[Lecce-sf] Fw: [ba ro news] (#129B) Considerazioni sull'Iraq…

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Szerző: Cinzia Nachira
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Sent: Saturday, April 19, 2003 5:37 PM
Subject: [ba ro news] (#129B) Considerazioni sull'Iraq e il futuro del
movimento...


...di G. Achcar da "Liberazione" del 19/4/2003



Riproduciamo da "Liberazione" di oggi anche la bella LETTERA A CHI PENSA CHE
LA GUERRA HA VINTO E NOI ABBIAMO PERSO di Gilbert Achcar, dato che abbiamo
constato empiricamente che purtroppo molti compagni, anche del PRC, non
comprano tutti i giorni il giornale, che pure è notevolmente migliorato
negli ultimi tempi, ed è diventato uno strumento utilissimo per le nostre
battaglie contro la guerra e per i diritti. Ci scusiamo con i lettori più
fedeli di "Liberazione", che comunque potranno risparmiarsi di stampare
questa parte di Bandiera Rossa News.

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LETTERA A CHI PENSA CHE LA GUERRA HA VINTO E NOI ABBIAMO PERSO
Gilbert Achcar*

Caro/a amico/a,
non mi sembra giustificata la delusione che hai manifestato venendo a
conoscenza del tracollo del regime iracheno. Naturalmente, posso capirla:
quel che soprattutto ti rattristava è stato che quel tracollo abbiano
permesso di esultare ai falchi di Washington e di Londra. Così, si è
riusciti a presentare una guerra semicoloniale, condotta dal tandem
Bush-Blair (chiamiamoli pure "B2", gli si addice: è un nome da bombardiere!)
contro la chiara volontà della maggioranza dell'opinione pubblica mondiale,
come una "guerra di liberazione", animata da motivazioni democratiche.
Effettivamente, fa rabbia!
Ricordati, però, delle previsioni che avevamo formulato da mesi e mesi, e
che erano in sintesi:
1) per "B2" la cosa più semplice sarebbe stata rovesciare il regime di
Saddam Hussein, che non avrebbero fatto fatica ad abbattere; le vere
difficoltà cominciavano dopo;
2) si permettono di sfidare l'opinione pubblica di vari paesi perché fanno
assegnamento sullo spettacolo delle folle irachene felici di essersi
liberate di Saddam Hussein, tanto è aborrita (giustamente) la dittatura
baasista;
3) "B2" sono degli avventuristi, giocatori che si impegnano nella guerra in
base a una scommessa sullo scenario più favorevole: puntano sul recupero
dell'essenziale dell'apparato statale iracheno, in particolare l'esercito;
puntano sul fatto che si ribelli a Saddam e sulla possibilità di poterlo
utilizzare per controllare il paese sotto la loro supervisione; ma la cosa
più probabile è che l'intervento - che comincerà con il tentativo di
eliminare Saddam Hussein e con l'occupazione dei campi petroliferi
iracheni - comporterà il crollo dell'apparato statale e sfocerà in un caos
immane, segnato da sanguinosi regolamenti di conti.
Queste ipotesi hanno avuto conferma. Nulla di quel che è avvenuto avrebbe
dovuto, in sostanza, coglierti di sorpresa: era tutto prevedibile. Prendiamo
in esame gli avvenimenti degli ultimi giorni:

