[Cerchio] L'America renitente alla guerra

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Autor: Tuula Haapiainen
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Betreff: [Cerchio] L'America renitente alla guerra
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From: "clochard" <spartacok@???>
To: <movimento@???>; <cerchio@???>;
<libertari@???>
Sent: Thursday, April 17, 2003 1:32 AM
Subject: [Cerchio] L'America renitente alla guerra


> dal Manifesto, quotidiano (anti)comunista


^^^ ma quando mai!! :-(
come lo dimostri?
t
>
>
> L'America renitente alla guerra
> Tutte le guerre americane hanno prodotto movimenti di protesta ma solo di
> uno conserviamo ancora memoria. Quello per il Vietnam
>
>
>
> MICHAEL S. FOLEY
>
>
>
> Nel corso degli ultimi anni - mentre l'amministrazione Bush marciava
> risoluta verso il conflitto contro l'Iraq - negli Stati uniti cresceva il
> movimento contro la guerra preventiva. Un movimento al quale i media
> americani hanno riservato una scarsa attenzione e che è stato

completamente
> ignorato dall'Amministrazione. Prestare attenzione alle proteste contro la
> guerra, ha detto il presidente Bush dopo la marcia del 15 febbraio scorso

a
> New York, è come decidere una politica «in base a un gruppo di

discussione».
> Solo a guerra già iniziata - e con l'intensificarsi delle proteste - al
> movimento è stata dedicata una più ampia copertura giornalistica: non
> benevola, però, considerate le accuse di tradimento e di mancato «sostegno
> alle truppe». Quanto all'amministrazione, ha continuato a snobbarlo: i
> padroni di questa guerra hanno imparato molto dagli errori dei loro
> predecessori e certamente Bush, Cheney, Rumsfeld hanno imparato molto

anche
> dalla massima che Herman Goering pronunciò al processo di Norimberga:
> «Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra... ma dopo tutto, sono

i
> capi di stato a determinare la politica, ed è sempre semplice trascinare

la
> gente, si tratti di una democrazia, o di una dittatura fascista, o di un
> parlamento, o di una dittatura comunista. La gente può sempre essere

portata
> a fare ciò che vogliono i leader. Questo è facile. Tutto ciò che bisogna
> fare è dire loro che qualcuno li sta attaccando, e accusare i pacifisti di
> mancanza di patriottismo e di voler esporre il paese al pericolo. Funziona
> nello stesso modo in tutti i paesi».
>
> L'amministrazione Bush riesce a «trascinare la gente» in parte grazie ai
> grandi media - che non svolgono una funzione critica - ma anche perché gli
> americani hanno una scarsa memoria storica. E' facile dipingere il

dissenso
> come aberrante quando la maggior parte degli americani crede che il solo
> precedente storico del movimento contro la guerra in Iraq sia stato quello
> tanto spesso demonizzato nella cultura popolare: il movimento contro la
> guerra in Vietnam.
>
> Se gli americani conoscessero meglio la loro storia, saprebbero che tutte

le
> guerre americane hanno prodotto movimenti di protesta. Durante la
> Rivoluzione americana, almeno un terzo (se non la metà) della popolazione
> era contraria all'indipendenza. Il dissenso contro la guerra del 1812
> diventò così acceso che gli stati del New England presero seriamente in
> considerazione la secessione dall'Unione. Negli anni '40 dell'Ottocento,
> quando gli Stati uniti attaccarono il Messico, nacque un importante
> movimento contro la guerra - scaturito principalmente da quello contro la
> schiavitù - del quale fecero parte figure del calibro di Henry David
> Thoreau, John Quincy Adams e un membro del Congresso dell'Illinois che si
> chiamava Abraham Lincoln.
>
> E ancora: nel corso della Guerra civile americana, specialmente nel nord,

le
> proteste contro la leva militare obbligatoria divennero violentissime; il
> conflitto del 1898 contro la Spagna - e la repressione del movimento di
> indipendenza delle Filippine che ne seguì - scatenarono la protesta di

tutte
> le classi della società americana. Allo stesso modo, nel 1917, l'ingresso
> dell'America nella I guerra mondiale determinò un importante movimento
> trasversale contro il conflitto costituito da gruppi di professionisti

della
> middle class e attivisti della working class che si battevano per i

diritti
> dei lavoratori e che erano contrari alla leva obbligatoria.
>
> Il dissenso crebbe a tal punto che il governo mise in atto un ampio

sistema
> di spionaggio e varò leggi sulla sedizione che - in tempo di guerra -
> privavano la gente comune del diritto di parola.
>
> Sebbene l'attacco a sorpresa su Pearl Harbor, insieme alla minaccia del
> fascismo, avesse creato un ampio consenso intorno alla politica di

