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著者: Simo
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題目: [NuovoLaboratorio] Articolo di Noam Chomsky sulla questione mediorientale
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Articolo di Noam Chomsky sulla questione mediorientale

Pubblicato nell'originale inglese su "Red Pepper", maggio 2002
USA-Israele-Palestina, 9 aprile 2002

Un anno fa, il sociologo dell'Università Ebraica Baruch
Kimmerling affermava che "Quello che temevamo si è realizzato".
Ebrei
e palestinesi stanno "regredendo ad un tribalismo superstizioso ...
La guerra pare ormai un destino inevitabile", una guerra "coloniale
e
malvagia". Dopo l'invasione dei campi profughi da parte di
Israele quest'anno, il suo collega Ze'ev Sternhell ha scritto che "In
una Israele coloniale ... la vita umana ha scarso valore". La
leadership "non si vergogna più di parlare di guerra, quando
ciò in cui è realmente impegnata è un'operazione di polizia
coloniale, che ricorda l'occupazione, da parte della polizia bianca,
dei quartieri poveri neri in Sudafrica durante l'era dell'apartheid".
Entrambi pongono l'accento su un dato ovvio: non vi è simmetria tra
questi "gruppi etno-nazionali" che regrediscono al tribalismo. Il
conflitto è incentrato su territori che si trovano sotto una
dura occupazione militare da 35 anni. Il conquistatore è una
potenza militare di rilievo, che agisce con il consistente sostegno
bellico, economico e diplomatico della superpotenza globale. I suoi
sudditi sono soli e privi di difese, molti si arrabattano per
sopravvivere in campi profughi poverissimi, e si trovano attualmente
a sopportare un terrore ancora più brutale, appartenente alla
familiare tipologia delle "guerre coloniali e malvagie", e
realizzano
ormai essi stessi atrocità terribili per vendicarsi.
Il "processo di pace" di Oslo ha cambiato le modalità
dell'occupazione, ma non il concetto di base. Poco prima di
entrare nel governo di Ehud Barak, lo storico Shlomo Ben-Ami ha
scritto che "gli accordi di Oslo si fondavano su di una base
neocolonialista, su di una vita di dipendenza di una parte
sull'altra
e per sempre".
Ben presto, Ben-Ami divenne un promotore delle proposte USA-Israele
inoltrate a Camp David nell'estate del 2000, che si attenevano a
questa medesima condizione. Esse incontrarono alti elogi nei
commenti provenienti dagli USA. I palestinesi e il loro scellerato
leader furono invece accusati del loro fallimento e della violenza
che ne è susseguita. Ma si tratta di una "frode" vera e propria,
come ha affermato Kimmerling, insieme a tutti gli altri commentatori
seri.
È vero, Clinton e Barak hanno fatto alcuni passi avanti nella
direzione di un insediamento sulla falsariga dei Bantustan. Poco
prima di Camp David i palestinesi della West Bank vivevano confinati
in oltre 200 aree sparse, e Clinton e Barak proponevano
effettivamente un miglioramento: consolidare queste zone in tre
distretti, sotto il controllo di Israele, praticamente separati gli
uni dagli altri e dalla quarta enclave, una piccola area di
Gerusalemme Est, il centro della vita palestinese e delle
comunicazioni nella regione. Nel quinto distretto, Gaza, la
situazione fu lasciata nell'incertezza, a parte la specificazione
in base a cui la popolazione doveva anche in quel caso restare
praticamente imprigionata. È comprensibile che le cartine
geografiche non siano comparse nella stampa statunitense mainstream,
così come peraltro gli altri dettagli delle proposte.
Nessuno può mettere seriamente in dubbio che il ruolo degli Stati
Uniti continuerà ad essere decisivo. È quindi di cruciale
importanza comprendere quale sia stato questo ruolo, e come venga
percepito dall'interno. La versione delle colombe è presentata dagli
editorialisti del New York Times (7 aprile) nel loro elogio
dell'"energico discorso" del Presidente, e della "visione
emergente" da lui espressa. Il primo elemento è l'immediata "fine del
terrorismo palestinese". Poco dopo viene il fatto di "congelare, per
poi fare indietreggiare, gli insediamenti ebraici, e la negoziazione
dei nuovi confini" per porre fine all'occupazione e consentire la
costituzione di uno Stato palestinese. Se finisce il terrorismo
palestinese, gli israeliani saranno spinti a "prendere più
seriamente la storica offerta da parte della Lega araba di una pace
e
di un riconoscimento completi in cambio di un ritiro israeliano". Ma
prima i leader palestinesi devono dimostrare di essere "legittimi
partner politici".
