[Cerchio] La potenza dell'esperienza

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Autor: clochard
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Assunto: [Cerchio] La potenza dell'esperienza
La potenza dell'esperienza

Dopo il grande mutamento che ha avuto il suo culmine nella caduta del Muro
di Berlino, la politica della trasformazione non può che partire dai
bisogni, desideri, speranze e sofferenze della moltitudine. Senza però
sottacere le ambivalenze che essa manifesta. «Del comune. Cronache del
general intellect», un volume di Augusto Illuminati edito da manifestolibri

ROBERTO GIUSTI il Manifesto



Uno spettro s'aggira per l'Europa..... Conosciamo l'autore della frase, il
seguito e pure com'è andata a finire. Il comunismo non esiste più, se non
come fantasma da evocare ed insulto da brandire in salotti televisivi e
campagne elettorali. Lo spettro s'è dileguato, dissolto sotto le macerie del
muro di Berlino, che avrebbe sepolto pure la classe rivoluzionaria, il
proletariato. La scena del delitto è sotto i nostri occhi. Pensiero unico,
guerra preventiva, decennio berlusconiano sono troppo duri da digerire per
essere dimenticati. Eppure da quelle macerie bisogna ripartire. Ce n'è la
possibilità, ce n'è la potenza. «Il comunismo è ormai riconosciuto come
potenza da tutte le potenze europee» (ancora Marx). Un nuovo spettro, chi
non se n'è accorto?, se possibile ancora più «spettrale», s'aggira per le
strade, i ghetti e le banlieues del mondo. Una moltitudine, senza identità e
senza appartenenza, ectoplasmatica rete transindividuale di bisogni,
desideri, sofferenze, speranze. Bisogna ripartire dalla potenza del comune
(o comune potenza). Non una nuova declinazione di comunismo, ma neppure il
suo abbandono. Il comunismo dopo la fine del comunismo, verrebbe da dire.
Augusto Illuminati (Del comune. Cronache del general intellect,
manifestolibri, Roma 2003, pp. 191, € 18,00) tratta di questo e di molte
altre cose ancora. Frutto ultimo di una ricerca iniziata da tempo, scavando
nella tradizione averroista e spinoziana.

Filo conduttore del volume è il general intellect, o meglio le sue
«cronache». Perché in epoca postfordista, con la fine delle grandi
narrazioni (storicistiche o dialettiche che siano), la storia può essere
raccontata solo in forma «frammentaria». Siamo usciti dal Novecento e con
esso ci siamo lasciati alle spalle i grandi soggetti della storia moderna:
la nazione, il popolo, la classe rivoluzionaria, la Storia. Questo non
significa che l'intelletto generale, e la moltitudine che ne costituisce la
condensazione reticolare e rizomatica, non abbia la sua storia e genealogia.
Anzi, è una storia che parte da lontano, che inizia almeno con la teoria
dell'intelletto di Aristotele e si dipana nel seguire vicende e «cronache»
dell'idea di potenza, liberata dalle incrostazioni neoplatoniche,
scolastiche, teologiche.

La pura potenza, dunque. Non la potenza cui sopravviene dall'esterno l'atto.
Ma la potenza da cui emerge l'atto. «Il riportare il principio di attività
all'interno della potenza»: questo il senso profondo dell'ilemorfismo
aristotelico di contro alla prospettiva platonica e in seguito cristiana. La
vita, la percezione, l'intelletto sono gradi progressivi di potenza. Il
grado seguente accoglie il precedente e lo spiega. Il precedente contiene in
sé la prestazione successiva. Senza ricorrere a trascendenti ed immaginari
dei ex machina, fessura in cui si precipiteranno maghi e preti, la potenza
agisce da programma, nel senso del dna. E' possibile allora considerare
«tutta la prospettiva ilemorfica, in alternativa al dualismo cartesiano, un
buon antecedente della moderna naturalizzazione della mente e dei programmi
funzionalistici».

