[Cerchio] Fw: [RK] L'impero americano non è una tigre di car…

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著者: clochard
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題目: [Cerchio] Fw: [RK] L'impero americano non è una tigre di carta
Mi sembra piuttosto sgangherato, ma forse, proprio x questo, stimolante.
e.


----- Original Message -----
From: "lanfranco caminiti" <lanfranco@???>
To: "rekombinant" <rekombinant@???>
Sent: Tuesday, April 22, 2003 9:31 AM
Subject: [RK] L'impero americano non è una tigre di carta


> L'impero americano non è una tigre di carta. Il fondamentalismo neppure.
> lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]
>
> Per gli osservatori e i commentatori strutturalisti l'obiettivo della
> guerra in Iraq era il petrolio, per quelli sovrastrutturalisti il
> dominio del mondo, per quelli politici l'Europa, per quelli analisti
> strategici la Cina, e per quelli utopisti il movimento di pace. Trovo
> ognuna di queste considerazioni abbastanza fondata e motivata. Ma
> continuo a credere che dopo l'11 settembre il nemico pubblico numero uno
> degli Stati uniti sia il fondamentalismo terrorista.
> Con l'Europa ci potrà essere la guerra delle scarpe o quella dei
> formaggi, forse pure quella dell'acciaio o dei chip, ma all'Europa manca
> il requisito che ne farebbe una potenza alternativa e simmetrica
> all'America: la forza militare. Forse la Cina, un giorno, sarà una
> minaccia all'impero. Forse. Un giorno.
> Dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine di quell'equilibrio del
> terrore basato sulla possibile distruzione nucleare del mondo non è
> rimasta alcuna altra potenza di fronte agli Stati uniti. Ma non è
> rimasto neppure alcun altro equilibrio. L'asimmetria del concetto di
> "potenza" è evidente. Il fondamentalismo islamico incarna a suo modo
> questa asimmetria.
> Il carattere politico di potenza asimmetrica del terrorismo
> fondamentalista a me sembra assolutamente adeguato ai tempi: ha una
> faccia - che a noi occidentali appare pre-moderna - rivolta verso
> l'interno e una faccia - invece del tutto postmoderna - rivolta
> all'esterno [l'uso sapiente dei mass-media, l'uso dei network di banche
> internazionali, l'uso di sistemi di attacco tecnologici e biologici].
> Certo, non ha un territorio, uno spazio definito: e quale mai potrebbe
> essere un ridotto sicuro e imprendibile in un mondo governato
> dall'impero, dove la caccia è aperta sempre? E' un fenomeno che ha
> radici lontane, che si è sviluppato con complicità inimmaginabili e
> inconfessabili, che si è dipanato per il mondo. E' un fantasma, è
> ovunque: la sua minaccia è quotidiana, è continua. E' nei sogni, negli
> incubi. Ha modificato l'immaginario occidentale e americano anzitutto,
> tanto quanto negli anni cinquanta la scoperta della bomba nucleare in
> mano ai russi. Come ha scritto Brian Jenkins, esperto di antiterrorismo:
> "Terrorism is theatre." Qui da noi, non è poco, è quasi tutto.
> L'Europa, come "insieme politico", non ha capito questo e l'America se
> ne irrita oltremodo. L'Europa d'altronde non è il nemico numero uno del
> fondamentalismo, è un effetto collaterale, nella jihad contro gli
> infedeli [gli Usa] e i traditori [i governi arabi e islamici moderati].
> C'è una differenza non piccola rispetto il terrorismo - a esempio - di
> Abu Nidal o di Carlos o d'altri nomi e reti: questi avevano assoluto
> bisogno di "santuari", di campi, di finanziamenti, di ripari. Il
> terrorismo fondamentalista è autodiretto, ha tutti i luoghi di cui ha
> bisogno [le masse arabe] per prolificare e nessun bisogno d'uno "Stato"
> per non essere stanato: può vivere tra le montagne d'un confine o in una
> baracca d'una qualunque megalopoli del mondo: ma può avvalersi di
> "colletti bianchi", imprenditori, manager, broker, capaci di far
> circolare il denaro tra grattacieli, telefoni satellitari, un underworld
> pazzesco dove girano armi nucleari, droghe a tonnellate, denaro sporco
> in quantità inimmaginabili e irrintracciabili, e che creano a loro volta
> alleanze, corruzioni, crepe. E' - per abusare di un'immagine nota a noi
> italiani - una "piovra". Con questo altro terrorismo non ci sarà mai
> modo di trattare.