Il mondo reale somiglia ben poco a questo ritratto
autoreferenziale praticamente copiato dagli anni Ottanta, quando USA
ed Israele cercavano disperatamente di lasciar cadere le offerte di
negoziati ed accordi politici provenienti dall'OLP, attenendosi
alla richiesta di non intraprendere negoziati con l'OLP, di non
avere
alcun "ulteriore Stato palestinese..." (in quanto la Giordania era
già uno Stato palestinese), e "nessun cambiamento nello status
della Giudea, della Samaria e di Gaza, se non in osservanza delle
linee guida basilari del governo [israeliano]" (il piano di
coalizione elaborato nel maggio 1989 da Peres-Shamir, sottoscritto
da
Bush I nel Piano Baker del dicembre 1989). Tutto ciò non ha trovato
spazio nei media mainstream statunitensi, come è sempre avvenuto
regolarmente, mentre, nei commenti, si denunciava la testarda
determinazione dei palestinesi nel perseguire la linea terroristica,
che metteva a repentaglio gli sforzi diplomatici umanitari degli
Stati Uniti e dei loro alleati.
Nel mondo reale, la principale barriera contro cui si scontra questa
"visione emergente" è, e resta, il sistematico rifiuto da parte
degli USA. Vi è ben poco di nuovo nella "storica offerta da parte
della Lega araba", che anzi ribadisce i termini di base di una
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, sostenuta
praticamente da tutto il mondo, compresi i principali paesi arabi,
l'OLP, l'Europa, il blocco sovietico, insomma da tutti quelli che
contavano.
Ma ha incontrato l'opposizione di Israele e il veto degli USA e
dunque, il veto della storia. La Risoluzione chiedeva un negoziato
politico sui confini riconosciuti a livello internazionale "con
accordi adatti ... a garantire ... la sovranità,
l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di tutti gli Stati
dell'area e il diritto a vivere in pace entro confini sicuri e
riconosciuti" di fatto, una modifica della 242 ONU (così la
interpretavano ufficialmente anche gli Stati Uniti), con un
ampliamento volto a includere uno Stato palestinese. Analoghe
iniziative da parte dei paesi arabi, dell'OLP e dell'Europa
sono sempre state bloccate dagli USA e perlopiù sottaciute o negate
nei commenti pubblicamente disponibili.
Il sistematico rifiuto da parte statunitense risale però a 5 anni
prima, al febbraio 1971, quando il presidente egiziano Sadat propose
ad Israele un trattato di pace completa in cambio del ritiro
israeliano dai territori egiziani occupati, senza neanche sollevare
la questione dei diritti nazionali palestinesi o il destino degli
altri territori occupati. Il governo laburista israeliano riconobbe
che si trattava di un'offerta sincera di pace, ma decise di
rifiutarla, nell'intenzione di estendere i propri insediamenti
verso il Sinai nord-orientale; cosa che ben presto fece, con estrema
brutalità, la causa immediata della guerra del 1973.
Israele e gli Stati Uniti compresero che la pace era possibile, in
accordo con la politica ufficiale statunitense. Ma, come spiegò il
leader laburista Ezer Weizmann (in seguito eletto Presidente), un
simile risultato non avrebbe permesso ad Israele di "esistere nella
misura, nello spirito e nella qualità che attualmente essa
incarna".
Il commentatore israeliano Amos Elon scrisse che Sadat aveva
seminato
il "panico" nella leadership politica israeliana, annunciando la sua
volontà di "entrare in un accordo di pace con Israele e di
rispettarne l'indipendenza e la sovranità `entro confini
sicuri e riconosciuti'".
Kissinger è riuscito a bloccare la pace, facendo prevalere la sua
preferenza per una situazione da lui stesso definita di "stallo":
niente negoziati, solo forza. Le offerte di pace provenienti dalla
Giordania furono anch'esse rigettate. Da allora, la politica
ufficiale degli USA consiste nell'attenersi al consenso
internazionale sul ritiro (fino a Clinton, che ha di fatto abrogato
le Risoluzioni dell'ONU e le osservazioni sul diritto
internazionale); ma all'atto pratico, la politica ha seguito la
linea Kissinger, ossia l'accettazione dei negoziati soltanto sotto
costrizione così come Kissinger stesso era stato costretto ad
accettare i negoziati dopo la quasi-debacle della guerra del 1973,
di
cui egli ha una grossa responsabilità e alle condizioni ben
espresse da Ben-Ami. I piani riguardanti la popolazione palestinese
hanno seguito le linee guida formulate da Moshe Dayan, uno dei
leader
laburisti più aperti nei confronti della questione palestinese.
Dayan propose al governo israeliano di chiarire ai profughi che "non
abbiamo altra soluzione, continuerete a vivere come cani. Chi vuole,
può anche andarsene, e vedremo dove ci porta questo processo". A
chi lo contestava, Dayan rispondeva citando Ben-Gurion,
che "affermava che chiunque si accosti alla problematica sionista da
un punto di vista morale non è sionista". Avrebbe potuto citare
anche
Chaim Weizmann, che sosteneva che il fato delle "diverse migliaia di
neri" abitanti nella patria ebraica "è un fatto di scarsa
importanza".
Non sorprende che il principio ispiratore dell'occupazione sia
un'umiliazione incessante e degradante, oltre alla tortura, al
terrore, alla distruzione delle proprietà, alla cacciata della
popolazione civile per fare spazio agli insediamenti, alla presa di
possesso delle risorse di base, principalmente l'acqua.