La facoltà intellettiva, che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi, è
la pura potenza di ricevere le forme, i concetti. Essa, come la mano che gli
fa da pendant, esprime la completa versatilità e flessibilità della natura
umana. Una natura (come descritto nel celebre mito del Protagora platonico)
contraddistinta dalla sprovvedutezza biologica, dalla mancanza d'attitudini,
oggi diremmo di istinti. Proprio tale povertà rappresenta il fondo comune
della natura umana. «L'intelletto comune - scrive Illuminati - della specie
si è fatto uomo generico, il cui tratto distintivo è l'indistinzione
istintuale e il privilegio del pensiero». La genealogia è chiara:
Aristotele, Averroè, Spinoza, Marx. Il general intellect dei Grundrisse
dell'ultimo, l'immanentismo del terzo, l'unicità dell'intelletto materiale
del secondo, la pura potenza dell'intelletto (letta attraverso il commento
di Alessandro di Afrodisia) del primo. In quest'ordine vanno lette le
cronache, perché «la genealogia conferisce senso al passato più che
ricavarne».La pura potenza dell'intelletto è intelletto generale in un
doppio senso. Da un lato come «comunità linguistica, piano di generalità
immanente alle singole menti per l'aspetto potenziale della lingua».
Dall'altro come attività sociale generale, sia essa pensata come lavoro vivo
(Antonio Negri) o come pura potenza di produrre (Paolo Virno). In epoca
postfordista questi due significati s'intrecciano e si confondono. La
produzione assume sempre più caratteri linguistico-relazionali; la
comunicazione finalità produttivo-manageriali. La facolta generica di parole
e la potenza di produrre, per la prima volta nella storia, si trovano
riunite in un unico soggetto: la moltitudine. La sua forza sta
nell'esprimere semplicemente le facoltà generiche dell'essere umano, la sua
pura potenza. Ciò che unisce i membri della moltitudine non è una qualità
predefinita o predeterminata (in atto), non è un'appartenza (a una nazione,
razza, religione). Ciò che li accomuna è la loro irriducibile e
irrappresentabile singolarità, il loro essere individui sociali senza avere
nulla in comune, se non il comune stesso. Nulla di più distante dal vecchio
individualismo borghese. Il singolare, come in Heidegger, Arendt e Nancy,
rimanda al con e al tra, «è originariamente coestensivo al plurale», senza
ineffabili interiorità e vacue trascendenze.

I legami fra individualismo borghese e teologia politica sono evidenti. Da
un lato la favola dei diritti innati, cioè di qualità naturali già in atto
costituenti l'individuo e preesistenti la società e lo stato. Dall'altro la
sovranità come esercizio supremo della potenza, assoluta facoltà di
oltrepassare i limiti (le leggi positive) che essa stessa si pone. Lo sfondo
comune di individualismo liberale e teologia politica (a dimostrazione di
come il liberalismo in fondo sia una falsa alternativa dell'assolutismo) è
il primato dell'atto sulla potenza. Una volta come negazione della pura
potenza della natura umana (che non può accettare qualità già in atto, siano
pur esse pensate come diritti); una seconda come assolutizzazione della
potenza e, quindi, negazione della sua intrinseca natura finita. La
moltitudine non è però né la somma d'individui già formati, né l'immagine
terrena di regali teologie celesti. «La potenza moltitudinaria incorpora la
privazione, oscilla fra realizzazione e fallimento - altrimenti si
ricadrebbe nell'onnipotenza teologica di un Dio creatore,
nell'antropomorfismo regale. Proprio su questo si fonda la sua
irrappresentabile plurale irriducibilità». La questione è decisiva.

La potenza della moltitudine (e qui si misura la distanza tra Illuminati e
l'idea negriana di potere costituente) non può in alcun modo essere confusa
con un potere assoluto o infinito e tanto meno onnipotente. C'è
un'ambiguità, un limite interno e costitutivo della potenza (l'aristotelico
«ogni potenza è impotenza»), che ne rappresenta sia la forza che la
debolezza. Limite che non può essere dimenticato, pena la ricaduta in nuove
forme di reductio ad unum e di teologia politica. «Moltitudine - anche sulla
scena quotidiana, dove per ora meglio si aggira - è modo d'essere
ambivalente, che tiene in sé perdita e salvezza, paura e sicurezza,
acquiescenza e conflitto, servilismo e libertà». Resta il problema, centrale
ed inaggirabile, di come pensare un potere che esprima la potenza
dell'intelletto comune, al di là di un'impossibile rappresentazione unitaria
delle singolarità.