> La strategia della "guerra preventiva" a me sembra piuttosto dichiarare
> questa evidenza: un affanno dei progetti di dominio americano su un'area
> del mondo e sugli equilibri generali. All'opposto di un senso di
> prevenzione dal pericolo, dell'impedire che quel rischio si trasformi in
> dinamica reale, essa dichiara invece il ritardo rispetto l'esplosione di
> un fenomeno e il raggiungimento di una soglia di pericolo: il
> fondamentalismo si è già esteso, irrefrenabilmente. Impedire la
> saldatura fra Stati arabi dittatoriali o traccheggianti e terrorismo è
> una battaglia già perduta perché inutile. La "guerra preventiva" è in
> realtà una guerra ex-post, "dopo". Per questo, è vero, essa può avere
> qualunque obiettivo, qualunque motivazione [le armi di distruzione di
> massa, esportare la democrazia e la libertà, stabilizzare un'area
> geopolitica, and so on], può essere dichiarata in qualunque momento, al
> di fuori d'ogni diritto internazionale, tanto quanto fuori da ogni
> diritto internazionale s'è posto il terrorismo fondamentalista, l'altra
> "potenza".
> Sta qui buona parte delle motivazioni di chi si oppone alla guerra come
> "metodo": war is not the answear. Ma qual è la politica dell'opinione di
> pace nel mondo per intervenire nei conflitti?
> Non può esservi "guerra fredda" con il fondamentalismo terrorista: la
> jihad è per sua natura senza mediazioni se non quella della forza
> momentanea: a cosa mai può servire la Nato contro il fondamentalismo? E
> a cosa mai può servire l'Onu, un consesso di nazioni, di Stati, di
> rappresentanze, diplomazie? Questa "nuova potenza", il fondamentalismo
> terrorista, non ha Stato, rappresentanza, diplomazia.
> La verità è che il fondamentalismo terrorista è un passo avanti la
> "guerra preventiva": la verità è che, pur dopo l'Afghanistan e l'Iraq,
> il "capitale politico" immagazzinato da Osama bin Laden è pari o
> superiore a quello immagazzinato da Bush.
> Al vecchio slogan "meglio russi che morti" si dovrebbe sostituire
> l'alternativa, a seconda dei luoghi, "meglio americani che morti" oppure
> "meglio musulmani che morti"? Non è una gran opzione, ma è questa la
> tenaglia, lo "stato di emergenza globale".
> Credo che abbiano assolutamente ragione coloro che indicano nella
> volontà di dominio del mondo degli Stati uniti - e nel loro sistema
> economico e militare - l'origine dei mali. Ma credo anche che tutto
> questo non abbia senso "comunque", e avesse più senso "prima", prima
> cioè che una nuova soggettività politica, una nuova "potenza" si
> mostrasse al mondo: ignorarla, considerarla solo una conseguenza è una
> grave ingenuità, non fare i conti con quello che c'è adesso in campo. Lo
> scenario che abbiamo di fronte, almeno per un tempo prossimo, è questo,
> lo "stato di emergenza globale". La sovradeterminazione che esso impone,
> l'espropriazione della politica che esso produce sono devastanti. A meno
> di non volerci costringere a considerare qualunque male politico un male
> minore del potere americano, a meno di non voler reagire di fronte a
> ogni possibile attacco terrorista con un "in fondo se lo meritano",
> qualcosa bisogna inventare.
>
> Ho sfilato pacificamente il 12 aprile, convinto semmai che proprio in
> quel momento si dovesse ancora manifestare. Non avevo uno slogan ma un
> vitalissimo senso di disagio e di inquietudine per come va il mondo: un
> dolore e un timore dentro, che credo ci accompagneranno ancora a lungo:
> sarà generico, ma quello è.
> Per alcuni versi credo sia adesso ancora più vero quanto ha scritto il
> "New York Times", che cioè il movimento mondiale per la pace sia
> un'altra potenza, non l'unica altra dico io. Qui non vale la domanda
> staliniana "Di quante armate dispone?" Una potenza asimmetrica, rispetto
> gli Stati uniti. Tanto quanto è una potenza asimmetrica rispetto il
> terrorismo fondamentalista. Come questo, si basa su sentimenti di massa,
> come questo agisce attraverso network internazionali, un underworld
> pazzesco fatto di piccoli comitati, di volontari, di associazioni, di
> militanti, di internet e di aiuti umanitari, cose minuscole ma in grado
> di mobilitare e spostare opinioni massicce. Come questo, forse, ha una
> sua jihad, irrefrenabile: la trasformazione del mondo in un luogo più
> giusto e sicuro. Asimmetricamente a questo e a quelli, non ha armi. Come
> quelli, gli Stati uniti, forse vuole costituire un "imperium", ma al
> contrario del dominio fondandovi una legge e una morale civile.
> La mia opinabilissima opinione è che il nemico politico principale dei
> movimenti di pace in questo momento sia il fondamentalismo terrorista.
> Dovrebbe essere questo il nemico principale del movimento di pace.
> Stesso nemico per l'impero americano e i movimenti globali di pace
> dunque, ma nessuna possibilità di alleanza: è l'asimmetria stessa che
> impedisce qualsiasi contatto. Ma l'opinione pubblica mondiale percepisce
> oggi gli Stati uniti come il pericolo principale: dunque, stesso nemico
> per il fondamentalismo islamico e i movimenti globali di pace, nessuna
> possibilità di alleanza: è l'asimmetria stessa che impedisce qualsiasi
> contatto.