Naturalmente, per fare ciò, vi è sempre stato bisogno di un deciso
sostegno statunitense, che si è protratto anche nell'era Clinton-
Barak.
"Il governo Barak sta lasciando un'eredità sorprendente al governo
Sharon", ha scritto la stampa israeliana durante la transizione: "il
più elevato numero di avvii di nuove costruzioni abitative dai
tempi in cui Ariel Sharon era Ministro delle Costruzioni e degli
Insediamenti, nel 1992, prima degli accordi di Oslo". I finanziamenti
provenivano dai contribuenti statunitensi, ingannati da favole
fittizie sulle "vedute" e sulla "magnanimità" dei leader di
Washington, sconfitti da terroristi come Arafat che avevano
deluso "la nostra fiducia", ma forse anche da alcuni estremisti
israeliani che avevano reazioni esagerate davanti a questi crimini.
Cosa debba fare Arafat per riguadagnare la nostra fiducia, ce lo
spiega brevemente Edward Walker, il funzionario del Dipartimento di
Stato incaricato della regione nell'era Clinton. Il subdolo
Arafat deve annunciare senza ambiguità che "Mettiamo il nostro
futuro
e il nostro destino nelle mani degli USA", che peraltro conducono da
trent'anni una campagna per sabotare i diritti dei palestinesi.
Nei commenti più seri, si ammette che la "storica offerta" in
questione ribadisce ampiamente il piano saudita Fahd del 1981 fatto
naufragare, come fu regolarmente affermato, dal rifiuto da parte
araba di accettare l'esistenza dello Stato di Israele. Anche in
questo caso, però, i fatti sono ben diversi. Il piano del 1981 fu
fatto fallire da una reazione israeliana condannata perfino dalla
stampa ufficiale interna come "isterica". Shimon Peres ammonì che
il piano Fahd "minacciava l'esistenza stessa di Israele", mentre il
Presidente Haim Herzog protestò che il "vero autore" del piano
Fahd fosse l'OLP, e che tale piano fosse ancora più estremo della
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976,
"preparata" dall'OLP quando Herzog era ambasciatore di Israele
alle Nazioni Unite. Tali affermazioni difficilmente possono essere
vere (anche se l'OLP sostenne pubblicamente entrambi i piani), ma
sono
un indicatore, da parte delle colombe israeliane, confortate per
tutto il tempo dal sostegno deciso ed indefesso degli Stati Uniti,
della paura disperata che si realizzi un accordo politico.
Il problema di base è da ricondursi, allora come oggi, a
Washington, che ha sempre sostenuto il rifiuto da parte di Israele
di
pervenire ad un accordo politico secondo i termini stabiliti
dall'ampio consenso internazionale, e ribaditi in forma essenziale
nella "storica offerta da parte della Lega araba".
Le attuali modifiche nel rifiuto del problema da parte statunitense
sono tattiche e, per ora, di scarsa portata. Visto il pericolo in
cui
versavano i piani per attaccare l'Iraq, gli USA hanno consentito
la ratifica di una Risoluzione dell'ONU in cui si chiedeva il ritiro
degli israeliani dai territori rioccupati, "senza indugio" il che
significa, "appena possibile", come ha subito spiegato il Segretario
di Stato Colin Powell. Il terrorismo palestinese deve
finire "immediatamente", ma il terrorismo israeliano, di gran lunga
più estremo e in azione da 35 anni, può prendersi il tempo di
cui ha bisogno. Israele ha subito prodotto un'escalation
dell'attacco, portando Powell ad affermare: "sono lieto di sentire
che il Primo ministro afferma di star accelerando le operazioni". Si
sospetta da più parti che l'arrivo di Powell ad Israele sia
stato rimandato per consentire che esse "accelerino" ancora di più.
Questa posizione statunitense può benissimo mutare, sempre per
ragioni tattiche.
Gli USA hanno permesso la ratifica di una Risoluzione dell'ONU
che invocava una "visione" di uno Stato palestinese. Questo affabile
gesto, che ha incontrato tanta acclamazione, non arriva però
nemmeno al livello del Sudafrica, quaranta anni fa, quando il regime
dell'apartheid mise realmente in atto la propria "visione",
creando Stati, governati dai neri, fattibili
e legittimi almeno tanto quanto il protettorato neocoloniale che gli
USA e Israele hanno in mente da tempo per i territori occupati.
Frattanto, gli USA continuano ad "agevolare il terrore", per citare
le
parole del Presidente, fornendo ad Israele i mezzi per realizzare
atti di terrorismo e di distruzione, tra cui un nuovo invio di
elicotteri, i più avanzati dell'arsenale statunitense (Robert
Fisk, Independent, 7 aprile).
