[Lecce-sf] Intorno al silenzio sociale sull'ingiustizia e l'…

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Autore: luisa rizzo
Data:  
Oggetto: [Lecce-sf] Intorno al silenzio sociale sull'ingiustizia e l'infelicità
In tre articoli. uno scambio:

Per vincere
di Luisa Muraro
(Unita', 7 giugno)
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Un aspetto per volta
di ROSSANA ROSSANDA
(Il Manifesto, 8 giugno)
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No, non vediamo un aspetto per volta
di LUISA MURARO
(Il Manifesto, 10 giugno)

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Per vincere
di Luisa Muraro
(Unita', 7 giugno)

Ci sono di quelli che dicono: lasciamo perdere le polemiche, il problema è
non perdere una sola occasione per battere la destra al governo. Li
capisco, però penso: non basta proporsi il risultato elettorale, per
vincere bisogna proporsi qualcosa di più e di meglio. Per vincere, bisogna
aprire un orizzonte che, per molti, non sappiamo quanti, si è chiuso con la
fine del comunismo. Non vale solo per quelli che sono stati comunisti. E
non occorre essere (stati) comunisti per capirlo.
Non so se chi mi legge ha visto Tutto o niente di Mike Leigh. E' un film
ambientato in un'anonima periferia inglese, duro ma coinvolgente e vero.
Non racconta fatti atroci, non parla di gente marginale o esclusa, parla di
persone che tirano avanti avendo un lavoro, una famiglia, qualche scampolo
di vita sociale. Una settimana fa, il direttore di questo giornale gli ha
dedicato un lungo editoriale, Le anime morte della politica. Diceva: questo
film contiene una rivelazione che ci interessa tutti, parla di gente che la
politica ha abbandonato del tutto, come un mare prosciugato da cui sono
stati ritirati progetti, programmi, ideali, militanza, partecipazione.

Sono molto d'accordo con questa lettura e quello che sottintende. Ma ho
un'aggiunta da fare, che riguarda il finale. Il direttore non lo commenta,
ma dal finale dipende il senso del titolo, Tutto o niente. A un certo punto
capita che uno dei protagonisti, un tassista sempre malmesso, mite e
tremendamente scoraggiato, tiri su una cliente per una lunga corsa e che
lei abbia voglia di fare conversazione. Lei lo interroga, lui guida e
parla, lei lo ascolta. Parlando, capisce quello che manca nella sua vita,
quello che la fa "semivuota". Non lo dice alla cliente, lo dirà alla
moglie, dopo molte ore di assenza da casa. Non è niente di quello che il
film faceva supporre, tipo lo squallore dei cortili, la ristrettezza
dell'appartamento, la disoccupazione del figlio: la sua pena è avere perso
l'amore della sua compagna. Si indovina che in quelle ore ha pensato di
farla finita: tutto o niente. La storia finisce che i due si parlano, in
lei si scioglie il groppo di risentimento che aveva verso l'uomo e tornano
a volersi bene, come agli inizi e forse di più.

Dal finale dipende il senso del titolo e, aggiungo, dell'intero film, però
vediamo come. Con quel finale, non si tratta più di un film di denuncia. La
morale politica non la tiriamo noi che guardiamo il film, ce la insegnano i
suoi personaggi. Questa gente "abbandonata dalla politica", che s'ingegna a
sopravvivere con un'enorme fatica quotidiana cui il regista ci fa
partecipare, non chiede la nostra compassione né aspetta la nostra
indignazione. E, per finire, sono loro che ci insegnano la via d'uscita. E'
giusto che sia così. Non è più tempo di fare denunce in vista di suscitare
un'indignazione e una mobilitazione delle coscienze. Le mediazioni che una
volta agivano in questi casi, sono ormai estinte. Ero bambina e ricordo il
generoso fervore con cui il mio paese si mobilitò per dare ospitalità ai
profughi del Polesine. Oggi ho una casa tutta mia e non ci faccio dormire
persone senza casa, neanche d'inverno. Io non sono cambiata, è cambiata la
civiltà.
Ma l'amore sarebbe la via d'uscita? Non lo so. Certo, ci vuole qualcosa che
ci sbilanci, da dentro. Ci vuole un "movente" vero, che ci schiodi dalla
ripetizione. La razionalità tutta e solo laica, per dire: ragionante e
calcolatrice, non ha la forza di vincere, perché resta dentro l'ordine
costituito, i cui giochi sono ormai tutti giocati e noti. Doveva essere la
fine della storia, è cominciata invece una storia di eversione. Un
Berlusconi è riuscito a vincere sui politici di professione non perché
fosse più intelligente di loro, ma proprio perché loro erano dei
professionisti, mentre lui nel gioco è entrato portando un interesse extra
(e molto pressante, come sappiamo: salvare il suo impero affaristico e non
finire in galera).