1. La vittoria
Da un lato, una "coalizione" tra la principale potenza militare del mondo,
che assorbe da sola il 40% delle spese militari mondiali, e una grande
potenza vassalla; dall'altro lato, uno Stato del terzo mondo il cui esercito
è stato per i due terzi distrutto nel 1991, con quel che restava che ha
subito l'erosione del tempo, sottoposto a un embargo che ha impedito la
manutenzione del materiale, con in più parecchi anni di disarmo sotto
l'egida dell'Onu. Come stupirsi, allora, della sconfitta del regime
iracheno?
Questo regime aveva già subito una schiacciante sconfitta nel 1991, con lo
sfaldamento del dispositivo iracheno in Kuweit e nel Sud dell'Iraq. Vero è
che, questa volta, l'obiettivo di Washington era prendere le città e
occupare l'intero territorio: un obiettivo di certo difficile da realizzare.
Al contempo, però, quello che Washington si è assunto l'impegno di
conquistare è un paese ormai dissanguato, stremato da oltre venti anni di
guerre, di bombardamenti e di embargo. E, ieri come oggi, al potere, a
Bagdad, c'era un regime baasista odiato dalla stragrande maggioranza della
popolazione irachena: perché aspettarsi la mobilitazione popolare, in
condizioni del genere?
A sorprendere, in realtà, non è stata la rapida vittoria delle truppe
anglo-statunitensi, bensì la resistenza opposta dalle truppe del regime nei
primi giorni dell'offensiva. Ricordalo: in quei giorni tutti i commenti
convergevano nel prendersi gioco delle promesse di una rapida vittoria.
Molti erano convinti che l'impantanamento preannunciato nel 1991 alla fine
si sarebbe realizzato. Ma questo significava ingannarsi sulle ragioni della
resistenza dei primi giorni. Essa dipendeva dal fatto che l'offensiva
terrestre è stata lanciata contemporaneamente alla massiccia campagna aerea,
mentre nel 1991 Washington aveva sottoposto l'esercito iracheno a più di
cinque settimane di pazzeschi bombardamenti prima di impegnare le truppe di
terra. Per questo, le forze del regime erano ancora disposte a combattere
quando è cominciata l'offensiva di terra - ben più che non nel 1991, quando
coloro che erano scampati ai bombardamenti erano stanchi e inebetiti, e si
erano quindi arresi in massa ai soldati della coalizione.
Questo, tra l'altro, ha riguardato le sole forze del regime. Confondere quel
che è avvenuto in Iraq con una vera resistenza popolare, confondere la
difesa di Bagdad da parte delle forze del regime con la difesa popolare di
Beirut assediata dall'esercito israeliano nel 1982, significava ingannarsi
pesantemente sia sulle prospettive della guerra sia sulla natura del
rapporto della popolazione irachena con il regime di Saddam Hussein. La
principale falla nel piano del Pentagono, del resto, è stato il fatto che i
bombardamenti "opportunistici" del primo giorno dell'offensiva hanno mancato
il bersaglio: Saddam Hussein. Ed è probabile che il celere sfaldamento della
difesa di Bagdad sia stato direttamente suscitato dalla fine del comando di
Saddam Hussein, sia stato questi ucciso dalle bombe o si sia volutamente
eclissato. In una dittatura così accentrata e personalizzata, basta
eliminare il dittatore perché crolli il regime, se sottoposto a una forte
pressione.