> C'è un evidente segno di soggezione in questo, del trovarsi in balìa
> dell'incontrollabile. Lo stesso segno di fronte alla volontà di guerra
> dell'impero americano o se domani scoppiasse una bomba nucleare
> portatile terrorista - che so? - in piazza san Pietro a Roma. Io credo
> che, quasi indipendentemente dagli obiettivi della protesta, il segno
> principale delle manifestazioni che si sono svolte nel mondo sia minuto,
> nelle vite individuali: l'assoluto bisogno di sentirsi protagonista,
> partecipe, autorappresentato del proprio stare al mondo. L'enorme
> movimento mondiale per la pace non va però solo "capitalizzato", va
> piuttosto "investito".
> Un movimento occidentale non ha alcuna possibilità di diventare potenza,
> resterà un'opinione - una tigre di carta -, importante ma non
> determinante, non in grado di immaginare un altro mondo [le risorse, la
> produzione, i sistemi di autogoverno, la pace] senza le nuove
> moltitudini arabe e africane.
> Su questo sono assolutamente d'accordo con chi si schiera contro ogni
> relativismo culturale: non è possibile una politica di non-ingerenza,
> non è possibile il gradualismo geopolitico [e razziale] per cui bisogna
> "seguire" il corso delle cose, il nazionalismo, il fondamentalismo, la
> produzione povera, lo scambio delle perline, la delega ecc ecc. E'
> sciocco tanto quanto "esportare" democrazia e neoliberismo nel mondo
> povero, è altrettanto sciocco.
> L'impatto dell'impero americano su queste società e culture sarà pure
> devastante, anzi è devastante, ma come ogni cosa devastante costringe a
> una lacerazione, a un salto storico inimmaginabile.
> Certo, può accadere, anzi accade che questo salto si trasformi in un
> regresso ulteriore, in una privatizzazione spietata, in una
> stratificazione sociale anche peggiore della precedente, come infilare
> in una macchina del tempo intere popolazioni, strapparle dai loro
> riferimenti naturali e proiettarli, nuda vita, in un'accelerazione
> improvvisa.
> Ma vinceranno loro se non si inventa qualcosa, vinceranno loro, se la
> potenza alternativa non diventa potenza reale, capacità di intervenire,
> modificare, attrarre. Vorrei provare a essere diretto: qualcuno dopo
> l'Afghanistan e anche l'Iraq vorrà far proprio lo slogan "Stavano meglio
> quando stavano peggio"?
> La sinistra europea - in sintonia con i propri governi - arranca dietro
> parvenze [l'Onu, la ricostruzione], denunciando le prime mostruosità. E'
> giusto allarmarsi per il "metodo americano", ma dopo i fallimenti e i
> veri e propri orrori degli aiuti allo sviluppo e della cooperazione,
> cosa si propone in alternativa? Perché - e questo è il punto -, quali
> sono i soggetti possibili di una alternativa? Le ong? Suvvia.
> Una opinione pubblica capace di costruire rapporti di forza, di spostare
> soggetti in campo, di costruire alleanze, di trovare referenti e non
> "altre opinioni", ma soggetti differenziati, politicizzati, economici, è
> questo il punto.
> Se c'è una altra potenza vera nel mondo questa è l'emigrazione, la fuga
> da luoghi orribili e insopportabili, l'attrazione verso l'occidente:
> perché è un'attrazione feconda, portatrice di bisogni straordinari di
> cittadinanza e di diritti, di tenacia, di resistenza, di entusiasmo, di
> disponibilità a lottare, tanto quanto a "integrarsi".
> Non sono i poveri del mondo l'altra potenza, un senso generico e
> astratto, direi "cristiano" con rispetto e distanza, ma proprio coloro
> che partono, che fanno una scelta soggettiva, che spezzano catene
> familistiche e tribali, che "lasciano" un mondo verso una frontiera. I
> dissidenti, le comunità all'estero, i rifugiati politici, gli
> intellettuali, i tecnici, le competenze, le abilità, le infrastrutture,
> uomini di fede, o di grande religiosità, di grande cultura o di estrema
> ignoranza, sono questi l'interlocutore d'un movimento di opinione e
> trasformazione globale, perché tramite "verso" i paesi d'origine, leva
> di cambiamento, e tramite d'uno sguardo verso il nostro stesso luogo di
> appartenenza.
> Se non lo fa l'opinione di pace, lo fanno gli americani. Se non lo fa
> l'opinione di pace, lo fa il fondamentalismo.
> La stessa capacità di individuare interlocutori, referenti, gruppi va
> applicata nei confronti della potenza americana: immaginarsi le
> dinamiche politiche dei poteri come un unico blocco è estremista e
> infantile. Anche nel cuore dell'impero vi sono poteri "esiliati".
> Ma qui davvero siamo a mani nude.
>
> Roma, 22 aprile 2003
> ___________________________________________
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