[Cm-milano] Scassinatore e vandali

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Il ciclismo nel delitto

Può essere causa di criminalità, secondo l'antropologo Cesare Lombroso:
parliamo del biciclo, detto anche bicicletta

Aumenta le cifre e le cause della criminalità. Agevola le fughe e gli
alibi di coloro che hanno violato la legge. È motivo frequentissimo di
furto e di appropriazioni indebite. Può portare anche all’omicidio.
Questo pericolosissimo strumento generatore di delinquenza fu indicato
da Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale, nel biciclo
ovvero nella bicicletta. Il saggio con tale tesi - intitolato Il
ciclismo nel delitto - comparve sulla Nuova Antologia, volume
ottantaseiesimo, nell’anno 1900 e suscitò commenti sotto alle Due Torri
soprattutto in relazione alla statistica nazionale che aveva collocato
Bologna fra le città "più a due ruote": ben quattromila ciclisti sui
centomila di tutta Italia.
"Un cicloturista"

Olindo Guerrini

guerrini_caricatura.jpg (15842 byte)I seguaci del nuovo mezzo di
locomozione (e di delitto?) erano spuntati come funghi dalla primavera
del 1886 quando, il 30 maggio, alla Montagnola, c’era stata la prima
gara nella pista usata anche per i cavalli. Era stato un "lancio" che
aveva subito creato una diffusa passione. Largo dunque alle due ruote
con conseguente esposizione ai pericoli segnalati da Cesare Lombroso e
particolarmente a quelli commessi dai "criminaloidi, anzi criminali
d’occasione del biciclo": coloro che, secondo le parole del celebre
antropologo, "non farebbero il male per il male, ma che avendo una
facile occasione si lasciano trascinare".
La bici, infatti, può essere strumento di offesa ai cittadini e quando
succede un incidente quasi tutti se la prendono immediatamente con
quegli "irresponsabili" che usano il nuovo mezzo. "Se un fiaccheraio -
scrive un giornale ovviamente partigiano dei ciclisti - mette sotto una
generazione intera, appena lo dicono, se pur lo dicono: ma se un
ciclista si scortica un dito o storpia un cane vagante, tutte le
gazzette trasmettono il funesto avvenimento". Alcuni fogli hanno una
rubrica fissa intitolata "Disgrazie del ciclismo". Il Carlino del 4
giugno 1893 sbotta in un "Imbecilli su due ruote", indubbiamente forte
ma forse non del tutto estraneo al modo di pensare di alcuni suoi lettori.
In questo contesto sono varati regolamenti severi: "ogni ciclo deve
avere valido freno e non deve spingersi a corsa più veloce di quella di
una persona di passo accelerato". Forlì consente la circolazione di
alcuni tratti del centro solo con la bicicletta condotta a mano. A
Faenza è vietata. Bologna, nel 1897, vede, all’ingresso della città, le
guardie daziarie smontare le selle per rendere le bici meno "offensive".
Contro questo provvedimento protesta vibratamente un ravennate di
Sant’Alberto che da circa dieci anni si è trasferito a Bologna e
possiede una villa a Gaibola. È Olindo Guerrini, uomo di cultura, poeta
carducciano più di Carducci, polemista feroce, autore di burle
memorabili, bibliotecario all’Università. Oggi è conosciuto
prevalentemente dai romagnoli per i suoi Sonetti in vernacolo, ma allora
era il nome più apprezzato della nuova poesia italiana. Nel 1877 infatti
aveva pubblicato Postuma - una raccolta di poesie che aveva finto essere
di un suo cugino, Lorenzo Stecchetti, morto per tisi - ed era stato un
successo enorme che aveva largamente superato in vendite le
contemporanee Odi Barbare di Carducci. Era divenuto il poeta più imitato
d’Italia al punto da indurre l’editore Zanichelli ad adottare iniziative
legali per tutelare "il vero Lorenzo Stecchetti".
Olindo Guerrini, a Bologna, non era solo verseggiatore di fama ma anche
ciclista entusiasta e pure "impegnato" avendo assunto la presidenza del
Touring Club Italiano, nato nel 1894 a Milano come Touring Club
Ciclistico Italiano (per questa origine porta ancora oggi la ruota di
bicicletta nel suo simbolo grafico). Ha dunque un ruolo anche
"istituzionale" per ergersi a difensore pubblico dei "ciclisti
criminali". Protesta contro la castrazione delle selle a Bologna e
inizia un’accesa polemica con il sindaco di Monte Donato che ha
dichiarato guerra ai ciclisti. Lo biasima, lo prende garbatamente in
giro, ma non riesce a portarlo dalla sua .Il pubblico amministratore
infatti replica sui giornali vantando (perché evidentemente sa di avere
dalla sua una consistente parte dell’opinione pubblica) la sua
"avversione per questo nuovo mezzo di locomozione" usato troppo spesso
da "una classe di persone pericolose" e addita all’ignominia due episodi
" uno di scelleratezza e uno di viltà". Una mendicante di 70 anni,
sorda, non ha sentito il campanello del ciclista e il "manigoldo" l’ha