Ormai, stando alle regole del gioco, per bene che vada, si va in pari,
com'è successo all'avversario di Bush nelle elezioni presidenziali. Per
vincere bisogna avere una passione e scommettere& Tutto o niente, è una
parola contraria all'arte della mediazione, che in politica è necessaria.
Ma intendiamoci: non si può mediare all'infinito, c'è un punto passato il
quale la politica perde ogni senso e diventa la foglia di fico messa sopra
il privilegio e il dominio.
Mi chiedo se questo punto non lo abbiamo già passato. Voglio dire che la
politica delle regole e dei professionisti, da sola, non farà vincere gli
abitanti delle periferie urbane, quale che sia il risultato elettorale: non
li riguarda più. Non li farà vincere neanche che vinca la sinistra su
questioni di principio, per quanto sacrosante, come l'articolo 18, se la
misura dell'essere resta quella del successo, del potere e dei soldi. Non
serve, d'altra parte, che cerchiamo di correggere questa misura con valori
etici che, praticamente, sono vestiti che si può indossare solo in certi
posti, a certe condizioni, non in quei casoni e bar che fa vedere il film
di Mike Leigh (ma non occorre andare al cinema per sapere di che cosa
parlo).
Forse invece li farà vincere uno spostamento dello sguardo, esattamento
come quello che opera il film, che non denuncia lo sfruttamento, non accusa
il potere, ma si volta verso la sofferenza di quelle donne e di quegli
uomini, un patire comune e differente per ognuno di loro, e verso le loro
risposte, spesso fallimentari ma non sempre& Con il risultato elementare
quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e di renderli
protagonisti delle loro vite. Loro e noi, perché si tratta anche di noi e
del nostro patimento, abbassati come siamo anche noi al di sotto della
nostra capacità di vivere con gioia e generosità.
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Un aspetto per volta
di ROSSANA ROSSANDA
(Il Manifesto, 8 giugno)

Possibile che il pensiero delle donne debba spazzar via tutto quello che ha
prodotto il movimento operaio e comunista? Nel giorno in cui il governo
abbatte i diritti del lavoro, priva il salariato delle poche garanzie che
aveva sul proprio destino, ne fa non più che uno snodo intermittente,
precario, a chiamata del processo produttivo o dei servizi, una delle
nostre più interessanti femministe - Luisa Muraro sull'Unita di ieri - ci
informa «che non è più tempo di fare denunce in vista di suscitare una
indignazione o una mobilitazione delle coscienze» perché la mediazione «che
agiva in questi casi è estinta». Suppongo che la mediazione fosse il
contratto di lavoro, o quello sulla previdenza. E prosegue «la politica
delle regole e dei professionisti da sola non farà vincere gli abitanti
delle periferie urbane. Non li farà vincere neanche che vinca la sinistra
su questioni di principio, pur sacrosante, come l'articolo 18, se la misura
dell'essere resta quella del successo, del potere, dei soldi....». Brutte
parole, successo, potere, soldi (sono più accattivanti riconoscimento,
autorevolezza e agio); ma tradotte per «gli abitanti delle periferie
urbane» significano poter prevedere un percorso professionale, poterne
contrattare tempo e modi, contare su un salario. Muraro sa che il conflitto
sociale si svolge comunque dentro al sistema, che per uscirne si dovrebbe
mirare più in alto - o tutto o niente - ma poi declina il «tutto» in un
atteggiamento mentale: «Forse li farà vincere uno spostamento dello sguardo
che non denuncia lo sfruttamento, non accusa il potere, ma si volta verso
la sofferenza di quelle donne e di quegli uomini ... con il risultato
elementare quanto fondamentale di dare loro esistenza simbolica e renderli
protagonisti delle loro vite». Sono riflessioni suggerite dal film di Mike
Leigh Tutto o niente, in Italia uscito solo ora, differente da quelli di
Ken Loach perché non parla di una certa lotta, vittoriosa o sconfitta, ma
dell'affogare degli affetti e delle relazioni nella durezza della vita dei
poco abbienti. Ma davvero Mike Leigh o Luisa Muraro sosterrebbero che la
relazione personale o affettiva azzera i rapporti di forza materiali, e
basterà a liberare i lavoratori, sempre più simili al tassista del film e
felicemente descritti ieri da Manuela Cartosio? Non credo. Muraro si
interroga non sull'indifferenza ma sul che fare. E rimprovera alla sinistra
del Novecento di aver creduto che basti operare sul o nel sistema dei
proprietà, e di dipendenza del lavoratore, per risolvere i problemi di un
uomo o una donna, non vedendo che fra cielo e terra ci sono più cose che
nel modo e rapporti di produzione. La vulgata sindacale e comunista non
hanno, per esempio, visto la differenza fra i sessi, o al più hanno
proposto di portare le donne al livello degli uomini. Rimprovero di
economicismo, di cui molti oggi si battono il petto.