Si tratta di reazioni tipiche nei confronti delle atrocità
commesse da un regime cliente. Per citare un esempio illuminante,
nei
primi giorni di questa Intifada, Israele usò elicotteri statunitensi
per colpire obiettivi civili, uccidendo dieci palestinesi e
ferendone
trentacinque, il che difficilmente può qualificarsi
come "autodifesa". Clinton rispose con un accordo per "il maggiore
acquisto di elicotteri militari da parte dell'Aeronautica israeliana
negli ultimi dieci anni" (Ha'aretz, 3 ottobre 2001), oltre a
pezzi di ricambio per gli elicotteri da combattimento Apache. La
stampa contribuì rifiutando di riportare questi fatti. Alcune
settimane dopo, Israele iniziò ad usare elicotteri statunitensi
anche
percommettere omicidi. Uno dei primi atti dell'Amministrazione Bush
è stato quello di inviare elicotteri Apache Longbow, i più micidiali
a disposizione. La notizia ha ottenuto una rilevanza marginale,
nelle
pagine di Economia.
L'impegno di Washington ad "agevolare il terrore" ha ricevuto
un'ulteriore illustrazione in dicembre, quando gli USA hanno
opposto il loro veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza per
la messa in atto del piano Mitchell e per l'invio di osservatori
internazionali per monitorare la riduzione delle violenze, il metodo
più efficace, come viene generalmente ammesso, ma osteggiato da
Israele e regolarmente bloccato da Washington. Il veto è stato
opposto in un periodo di ventuno giorni di calma ovvero, era stato
ucciso un solo soldato israeliano, oltre a ventuno palestinesi di cui
undici bambini, e avevano avuto luogo sedici incursioni israeliane
in
aree sotto controllo palestinese (Graham Usher, Middle East
International, 25 gennaio 2002). Dieci giorni prima del veto, gli
USA
hanno boicottato sabotandola una conferenza internazionale a
Ginevra,
che ha concluso ancora una volta che la Quarta Convenzione di
Ginevra
si applica anche ai territori occupati. Pertanto, quasi tutto quello
che USA ed Israele commettono in quell'area rappresenta una
"grave violazione"; un "crimine di guerra", in parole povere. La
conferenza ha dichiarato in modo specifico che gli insediamenti
israeliani, finanziati dagli USA, sono illegali e ha condannato la
prassi rappresentata da "omicidi volontari, torture, deportazioni
illecite, privazione premeditata del diritto ad un processo equo e
regolare, distruzioni estese ed appropriazione
indebita ...realizzati
in modo illegale e sfrenato". Quale parte contraente, gli Stati
Uniti sono obbligati dalla solennità del trattato a perseguire
chiunque commetta tali crimini, anche qualora si trattasse della
loro
stessa leadership. Di conseguenza, tutto ciò viene passato sotto
silenzio.
Gli USA non hanno ritirato ufficialmente il proprio riconoscimento
dell'applicabilità delle Convenzioni di Ginevra ai territori
occupati, né la propria condanna delle violazioni commesse da
Israele in qualità di "potenza di occupazione" (confermata, ad
esempio, da George Bush I quando ricopriva la carica di ambasciatore
alle Nazioni Unite). Nell'ottobre del 2000, il Consiglio di Sicurezza
ribadì la propria unanimità su questo argomento, "esortando Israele,
la potenza di occupazione, ad attenersi scrupolosamente agli
obblighi
sanciti dalla Quarta Convenzione di Ginevra".
La Risoluzione fu approvata con quattordici voti favorevoli e zero
contrari. Clinton si astenne, forse non volendo opporre il veto ad
uno dei principi centrali del diritto internazionale in materia
umanitaria, specialmente alla luce delle circostanze in cui questa
Convenzione fu ratificata: per criminalizzare formalmente le
atrocità dei nazisti. Ma anche tutte queste cose sono state
rapidamente riposte nel dimenticatoio, offrendo così un ulteriore
contributo ad "agevolare il terrore". Finché non si permette a queste
questioni di entrare nella discussione, e finché non se ne
comprendono le implicazioni, è insensato invocare un "impegno
statunitense nel processo di pace", e le prospettive per un'azione
costruttiva sono destinate a rimanere sconfortanti.