2) La reazione della popolazione

Perché stupirsi del respiro di sollievo e della gioia della popolazione
irachena all'annuncio del crollo della dittatura? Io stesso, pur non avendo
mai condiviso la sorte della popolazione irachena, ho provato un vero e
proprio sollievo all'annuncio della fine del regime. La dittatura baasista
irachena è giunta al potere nel luglio del 1968, mentre io ero in piena fase
di radicalizzazione, come buona parte della mia generazione in varie zone
del mondo. La principale priorità del nuovo regime fu quella di schiacciare
l'espressione irachena di quella radicalizzazione, il cui catalizzatore era
stata la sconfitta dei regimi arabi, di fronte all'aggressione israeliana
del giugno 1967.
Il focolaio di guerriglia inaugurato nel Sud iracheno dal guevarista Khaled
Ahmed Zaki, nonché la scissione di sinistra del partito comunista iracheno,
furono spietatamente schiacciati dal regime di terrore instaurato a Bagdad.
Ben presto i nuovi golpisti si sono guadagnati la fama di dirigenti del più
feroce dei regimi dell'area: i militanti iracheni sapevano che era meglio
morire affrontando armi in pugno i soldati del regime che farsi arrestare e
morire sotto una tortura insuperabile per atrocità. Il regime basista ha
schiacciato, nel sangue e nell'orrore, la sinistra irachena, la principale
componente della sinistra araba. Esso ha contribuito così, a suo modo, a
predisporre il terreno per l'egemonia dell'integralismo islamico nella
contestazione popolare regionale. Di tutte le dittature che sono state
paragonate a Hitler da mezzo secolo a questa parte, chi somiglia di più
all'originale è sicuramente Saddam Hussein: non solo dal punto di vista
delle caratteristiche interne del regime, ma anche da quello della volontà
espansionistica, sorretta da un maniacale accecamento megalomane.
Erano trentacinque anni che aspettavo e auspicavo la caduta di questo regime
esecrando! Per cui ho provato sollievo quando ho saputo che era crollato.
Come milioni di iracheni e di irachene. Detto questo, neanche il sollievo
della popolazione irachena è stato sorprendente; era del resto del tutto
prevedibile. Quel che è stato sorprendente, perlomeno per Washington e
Londra, è l'accoglienza tiepida, spesso intrisa di ostilità, riservata ai
loro soldati dalla popolazione araba irachena, incluso in quel Sud sciita
che pensavano fosse dalla loro parte.
Neppure questo è difficile da capire. Quel che non avevano colto Washington
e Londra è che questa popolazione, che ha tanti motivi per odiare Saddam
Hussein, ne ha ancora di più per odiare loro: gli iracheni ricordano come la
coalizione li abbia consegnati a Saddam Hussein nel 1991; subiscono ancora
le conseguenze di dodici anni di embargo genocida imposto da Washington e
Londra, con la complicità dei loro partner al Consiglio di Sicurezza
dell'Onu; e non potrebbero mai accogliere da liberatori gli Stati Uniti, il
principale oppressore della regione nonché sponsor dello Stato di Israele,
in compagnia del colonizzatore britannico della vigilia, che ha lasciato di
sé un esecrabile ricordo.
Questo ha notevolmente contenuto le manifestazioni di gioia della
popolazione irachena, e Washington è stato costretto a ricorrere agli
artifici della propaganda per dare l'impressione che le truppe della
coalizione anglo-statunitense fossero accolte dalla popolazione come
"liberatrici". Se sono state tali, lo sono state per i predatori, quelli che
avevano maggiori motivi per trovare "Bush very good" con il loro bottino
sottobraccio, quei ladri di cui i soldati americani hanno volutamente
"liberato" gli istinti, per ordine di un comando che credeva di premunirsi
in quel modo dall'ostilità popolare, finendo così per accrescerla
ulteriormente (l'unico edificio pubblico saldamente custodito a Bagdad è
stato il ministero del Petrolio, così come le uniche zone dell'Irak "messe
in sicurezza" sono stati i campi petroliferi). La nuova invasione si è resa
responsabile del saccheggio di Bagdad, che rimarrà nella memoria storica
come l'equivalente moderno del sacco di questa città nel XIII secolo, al
momento dell'invasione mongola.
L'unica frangia della popolazione irachena che si sia alleata con le truppe
di occupazione e che abbia manifestato in massa la propria gioia per la loro
presenza è la popolazione kurda; eterna miopia delle direzioni del Kurdistan
iracheno che, una dopo l'altra, hanno tanto spesso puntato su pessimi
alleati: Israele, lo scià di Persia, il potere turco, i mullah iraniani ed
anche Saddam Hussein! Non sono state tanto furbe da evitare di
compromettersi con una forza di occupazione destinata a diventare oggetto
del risentimento della popolazione araba irachena, l'unica alleata che conti
veramente per il futuro del kurdistan iracheno. Sarebbe catastrofico per il
futuro che le direzioni kurde confermassero la propria immagine di devoti
partner delle potenze occupanti, che non hanno la minima intenzione di
difendere il diritto del popolo kurdo all'autodecisione, né esiterebbero a
sacrificare i kurdi iracheni, se ne avessero bisogno, per imporre il loro
controllo sul paese.

