[Lecce-sf] le separazioni della modernità

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Autore: luisa rizzo
Data:  
Oggetto: [Lecce-sf] le separazioni della modernità
L'unione con il "Dio delle donne"
e le separazioni della modernità

"Non so bene che cosa chiamo Dio". E' il titolo di uno dei capitoli di Luisa
Muraro, "Il Dio delle donne".
Da anni Luisa Muraro studia, legge e scrive di quel "filone d'oro"
costituito dai testi della mistica femminile, o, "come io preferisco dire,
della teologia della lingua materna". Ora, avvalendosi di loro - di quei
testi e delle vite di chi li ha scritti - scrive di Dio. In prima persona.
Pur non avendone - dice nell'introduzione - "alcun titolo". "Ciò nonostante,
io volevo parlare di Dio, lo volevo fortemente, per parlare delle donne,
parlarne in un certo modo in cui solo Dio mi offriva la possibilità non so
perché e continuo a chiedermelo".

E infatti è delle donne che si parla: del loro "tenere aperto l'orizzonte a
qualcosa di meglio"; o la "ricerca libera dell'assoluto" e quel bisogno "non
di questo o di quello ma di tutto". Al centro, di nuovo, come sempre nel
pensiero di Muraro, sta la pratica politica, ovvero quell'"assicurare la
mediazione vivente", che si ha nel "rapporto donna e donna" in cui "si
decide la politica delle donne".

Si potrebbe chiedere: sì, ma cosa c'entra Dio? E invece no, perché Dio - no:
l'intimità del dialogo, la relazione delle donne con Dio - è evidenza della
possibilità di tenere insieme, e con godimento, ciò che la modernità e le
sue istituzioni, a cominciare dalla Chiesa, hanno separato: "conta che non
ci sia soluzione di continuità tra dipendenza e autonomia, fra bisognosità e
dignità, fra vulnerabilità e autoaffermazione: che una sappia dell'altra; e
che, presumendo di avere in sé il proprio inizio e fondamento, la libertà
scopra di essere stata preceduta da un dono, quello della vita e della
parola".

Torna la madre, il suo ordine simbolico. Qui, narrato (anche) come
impossibilità femminile di considerare, come invece "avviene più spesso a un
uomo", "che il termine e lo scopo di tutta la faccenda sia in lui, nel dare
inizio a lui". "Nascere donna - scrive l'autrice - vuol dire nascere
predisposta a uno sbilanciamento del centro di gravità che si sposta in
altro, fuori di sé. Non è una predisposizione di natura metafisica o
fisiologica; proviene dal rapporto con la madre". C'è, iscritto nel sesso
femminile (lo stesso della madre) la possibilità di diventare madre: un
"privilegio grande ma costoso", una "carenza che permane".
"Dio" è testimone, possibilità, mediazione di questo "qui e ora" di una
convivenza di opposti che non rinuncia mai, appunto, all'assoluto. Né a quei
piaceri "che i progressi della tecnica" (ma anche della giustizia, dello
stato di diritto, della democrazia) "ci fanno perdere".

Mi verrebbe da dire: questo bellissimo libro, che ho letto tutto d'un fiato,
sta lì a ricordarci l'essenzialità dell'umano, inteso come possibilità,
appunto, di non separare niente da niente. E che quell'essenzialità fa i
conti oggi - positivamente, dal mio punto di vista - con le (per me)
sacrosante separazioni imposte dalla modernità (stato e religione, giustizia
e diritto, etica e diritto, ecc) e grazie alle quali cerchiamo di cavarcela.
Ma temo che Luisa Muraro obietterebbe, forse a ragione, che o si segue una
strada o se ne segue un'altra. Dunque, abbandono il tentativo di
conciliazione e provo a dire di una contraddizione di cui - come dire? - non
so farmi una ragione. Riguarda un tema annoso, importante, che ha
accompagnato da sempre la politica delle donne, ossia la possibilità di
dire, appunto, "le donne", "tutte le donne", posto che "con il femminismo è
venuto in luce uno scarto tra il senso di sé e l'identità umana
rappresentata dall'uomo" e, dunque, la "generazione di un senso libero di
quello che una donna è e può diventare per se stessa, in relazione con altre
e altri, indipendentemente dalle costruzioni sociali della sua identità".
Ma - scrive Muraro - "con 'le donne' intendo l'umanità che sa che
l'essenziale non è niente che possiamo produrre o conquistare e possedere ma
solo aspettare e ricevere". Così, dice l'autrice, si tiene aperto il senso
della differenza femminile, "fuori dal sistema del dominio, con una
asimmetria radicale che, ponendo le donne nella dipendenza da ciò che niente
e nessuno può fare suo, spiazza ogni gerarchia e ogni subordinazione tra
esseri umani".

Chiedo, un po' prosaicamente: ma è proprio necessario il pensiero di un
luogo in cui collocare "le donne"? (Un po') meno prosaicamente: quel luogo
non è la relazione donna-donna?

Franca Chiaromonte
> 3 giugno 2003