E' un rimprovero giusto, anche se il movimento operaio partiva proprio
dalla constatazione d'una sofferenza. Ma è lecito derivare dalla sua
sordità alla problematica dei sessi e della persona, sessuata o no, che la
disoccupazione o le condizioni di sfruttamento del lavoro non fanno più
problema? Che per chi lavora avere o no un contratto nazionale, un impiego
non precario o non averlo, qualche diritto o no rispetto all'impresa, fa lo
stesso? Oppure che «ormai» è inutile battersi perché quel che avviene è
fatale?

Io sono una vecchia comunista cui le femministe hanno aperto gli occhi su
molte cose. Ho riflettuto sui limiti dell'emancipazione. Ma non ne concludo
che se ne possa fare a meno. Affatto. Non ha senso ribaltare sul movimento
operaio, cancellandolo, la sua cecità sulla differenza fra i sessi.
Possibile che dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per
volta?

Gettate gli uni sugli altri uno sguardo partecipe, sarete e saranno liberi.
L'ho già sentito dire, e da gente con la quale Luisa Muraro non vorrebbe
aver a che fare. Vogliamo cessare questo, chiedo scusa, noioso conflitto
fra il primato del simbolico sul materiale reale o viceversa?
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No, non vediamo un aspetto per volta
di LUISA MURARO
(Il Manifesto, 10 giugno)

Cara Rossanda, ti ringrazio per l'attenzione che hai dato al mio articolo
sull'Unità di sabato, Per vincere, ma temo di non avere scritto le cose che
tu critichi, quando esclami polemicamente nei miei confronti: «Possibile
che dell'umana condizione non si possa vedere che un aspetto per volta?».
Che sarebbe, nel mio caso, la differenza dei sessi.

Riassumo il mio articolo (che ora si può trovare nel sito
www.libreriadelledonne.it). Io dico che, per vincere, non basta mirare al
risultato elettorale secondo le forme della democrazia rappresentativa,
bisogna portare nella lotta politica qualcosa di altro, di extra, perché la
fine del comunismo ha chiuso l'orizzonte e bisogna riaprirlo. Sostengo che
la lotta politica che sta tutta dentro le regole, tutta affidata ai
politici di professione, rischia ormai di essere una foglia di fico sopra
la realtà del privilegio e del dominio. Che cosa ci vuole allora, in più?
Elenco e scarto alcune risposte: la denuncia dello sfruttamento e
dell'ingiustizia; lottare su questioni di principio come l'articolo 18;
puntare sui valori etici. Non pretendo che siano cose sbagliate, ma
insufficienti: non bastano a vincere. E rispondo: per vincere, prestiamo
attenzione alla sofferenza corrente delle nostre vite, a cominciare dalle
vite schiacciate di tanti che hanno perso ogni fiducia nella politica;
facciamo con la politica quello che Mike Leigh fa con il cinema: restituire
consapevolezza e protagonismo a chi portava ciecamente gli effetti di una
convivenza umana degradata.

Come si può vedere, io non sono una che, per pensare la politica delle
donne, deve spazzare via quello che ha prodotto il movimento operaio e
comunista. Al contrario, direi. Cara Rossanda, perché possa risponderti
bisogna che mi riconosca nelle tue parole di critica. Per esempio, non
sostengo che la relazione personale o affettiva azzeri i rapporti di forza
materiali, come tu mi fai dire. Ma penso che, per combattere i rapporti di
forza e per vincere, sia necessario portarsi su un piano di essere (e di
politica) in cui l'attenzione alla sofferenza personale e la cura delle
relazioni sono beni preziosi. Tu contrapponi quello che io non contrappongo
e mi accusi di un esclusivismo che forse appartiene più a te che a me. Un
altro esempio. In chiusura dici: vogliamo cessare questo noioso conflitto
fra il primato del simbolico e il primato del materiale reale? Il noioso
conflitto lo hai evocato tu. Per parte mia, penso che l'analisi solo
economica della realtà sia politicamente inconcludente; può essere
scientificamente giusta ma non se ne può dedurre una politica se non si
considera quello che sentono, pensano, desiderano le donne e gli uomini
interessati. Non solo. Per vincere, bisogna anche che questo sentire,
pensare e desiderare si iscrivano in un orizzonte di possibilità
alternative.

Su questi temi rimando a Christophe Dejours e al suo libro tradotto anche
in italiano (L'ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di
ogni giorno, Il Saggiatore 2000), dove dice, fra l'altro: il silenzio
sociale sull'ingiustizia e l'infelicità, silenzio che ha permesso il
trionfo dell'economicismo, potrebbe dipendere, in definitiva, da un
appuntamento storicamente mancato delle organizzazioni sindacali con la
questione della soggettività e della sofferenza; da qui, un enorme ritardo
nei confronti delle tesi avanzate dal liberismo economico, e da qui anche
la grave difficoltà ad avanzare un progetto alternativo all'economicismo di
sinistra come di destra.