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<BLOCKQUOTE style="PADDING-LEFT: 5px; MARGIN-LEFT: 5px; BORDER-LEFT: #1010ff 2px solid"><TT>Articolo di Noam Chomsky sulla questione mediorientale<BR><BR>Pubblicato nell'originale inglese su "Red Pepper", maggio 2002<BR>USA-Israele-Palestina, 9 aprile 2002<BR><BR>Un anno fa, il sociologo dell'Università Ebraica Baruch<BR>Kimmerling affermava che "Quello che temevamo si è realizzato". <BR>Ebrei <BR>e palestinesi stanno "regredendo ad un tribalismo superstizioso ... <BR>La guerra pare ormai un destino inevitabile", una guerra "coloniale <BR>e <BR>malvagia". Dopo l'invasione dei campi profughi da parte di<BR>Israele quest'anno, il suo collega Ze'ev Sternhell ha scritto che "In<BR>una Israele coloniale ... la vita umana ha scarso valore". La <BR>leadership "non si vergogna più di parlare di guerra, quando<BR>ciò in cui è realmente impegnata è un'operazione di polizia<BR>coloniale, che ricorda l'occupazione, da parte della polizia bianca, <BR>dei quartieri poveri neri in Sudafrica durante l'era dell'apartheid".<BR>Entrambi pongono l'accento su un dato ovvio: non vi è simmetria tra <BR>questi "gruppi etno-nazionali" che regrediscono al tribalismo. Il <BR>conflitto è incentrato su territori che si trovano sotto una<BR>dura occupazione militare da 35 anni. Il conquistatore è una<BR>potenza militare di rilievo, che agisce con il consistente sostegno <BR>bellico, economico e diplomatico della superpotenza globale. I suoi <BR>sudditi sono soli e privi di difese, molti si arrabattano per <BR>sopravvivere in campi profughi poverissimi, e si trovano attualmente <BR>a sopportare un terrore ancora più brutale, appartenente alla <BR>familiare tipologia delle "guerre coloniali e malvagie", e <BR>realizzano <BR>ormai essi stessi atrocità terribili per vendicarsi.<BR>Il "processo di pace" di Oslo ha cambiato le modalità <BR>dell'occupazione, ma non il concetto di base. Poco prima di<BR>entrare nel governo di Ehud Barak, lo storico Shlomo Ben-Ami ha <BR>scritto che "gli accordi di Oslo si fondavano su di una base <BR>neocolonialista, su di una vita di dipendenza di una parte <BR>sull'altra <BR>e per sempre". <BR>Ben presto, Ben-Ami divenne un promotore delle proposte USA-Israele <BR>inoltrate a Camp David nell'estate del 2000, che si attenevano a <BR>questa medesima condizione. Esse incontrarono alti elogi nei<BR>commenti provenienti dagli USA. I palestinesi e il loro scellerato <BR>leader furono invece accusati del loro fallimento e della violenza <BR>che ne è susseguita. Ma si tratta di una "frode" vera e propria,<BR>come ha affermato Kimmerling, insieme a tutti gli altri commentatori <BR>seri.<BR>È vero, Clinton e Barak hanno fatto alcuni passi avanti nella <BR>direzione di un insediamento sulla falsariga dei Bantustan. Poco <BR>prima di Camp David i palestinesi della West Bank vivevano confinati <BR>in oltre 200 aree sparse, e Clinton e Barak proponevano <BR>effettivamente un miglioramento: consolidare queste zone in tre <BR>distretti, sotto il controllo di Israele, praticamente separati gli <BR>uni dagli altri e dalla quarta enclave, una piccola area di<BR>Gerusalemme Est, il centro della vita palestinese e delle <BR>comunicazioni nella regione. Nel quinto distretto, Gaza, la <BR>situazione fu lasciata nell'incertezza, a parte la specificazione<BR>in base a cui la popolazione doveva anche in quel caso restare <BR>praticamente imprigionata. È comprensibile che le cartine<BR>geografiche non siano comparse nella stampa statunitense mainstream, <BR>così come peraltro gli altri dettagli delle proposte.<BR>Nessuno può mettere seriamente in dubbio che il ruolo degli Stati <BR>Uniti continuerà ad essere decisivo. È quindi di cruciale<BR>importanza comprendere quale sia stato questo ruolo, e come venga <BR>percepito dall'interno. La versione delle colombe è presentata dagli <BR>editorialisti del New York Times (7 aprile) nel loro elogio <BR>dell'"energico discorso" del Presidente, e della "visione<BR>emergente" da lui espressa. Il primo elemento è l'immediata "fine del<BR>terrorismo palestinese". Poco dopo viene il fatto di "congelare, per<BR>poi fare indietreggiare, gli insediamenti ebraici, e la negoziazione <BR>dei nuovi confini" per porre fine all'occupazione e consentire la <BR>costituzione di uno Stato palestinese. Se finisce il terrorismo <BR>palestinese, gli israeliani saranno spinti a "prendere più<BR>seriamente la storica offerta da parte della Lega araba di una pace <BR>e <BR>di un riconoscimento completi in cambio di un ritiro israeliano". Ma <BR>prima i leader palestinesi devono dimostrare di essere "legittimi <BR>partner politici".