi, le
categorizzazioni negative o svalorizzanti, le
discriminazioni
possono essere così profondamente incorporati nel sistema
legale e amministrativo dello Stato da diventare abituale
e
routinaria modalità di relazione con i minoritari».
Razzismo di stato, l'aveva chiamato Foucault, che scorgeva
il
suo profilarsi verso la fine del XIX secolo e per indagare
l'origine del quale si vedeva costretto a tracciare i
contorni
di una nuova tecnologia del potere, il bio-potere, che
incorporerebbe, integrerebbe e modificherebbe il potere
disciplinare. Senza riferirsi al termine foucaultiano, che
nell'attuale dibattito rischia effettivamente di diventare
un
cliché dai contorni imprecisati, Annamaria Rivera
ripropone e
prova a indagare lo scenario europeo, ma soprattutto
italiano,
dell'estraneità e dell'inimicizia, o meglio, con un
neologismo, della «nemicizzazione», in cui le diverse
forme di
discriminazione degli stranieri, dei migranti o immigrati,
si
trasformano in una «microfisica, un sistema di relazioni e
di
controllo, di imposizioni di norme, di tattiche e
funzionamenti, non necessariamente imposto o dettato
dall'alto».
Quel che ne emerge è un quadro a dir poco inquietante. A
partire dall'origine della discriminazione inscritta
nell'idea
stessa del moderno stato-nazione, la «naturalizzazione» di
una
propria appartenenza storica allo stato; passando
attraverso
le retoriche del «diritto alla differenza», attuale
declinazione, post-coloniale, di un'inferiorità che non si
lascia più dire nei termini della razza; riportando alcune
delle manipolazioni linguistiche al servizio di norme e
pratiche palesemente discriminatorie; scegliendo tra le
molteplici pratiche di etichettamento soprattutto quelle
in
grado di creare stereotipi di cui tutti rimaniamo
prigionieri
(i rom, nomadi per sempre; la parola clandestino come
status e
condizione permanente; la retorica anti-musulmana che si
avvale di meccanismi concettuali e linguistici propri al
repertorio dell'antisemitismo storico), i tratti con cui
viene
delineato il fenomeno del razzismo lo fanno apparire ai
nostri
occhi più che come un fantasma che accompagna ormai il
profilarsi di ogni gesto, azione, parola, istituzionale e
non.
Un «di più» che eccede la necessità del conflitto sociale,
un
«di più» rispetto al quale una spiegazione in termini
funzionali, che lo descriva come un'ideologia utile allo
sfruttamento economico, rischia di diventare complice
della
sua sottovalutazione, un «di più» che sta emergendo come
«idioma culturale del Belpaese». E in grado, forse, di
riproporsi come interrogativo perturbante persino al di là
dei
tentativi, per ora solo ideali, di poterlo sciogliere nei
meccanismi di una cittadinanza «inclusiva ed espansiva,
che
spezzi il vincolo arcaico che la lega alla nazionalità in
favore di un progetto di civitas aperta e fondata sulla
residenza», di cui, insieme ad altri, Annamaria Rivera si
fa
promotrice.
Chiude il libro un inventario dell'intolleranza. Più di 60
pagine di una raccolta «etnografica» di episodi, scelti da
Paola Andrisani, con l'intento, riuscito, di illustrare
«la
rilevanza, la complessità e la gravità del fenomeno in
maniera
più efficace dei semplici dati statistici». Al suo
inventario,
articolato in categorie, mi limito ad aggiungere un
episodio
scelto tra i tanti e forse nemmeno più esempio di
intolleranza, ma della nostra «normalità»: un bambino di
tre
anni che da due vive dietro alle inferriate del Regina
Pacis,
Centro di detenzione in provincia di Lecce, accanto al
mare e
«protetto» dai carabinieri e dal direttore del Centro.