[Cerchio] 1991, l'ecatombe

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     Nel 1991, l'ecatombe
      LE MONDE diplomatique - Marzo 2003



      Beth O. Daponte
      Nel 1991, i mass media occidentali trattavano la guerra del Golfo in
modo da dare l'impressione di un conflitto «pulito», quasi presentabile.
      Il dipartimento della Difesa statunitense offriva all'epoca ai
giornalisti dei briefing che somigliavano a veri e propri show. Per chi non
aveva conosciuto la guerra del Vietnam, le dimostrazioni di Colin Powell,
allora capo di stato maggiore dell'esercito americano, e di Richard Cheney,
allora ministro della difesa, evocavano quei giochi alla scuola elementare
in cui i ragazzini fanno bella mostra dei loro giocattoli militari (1).
      Quello che si fece vedere di meno, fu la vita della popolazione
irachena dopo la guerra. La maggior parte dei giornalisti fatica a scrivere
un «articolo» sulla sorte capitata agli abitanti più vulnerabili di un
paese, soprattutto quando si tratta di bambini e di vecchi con un «eccessivo
tasso di mortalità». L'attualità di questi ultimi mesi ha indotto molte
persone a chiedersi quanti civili siano morti durante la prima guerra del
Golfo. Quella di cui ci avevano detto che era stata una guerra «pulita». La
ricerca che abbiamo effettuato ci ha indotto a «disaggregare» il numero
totale delle vittime irachene in cinque categorie: i civili vittime degli
effetti diretti della guerra, dei suoi effetti indiretti, delle insurrezioni
successive al conflitto; i militari direttamente vittime della guerra e
quelli che sono periti in insurrezioni successive al conflitto.
      La prima categoria è quella a cui si pensa immediatamente. Include sia
i decessi che si verificano allorché le bombe mancano il bersaglio, quando
lo colpiscono ma uccidono anche dei civili, quando dei civili sono colpiti
in sparatorie. Basandoci su testimonianze dirette e su dati iracheni
verificati con testimonianze dirette, abbiamo stimato che in questo modo
siano morti quasi 3.500 civili. Se il computo delle vittime si fosse fermato
qui, sarebbe stato più facile alimentare il mito della guerra «pulita».
      Ma, prima della guerra del 1991, numerosi studi indicavano che la
mortalità dei bambini e dei neonati era calata improvvisamente nel decennio
precedente. Nell'estate 1991, alcuni mesi dopo la sconfitta dell'esercito
iracheno, una équipe di ricercatori interrogò le donne irachene in età
fertile sul destino dei bambini nati dopo il 1985.
      Per ciascuno di loro, queste donne indicarono la data di nascita e,
nel caso, la data di morte. L'analisi di questi dati indicò un tasso di
mortalità infantile nel 1991 (numero di lattanti morti per 1.000 nascite) di
circa 93 per 1.000, invece del tasso del 37 per 1.000 prevedibile se fosse
continuata la tendenza precedente. Il divario tra queste due cifre porta a
calcolare nel 1991 un numero di 111.000 «morti in eccesso», legate agli
effetti indiretti della guerra, che includono gli sconvolgimenti che essa ha
provocato sul piano economico e sociale. Gli esperti militari ci hanno
permesso di stimare il numero di morti nelle altre categorie. Dal gennaio al
marzo 1991 il numero di soldati e ufficiali iracheni morti è compreso fra
49.000 e 63.000 (i bombardamenti dell'Iraq sono iniziati il 17 gennaio 1991,
e l'accordo del cessate il fuoco è stato raggiunto il 3 marzo). Circa 5.000
militari e 30.000 civili (i tre quarti dei quali avevano preso parte alla
lotta contro il regime di Saddam Hussein) sarebbero state vittime di
insurrezioni interne, che si sono verificate dopo la vittoria degli eserciti
della coalizione.
      Con ogni evidenza, il numero di morti per effetto indiretto delle
operazioni militari (sanitari, ad esempio) è stato largamente superiore a
quello delle altre categorie. Queste vittime sono state le più numerose dopo
la guerra. Circa 70.000 morti sarebbero ragazzi al di sotto dei quindici
anni.
      Come spiegare questi decessi? La distruzione delle infrastrutture del
paese ha contribuito in larga misura a questo forte aumento di mortalità. I
civili morti dopo un conflitto armato muoiono in seguito a meccanismi
pressoché identici a quelli che provocano la morte della popolazione dopo un
terremoto, una inondazione o un'altra catastrofe naturale. Nella vita di
tutti i giorni, infatti, la popolazione può ricorrere a infrastrutture che
le permettono di disporre di acqua potabile, di elettricità, riscaldamento,
cibo e di un sistema operativo di distribuzione di medicinali. Una volta
distrutte queste infrastrutture, la vita della popolazione è gravemente
minacciata.
      L'esame di questi dati, riguardanti le vittime della guerra del 1991
mostra che le «leggi della guerra» non hanno tenuto conto dei mutamenti
relativi alla tecnologia militare. La cosiddetta regola della
«proporzionalità» esige che, per proteggere i civili, le operazioni militari
mirino a risparmiare le popolazioni e gli obiettivi civili. Chi prepara un
attacco armato deve prendere tutte le misure necessarie, nella scelta dei
mezzi e dei metodi, per minimizzare il numero di morti e feriti civili e per
evitare di danneggiare le strutture che sono loro indispensabili.
Soprattutto se questi «danni collaterali» sembrano sproporzionati rispetto
al vantaggio militare concreto e diretto che i militari calcolano di
ottenere.
      In generale, tale regola vale soltanto per le vittime civili
direttamente provocate da operazioni belliche. Ma allorché le guerre vengono
condotte in maniera tale che il numero delle vittime di questa categoria
sembra limitato durante il periodo degli scontri armati, soltanto per
esplodere numericamente una volta terminato il conflitto, bisogna contestare
la regola abituale. Lo stesso dicasi per il «calcolo» - il confronto fra il
vantaggio militare ottenuto e il numero di vittime civili, dirette e
indirette, legate ai mezzi utilizzati (2). Peraltro, le sanzioni economiche
penalizzano i civili in modo tale che vengono a costituire una estensione
del concetto di guerra, e quindi devono essere valutate anch'esse in questa
luce. Sappiamo comunque che quando fallisce la diplomazia, a soffrire sono
soprattutto i civili.




      note:


      * Ricercatrice alla Carnegie Mellon University (Stati uniti).
Demografa presso il ministero del Commercio Usa, Beth Daponte è stata
licenziata nel 1992 allorché sul problema delle vittime civili della guerra
del Golfo, contraddisse Richard Cheney, allora ministro della difesa.
      In seguito, ha scritto numerosi articoli documentati su questo tema,
tra cui «A Case Study of the Impact of Sanctions on the Health of Civilians:
Sanctions Against Iraq Prior to the 1991 Persian Gulf War», che fu
pubblicato nell'aprile 2000 dall'American Journal of Public Health
      (1) Si legga Ignacio Ramonet, «La télé loin des fronts», Serge Halimi,
«Des médias en tenue camouflée» e John Berger «Guerre et mensonges», Le
Monde diplomatique, rispettivamente febbraio, marzo e aprile 1991.


      (2) Si legga René Dumont, «La population irakienne punie par
l'embargo», Le Monde diplomatique, dicembre 1991, e Alain Gresh «La muta
agonia dell'Iraq», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 1999.
(Traduzione di R. I.)