<BR>Il mondo reale somiglia ben poco a questo ritratto<BR>autoreferenziale praticamente copiato dagli anni Ottanta, quando USA <BR>ed Israele cercavano disperatamente di lasciar cadere le offerte di <BR>negoziati ed accordi politici provenienti dall'OLP, attenendosi<BR>alla richiesta di non intraprendere negoziati con l'OLP, di non <BR>avere <BR>alcun "ulteriore Stato palestinese..." (in quanto la Giordania era <BR>già uno Stato palestinese), e "nessun cambiamento nello status<BR>della Giudea, della Samaria e di Gaza, se non in osservanza delle <BR>linee guida basilari del governo [israeliano]" (il piano di <BR>coalizione elaborato nel maggio 1989 da Peres-Shamir, sottoscritto <BR>da <BR>Bush I nel Piano Baker del dicembre 1989). Tutto ciò non ha trovato <BR>spazio nei media mainstream statunitensi, come è sempre avvenuto<BR>regolarmente, mentre, nei commenti, si denunciava la testarda<BR>determinazione dei palestinesi nel perseguire la linea terroristica, <BR>che metteva a repentaglio gli sforzi diplomatici umanitari degli <BR>Stati Uniti e dei loro alleati.<BR>Nel mondo reale, la principale barriera contro cui si scontra questa<BR>"visione emergente" è, e resta, il sistematico rifiuto da parte<BR>degli USA. Vi è ben poco di nuovo nella "storica offerta da parte <BR>della Lega araba", che anzi ribadisce i termini di base di una <BR>Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, sostenuta <BR>praticamente da tutto il mondo, compresi i principali paesi arabi, <BR>l'OLP, l'Europa, il blocco sovietico, insomma da tutti quelli che<BR>contavano. <BR>Ma ha incontrato l'opposizione di Israele e il veto degli USA e <BR>dunque, il veto della storia. La Risoluzione chiedeva un negoziato <BR>politico sui confini riconosciuti a livello internazionale "con <BR>accordi adatti ... a garantire ... la sovranità,<BR>l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di tutti gli Stati<BR>dell'area e il diritto a vivere in pace entro confini sicuri e<BR>riconosciuti" di fatto, una modifica della 242 ONU (così la <BR>interpretavano ufficialmente anche gli Stati Uniti), con un <BR>ampliamento volto a includere uno Stato palestinese. Analoghe <BR>iniziative da parte dei paesi arabi, dell'OLP e dell'Europa<BR>sono sempre state bloccate dagli USA e perlopiù sottaciute o negate <BR>nei commenti pubblicamente disponibili.<BR>Il sistematico rifiuto da parte statunitense risale però a 5 anni <BR>prima, al febbraio 1971, quando il presidente egiziano Sadat propose <BR>ad Israele un trattato di pace completa in cambio del ritiro <BR>israeliano dai territori egiziani occupati, senza neanche sollevare <BR>la questione dei diritti nazionali palestinesi o il destino degli <BR>altri territori occupati. Il governo laburista israeliano riconobbe <BR>che si trattava di un'offerta sincera di pace, ma decise di <BR>rifiutarla, nell'intenzione di estendere i propri insediamenti<BR>verso il Sinai nord-orientale; cosa che ben presto fece, con estrema <BR>brutalità, la causa immediata della guerra del 1973.<BR>Israele e gli Stati Uniti compresero che la pace era possibile, in <BR>accordo con la politica ufficiale statunitense. Ma, come spiegò il <BR>leader laburista Ezer Weizmann (in seguito eletto Presidente), un <BR>simile risultato non avrebbe permesso ad Israele di "esistere nella <BR>misura, nello spirito e nella qualità che attualmente essa<BR>incarna". <BR>Il commentatore israeliano Amos Elon scrisse che Sadat aveva <BR>seminato <BR>il "panico" nella leadership politica israeliana, annunciando la sua <BR>volontà di "entrare in un accordo di pace con Israele e di <BR>rispettarne l'indipendenza e la sovranità `entro confini<BR>sicuri e riconosciuti'".<BR>Kissinger è riuscito a bloccare la pace, facendo prevalere la sua<BR>preferenza per una situazione da lui stesso definita di "stallo": <BR>niente negoziati, solo forza. Le offerte di pace provenienti dalla <BR>Giordania furono anch'esse rigettate. Da allora, la politica <BR>ufficiale degli USA consiste nell'attenersi al consenso <BR>internazionale sul ritiro (fino a Clinton, che ha di fatto abrogato <BR>le Risoluzioni dell'ONU e le osservazioni sul diritto <BR>internazionale); ma all'atto pratico, la politica ha seguito la<BR>linea Kissinger, ossia l'accettazione dei negoziati soltanto sotto<BR>costrizione così come Kissinger stesso era stato costretto ad <BR>accettare i negoziati dopo la quasi-debacle della guerra del 1973, <BR>di <BR>cui egli ha una grossa responsabilità e alle condizioni ben<BR>espresse da Ben-Ami. I piani riguardanti la popolazione palestinese <BR>hanno seguito le linee guida formulate da Moshe Dayan, uno dei <BR>leader <BR>laburisti più aperti nei confronti della questione palestinese.<BR>Dayan propose al governo israeliano di chiarire ai profughi che "non <BR>abbiamo altra soluzione, continuerete a vivere come cani. Chi vuole, <BR>può anche andarsene, e vedremo dove ci porta questo processo". A<BR>chi lo contestava, Dayan rispondeva citando Ben-Gurion, <BR>che "affermava che chiunque si accosti alla problematica sionista da <BR>un punto di vista morale non è sionista". Avrebbe potuto citare <BR>anche <BR>Chaim Weizmann, che sosteneva che il fato delle "diverse migliaia di <BR>neri" abitanti nella patria ebraica "è un fatto di scarsa<BR>importanza".