investita. Un trovatello di 8 anni, ritardato, è caduto in preda alla
paura perché spaventato da "un infame ciclista".
E se questa criminalità fosse una specie di " vizio momentaneo di
mente", indotto dall’estenuante fatica di pigiare sui pedali? È
un’ipotesi alla quale Olindo Guerrini, da buon positivista, cerca di
dare una risposta sperimentale. Così alle 3,40 di un 1° luglio parte in
bici, lungo la via per Rimini, per tentare quello che alcuni reputano
impossibile: spingere le ruote a più non posso e al tempo stesso
lavorare di fino con la mente, componendo un sonetto. Il figlio lo
accompagna, pure lui in bici, col compito di annotare su un foglio il
lavoro letterario. Verso San Lazzaro nasce il primo verso, al ponte
sull’Idice, a Maggio, la seconda quartina. A Maggione la lirica è
praticamente tutta imbastita e ci sarà tempo e capacità per limarla fino
a Rimini. Il ciclista allora non si beve il cervello quando pedala,
tuttavia "la mente costretta al lavoro durante lo sforzo fisico del
correre in bicicletta - annota Guerrini con una punta di rammarico -
fatica molto e lavora male".
Questo esperimento stecchettiano potrebbe oggi essere catalogato
nell’ambito delle sue celebri burle. Ma allora non fu così e suscitò
dibattiti impegnati. Forse anche perché diversi letterati, soprattutto
in Emilia Romagna, si erano fatti prendere dalla passione per la
bicicletta, a cominciare dal faentino Alfredo Oriani che negli ultimi
tre anni dell’Ottocento prima aveva fatto un raid ciclistico appenninico
di quasi mille chilometri poi su questo viaggio aveva scritto un libro
(per la verità di scarso successo) diviso in tre parti: dissertazione
sulla bicicletta, quattro novelle, "Sul pedale".
In questo periodo le due ruote dunque alimentano la letteratura. Ma
anche il fisco con il pagamento di una tassa, certificata da bolli che
talora - come si legge nelle rubriche di cronaca nera - sono sottratti
per essere usati dagli evasori. Ed eccoci un’altra volta alla tematica
della criminalità indotta dalla bicicletta.
Cesare Lombroso, nel saggio più volte citato, racconta quanto è accaduto
a una malcapitata signora "del gran mondo" mentre, in pieno giorno,
saliva le scale di una casa del Boulevard Saint-Germain. "Un biciclista
elegantissimo, deposto il suo strumento alla porta, la segue, la
oltrepassa e con un manrovescio la getta a terra, la deruba, e prima che
essa si rialzi, rimonta sulla sua bicicletta, sicché non fu più
possibile raggiungerlo". Questo a Parigi negli ultimi anni
dell’Ottocento, come si desume dalla data di pubblicazione del
riferimento cronachistico.
A Bologna si prospetterà alcuni anni dopo, nel 1908, come si ricava
dalla lettura dei giornali locali dell’epoca.
La mattina del 15 giugno, in via del Macello, lungo l’argine artificiale
del Porto del Navile, è trovato morto, strangolato, un cameriere di 16
anni. Il cadavere ha un fazzoletto stretto attorno al collo e questo
particolare induce i giornali a mettere in risalto una tecnica criminale
della malavita bolognese.
Si chiama "da apache", ma il riferimento non è alla tribù bellicosa di
pellirossa.
Indica invece un tipo di teppista francese, messo in risalto, con tale
definizione, da una serie di articoli sulla malavita parigina, scritti
nel 1902, dal giornalista Victor Moris sul Matin. Lo stereotipo di
questo delinquente porta al collo un fazzoletto di seta: ma non per
ornamento bensì come arma impropria per aggredire i passanti a scopo di
rapina. Li raggiunge alle spalle, stringe loro il fazzoletto attorno al
collo, li tramortisce e porta via tutto. Poi, spessissimo, come ha
raccontato Lombroso, fa perdere le tracce allontanandosi in bicicletta.
Questa tecnica criminale è evidenziata dai cronisti petroniani perché la
vittima del Macello è stretta al collo da un fazzoletto e perché alcuni
testimoni dicono di aver notato dei giovani che, alla vigilia del
delitto, "si esercitavano a fare gli apaches". È una delle prime
descrizioni di quegli scippi con stretta al collo che funestano tuttora
la vita bolognese. Oggi la fuga è spesso in motorino. Allora in bicicletta.
Bicicletta che - nell’ottica del tempo del quale parliamo - è vista
anche come portatrice di effetti sociali positivi ("diminuisce
l’isolamento dei piccoli centri" e promette, con l’esercizio fisico, "di
migliorare sostanzialmente la nostra razza", ammette lo stesso Lombroso)
ma rimane sempre potenziale "strumento del male". Così la Curia ne vieta
l’uso ai sacerdoti e farà passare molti anni prima di concedere le prime
dispense. Accadrà quando le due ruote, su impulso dei futuristi, saranno
"benedette dalla Patria" con la costituzione dei primi reparti militari
ciclistici in partenza per la prima guerra mondiale.