3) Controllo dell'Irak e dominio mondiale

I ladruncoli delle città irachene hanno ormai straordinariamente complicato
il compito dei grandi ladroni delle potenze occupanti. Ogni giorno che passa
prova quanto sarà difficile per "B2" controllare l'Iraq, di fronte a una
popolazione che li odia cordialmente. E non saranno quel truffatore di Ahmed
Chalabi e i pochi suoi mercenari che l'esercito statunitense si è portato
dietro nei camion a modificare l'andazzo.
Il problema degli Stati Uniti è che - ben più che nella Germania e nel
Giappone del dopo-1945, in cui hanno riutilizzato interi pezzi dell'apparato
statale del vecchio regime (vedi l'imperatore giapponese) - troveranno in
Irak come strumenti, deboli, solo i superstiti dell'apparato di Saddam
Hussein. Solo i responsabili del vecchio regime possono avere - in
parecchi - la bassezza morale richiesta per mettersi devotamente al servizio
dell'occupazione. Solo loro saranno disposti a servire i nuovi padroni del
paese con un ardore tanto maggiore in quanto potranno così salvarsi la
pelle, pur mitigando la propria sete di potere. E questo renderà ancora più
detestabile l'occupazione agli occhi della stragrande maggioranza del popolo
iracheno.
Espandendo sempre più la propria presenza nella regione araba, gli Stati
Uniti "sovraespongono" i propri soldati. L'odio da essi suscitato
nell'insieme dei paesi del Medio Oriente e, ben oltre, nell'insieme del
mondo musulmano, è già scoppiato loro in mano a più riprese, con l'11
settembre 2001 che ne è solo la manifestazione più spettacolare e micidiale,
finora. L'occupazione dell'Iraq avrà l'effetto di esacerbare al massimo il
generale risentimento: accelererà la putrescenza dell'ordine regionale
mantenuto da Washinton. Non vi sarà pax americana, ma un passo in più nella
china verso la barbarie, quella di fondo degli Stati Uniti e dei suoi
alleati, che alimenta la controbarbarie del fondamentalismo religioso (e,
questo, finché non emergeranno nuove forze progressiste in quella parte del
mondo).
Il progetto di costruire un impero mondiale dominato dagli Stati Uniti
tramite la forza bruta è inesorabilmente destinato a fallire. Per questo
aspetto, Washington ha già subito pesanti rovesci politici, contrariamente
all'impressione che può per il momento suscitare la sua vittoria militare in
Iraq. Mai, dalla fine della "guerra fredda", l'egemonia statunitense è stata
tanto contestata nel mondo, mai è mancato così tanto il consenso intorno a
questa egemonia. È quanto è avvenuto al livello delle relazioni
interstatuali: mai sono stati così grandi il brontolio e la fronda di Stati
considerati da Washington alleati affidabili. Lo stesso potere turco si è
rifiutato di concedere il transito di divisioni statunitensi sul proprio
territorio. Washington non è riuscito a comprarlo, così come non è riuscito
a comprare un sufficiente numero di membri del Consiglio di Sicurezza
dell'Onu per ottenere nove voti per la sua guerra all'Iraq!
Certo, gli Stati esistenti non sono alleati affidabili del movimento
antiguerra, e neppure suoi alleati tout-court (specie quando, come la
Francia e la Russia, si comportano anch'essi, nell'ambito del proprio
dominio imperiale, in maniera altrettanto brutale e detestabile degli Stati
Uniti). Tuttavia, questa cacofonia nel sistema degli Stati associati al
grande impero dominato da Washington ha rappresentato a suo modo il riflesso
dell'altro grande rovescio subito dal progetto imperiale. Si tratta,
naturalmente, dell'emergere di quell'altra superpotenza che è l'opinione
pubblica mondiale, come ha ben rilevato il New York Times all'indomani delle
manifestazione del 15 febbrai 2003, la principale giornata mondiale di
mobilitazione popolare che la storia ricordi. L'opinione pubblica mondiale
(o meglio il movimento concreto, il movimento contro la guerra, visto che i
sondaggi non manifestano).
Negli anni Novanta si è potuto pensare che questo movimento fosse condannato
a non superare più la soglia della sua grande debolezza. Si è potuto pensare
che le conquiste degli anni del Vietnam fossero ormai sostanzialmente
sepolte, soprattutto perché Washington ne aveva tratto gli insegnamenti
principali e li applicava nelle sue nuove guerre, a partire da quella di
Panama (1989). Ora, dall'autunno 2002, abbiamo assistito all'ascesa
impetuosa di un nuovo movimento contro la guerra, che ha superato ben presto
i record storici in vari paesi e ha coinvolto gli stessi Stati Uniti. Si
tratta di un dato assolutamente fondamentale, perché la mobilitazione più
decisiva è, naturalmente, quella che si svolge proprio negli Stati Uniti:
qui, il movimento contro la guerra non ha ancora raggiunto il livello del
suo apogeo degli anni del Vietnam, ma ha già il considerevole merito di
avere raggiunto un livello di massa, nonostante l'effetto traumatico dell'11
settembre e il modo in cui l'amministrazione Bush ha sfruttato quell'evento.
Le ben selezionate immagini della sedicente "liberazione" dell'Iraq, le
messe in scena del Pentagono, hanno impressionato molti/e
oppositori/oppositrici alla guerra. Ogni giorno che passa, però, dimostra
quanto avesse ragione il movimento antiguerra. Gli innumerevoli morti, le
massicce distruzioni, il saccheggio delle ricchezze nazionali, sono l'enorme
tributo imposto al popolo iracheno da una "liberazione" che sfocia
nell'occupazione straniera. L'impantanamento di Washington - in un paese che
non si può celare agli sguardi del mondo, come oggi si nasconde
l'Afghanistan, più che mai in preda al caos - consentirà al movimento contro
la guerra di rilanciarsi verso nuove vette.
La stessa spettacolare crescita di questo movimento è stata possibile solo
perché si basava su tre anni di crescita del movimento mondiale contro la
globalizzazione neoliberista, nato a Seattle. Le due dimensioni del
movimento continueranno ad alimentarsi scambievolmente e a consolidare la
consapevolezza che il neoliberismo e la guerra sono le due facce di uno
stesso sistema di dominio - da rovesciare. [Traduzione di Titti Pierini]

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La redazione di Bandiera Rossa News
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