<BR>Non sorprende che il principio ispiratore dell'occupazione sia<BR>un'umiliazione incessante e degradante, oltre alla tortura, al <BR>terrore, alla distruzione delle proprietà, alla cacciata della <BR>popolazione civile per fare spazio agli insediamenti, alla presa di <BR>possesso delle risorse di base, principalmente l'acqua.<BR>Naturalmente, per fare ciò, vi è sempre stato bisogno di un deciso <BR>sostegno statunitense, che si è protratto anche nell'era Clinton-<BR>Barak.<BR>"Il governo Barak sta lasciando un'eredità sorprendente al governo <BR>Sharon", ha scritto la stampa israeliana durante la transizione: "il <BR>più elevato numero di avvii di nuove costruzioni abitative dai<BR>tempi in cui Ariel Sharon era Ministro delle Costruzioni e degli<BR>Insediamenti, nel 1992, prima degli accordi di Oslo". I finanziamenti<BR>provenivano dai contribuenti statunitensi, ingannati da favole <BR>fittizie sulle "vedute" e sulla "magnanimità" dei leader di <BR>Washington, sconfitti da terroristi come Arafat che avevano <BR>deluso "la nostra fiducia", ma forse anche da alcuni estremisti <BR>israeliani che avevano reazioni esagerate davanti a questi crimini.<BR>Cosa debba fare Arafat per riguadagnare la nostra fiducia, ce lo <BR>spiega brevemente Edward Walker, il funzionario del Dipartimento di <BR>Stato incaricato della regione nell'era Clinton. Il subdolo<BR>Arafat deve annunciare senza ambiguità che "Mettiamo il nostro <BR>futuro <BR>e il nostro destino nelle mani degli USA", che peraltro conducono da <BR>trent'anni una campagna per sabotare i diritti dei palestinesi.<BR>Nei commenti più seri, si ammette che la "storica offerta" in <BR>questione ribadisce ampiamente il piano saudita Fahd del 1981 fatto <BR>naufragare, come fu regolarmente affermato, dal rifiuto da parte <BR>araba di accettare l'esistenza dello Stato di Israele. Anche in <BR>questo caso, però, i fatti sono ben diversi. Il piano del 1981 fu <BR>fatto fallire da una reazione israeliana condannata perfino dalla <BR>stampa ufficiale interna come "isterica". Shimon Peres ammonì che<BR>il piano Fahd "minacciava l'esistenza stessa di Israele", mentre il <BR>Presidente Haim Herzog protestò che il "vero autore" del piano<BR>Fahd fosse l'OLP, e che tale piano fosse ancora più estremo della <BR>Risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976,<BR>"preparata" dall'OLP quando Herzog era ambasciatore di Israele<BR>alle Nazioni Unite. Tali affermazioni difficilmente possono essere <BR>vere (anche se l'OLP sostenne pubblicamente entrambi i piani), ma <BR>sono<BR>un indicatore, da parte delle colombe israeliane, confortate per <BR>tutto il tempo dal sostegno deciso ed indefesso degli Stati Uniti, <BR>della paura disperata che si realizzi un accordo politico.<BR>Il problema di base è da ricondursi, allora come oggi, a<BR>Washington, che ha sempre sostenuto il rifiuto da parte di Israele <BR>di <BR>pervenire ad un accordo politico secondo i termini stabiliti <BR>dall'ampio consenso internazionale, e ribaditi in forma essenziale <BR>nella "storica offerta da parte della Lega araba".<BR>Le attuali modifiche nel rifiuto del problema da parte statunitense <BR>sono tattiche e, per ora, di scarsa portata. Visto il pericolo in <BR>cui <BR>versavano i piani per attaccare l'Iraq, gli USA hanno consentito<BR>la ratifica di una Risoluzione dell'ONU in cui si chiedeva il ritiro <BR>degli israeliani dai territori rioccupati, "senza indugio" il che <BR>significa, "appena possibile", come ha subito spiegato il Segretario <BR>di Stato Colin Powell. Il terrorismo palestinese deve <BR>finire "immediatamente", ma il terrorismo israeliano, di gran lunga <BR>più estremo e in azione da 35 anni, può prendersi il tempo di<BR>cui ha bisogno. Israele ha subito prodotto un'escalation<BR>dell'attacco, portando Powell ad affermare: "sono lieto di sentire <BR>che il Primo ministro afferma di star accelerando le operazioni". Si <BR>sospetta da più parti che l'arrivo di Powell ad Israele sia<BR>stato rimandato per consentire che esse "accelerino" ancora di più.<BR>Questa posizione statunitense può benissimo mutare, sempre per <BR>ragioni tattiche.<BR>Gli USA hanno permesso la ratifica di una Risoluzione dell'ONU<BR>che invocava una "visione" di uno Stato palestinese. Questo affabile <BR>gesto, che ha incontrato tanta acclamazione, non arriva però<BR>nemmeno al livello del Sudafrica, quaranta anni fa, quando il regime <BR>dell'apartheid mise realmente in atto la propria "visione",<BR>creando Stati, governati dai neri, fattibili<BR>e legittimi almeno tanto quanto il protettorato neocoloniale che gli <BR>USA e Israele hanno in mente da tempo per i territori occupati.<BR>Frattanto, gli USA continuano ad "agevolare il terrore", per citare <BR>le<BR>parole del Presidente, fornendo ad Israele i mezzi per realizzare <BR>atti di terrorismo e di distruzione, tra cui un nuovo invio di <BR>elicotteri, i più avanzati dell'arsenale statunitense (Robert<BR>Fisk, Independent, 7 aprile).<BR>Si tratta di reazioni tipiche nei confronti delle atrocità<BR>commesse da un regime cliente. Per citare un esempio illuminante, <BR>nei <BR>primi giorni di questa Intifada, Israele usò elicotteri statunitensi <BR>per colpire obiettivi civili, uccidendo dieci palestinesi e <BR>ferendone <BR>trentacinque, il che difficilmente può qualificarsi <BR>come "autodifesa". Clinton rispose con un accordo per "il maggiore <BR>acquisto di elicotteri militari da parte dell'Aeronautica israeliana <BR>negli ultimi dieci anni" (Ha'aretz, 3 ottobre 2001), oltre a<BR>pezzi di ricambio per gli elicotteri da combattimento Apache. La <BR>stampa contribuì rifiutando di riportare questi fatti. Alcune <BR>settimane dopo, Israele iniziò ad usare elicotteri statunitensi <BR>anche <BR>percommettere omicidi. Uno dei primi atti dell'Amministrazione Bush<BR>è stato quello di inviare elicotteri Apache Longbow, i più micidiali<BR>a disposizione. La notizia ha ottenuto una rilevanza marginale, <BR>nelle <BR>pagine di Economia.<BR>L'impegno di Washington ad "agevolare il terrore" ha ricevuto <BR>un'ulteriore illustrazione in dicembre, quando gli USA hanno<BR>opposto il loro veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza per <BR>la messa in atto del piano Mitchell e per l'invio di osservatori <BR>internazionali per monitorare la riduzione delle violenze, il metodo <BR>più efficace, come viene generalmente ammesso, ma osteggiato da <BR>Israele e regolarmente bloccato da Washington. Il veto è stato <BR>opposto in un periodo di ventuno giorni di calma ovvero, era stato <BR>ucciso un solo soldato israeliano, oltre a ventuno palestinesi di cui<BR>undici bambini, e avevano avuto luogo sedici incursioni israeliane <BR>in <BR>aree sotto controllo palestinese (Graham Usher, Middle East <BR>International, 25 gennaio 2002). Dieci giorni prima del veto, gli <BR>USA <BR>hanno boicottato sabotandola una conferenza internazionale a <BR>Ginevra, <BR>che ha concluso ancora una volta che la Quarta Convenzione di <BR>Ginevra <BR>si applica anche ai territori occupati. Pertanto, quasi tutto quello <BR>che USA ed Israele commettono in quell'area rappresenta una<BR>"grave violazione"; un "crimine di guerra", in parole povere. La <BR>conferenza ha dichiarato in modo specifico che gli insediamenti <BR>israeliani, finanziati dagli USA, sono illegali e ha condannato la <BR>prassi rappresentata da "omicidi volontari, torture, deportazioni <BR>illecite, privazione premeditata del diritto ad un processo equo e <BR>regolare, distruzioni estese ed appropriazione <BR>indebita ...realizzati <BR>in modo illegale e sfrenato". Quale parte contraente, gli Stati<BR>Uniti sono obbligati dalla solennità del trattato a perseguire <BR>chiunque commetta tali crimini, anche qualora si trattasse della <BR>loro <BR>stessa leadership. Di conseguenza, tutto ciò viene passato sotto <BR>silenzio.<BR>Gli USA non hanno ritirato ufficialmente il proprio riconoscimento<BR>dell'applicabilità delle Convenzioni di Ginevra ai territori <BR>occupati, né la propria condanna delle violazioni commesse da<BR>Israele in qualità di "potenza di occupazione" (confermata, ad <BR>esempio, da George Bush I quando ricopriva la carica di ambasciatore <BR>alle Nazioni Unite). Nell'ottobre del 2000, il Consiglio di Sicurezza<BR>ribadì la propria unanimità su questo argomento, "esortando Israele, <BR>la potenza di occupazione, ad attenersi scrupolosamente agli <BR>obblighi <BR>sanciti dalla Quarta Convenzione di Ginevra".<BR>La Risoluzione fu approvata con quattordici voti favorevoli e zero<BR>contrari. Clinton si astenne, forse non volendo opporre il veto ad <BR>uno dei principi centrali del diritto internazionale in materia <BR>umanitaria, specialmente alla luce delle circostanze in cui questa <BR>Convenzione fu ratificata: per criminalizzare formalmente le<BR>atrocità dei nazisti. Ma anche tutte queste cose sono state <BR>rapidamente riposte nel dimenticatoio, offrendo così un ulteriore <BR>contributo ad "agevolare il terrore". Finché non si permette a queste<BR>questioni di entrare nella discussione, e finché non se ne <BR>comprendono le implicazioni, è insensato invocare un "impegno <BR>statunitense nel processo di pace", e le prospettive per un'azione <BR>costruttiva sono destinate a rimanere sconfortanti.<BR><BR><BR></TT><BR><!-- |**|begin egp html banner|**| -->
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