Roosvelt,
> comunque le proteste ci furono: in particolare contro l'internamento dei
> nippo-americani e i bombardamenti di Dresda e di altre città tedesche.

(...)
>
> Nonostante tutti questi precedenti storici, sembra che l'attuale movimento
> contro la guerra possa essere giudicato solo confrontandolo con quello
> contro il conflitto in Vietnam. Si tratta di un raffronto poco corretto:
> quella in Vietnam è stata la guerra più lunga della storia americana e -
> persino nel momento della sua massima escalation - pochi americani

sarebbero
> stati in grado di dire com'era cominciato l'intervento statunitense. E'
> anche la sola guerra che gli Usa abbiano perso.
>
> E tuttavia ancora oggi i no-war hanno molto da imparare dal movimento che

si
> oppose alla guerra del Vietnam.
>
> In primo luogo, durante quella guerra, fu la stessa Casa Bianca a
> determinare le condizioni della protesta: nel 1967, un numero crescente di
> soldati americani - arruolati soprattutto tra i poveri, tra la

working-class
> e le minoranze - tornarono a casa nelle bare. E così ad allarmarsi furono
> anche i sostenitori della guerra.
>
> I reporter di guerra fecero entrare nelle case americane parole e immagini
> che contribuirono ad accrescere il senso di crisi: quelle, per esempio,

dei
> civili vietnamiti sotto attacco, spesso scambiati per il nemico dai

soldati
> americani - essi stessi spesso all'oscuro dell'obiettivo più ampio della
> loro missione. La follia di dover «distruggere un villaggio per salvarlo»
> non sfuggiva a larghi settori dell'opinione pubblica americana.
>
> Ma finora nella guerra americana all'Iraq, queste condizioni sono state
> largamente assenti. La leva non è più obbligatoria e l'esercito è formato
> interamente da volontari che il Pentagono riesce a dipingere come un corpo
> militare professionale, motivato e patriottico. Inoltre - secondo il

modello
> già sperimentato nella prima guerra del Golfo che spostava i combattimenti
> soprattutto nei cieli dell'Iraq, e con la grande stampa americana ben
> stretta al guinzaglio - nelle case dei telespettatori sono entrate ben

poche
> sono state le immagini delle vittime civili causate dagli eccessi
> dell'aviazione americana.
>
> In queste condizioni opporsi alla guerra diventa più difficile ma ancor

più
> essenziale, e sarebbe bene ricordare gli anni perduti del 1964-1967. Dopo
> l'«incidente» della guerra del Tonkino nell'agosto 1964, l'amministrazione
> Johnson condusse una guerra contro l'Asia sud-orientale per tre anni,

senza
> preoccuparsi granché dell'opinione pubblica o dei movimenti di protesta.
> Solo quando, nell'autunno del 1967, ebbe inizio la resistenza alla leva
> obbligatoria - con migliaia di cartoline di precetto rispedite al

mittente -
> Johnson cominciò a prestare attenzione al movimento contro la guerra. E
> ordinò a Lewis Hershey, direttore dell'ufficio reclute, di convocare i
> renitenti al servizio di leva affidando al ministro della giustizia,

Ramsey
> Clark, il compito di avviare un'azione penale nei loro confronti. Ma,
> soprattutto, fece rientrare negli Usa il generale William Westmoreland
> perché avviasse una campagna di propaganda durante la quale il comandante
> americano assicurò ripetutamente il paese: c'era «una luce alla fine del
> tunnel». Due mesi dopo, quando i nord-vietnamiti e i Viet Cong lanciarono
> l'offensiva del Tet, la credibilità di Johnson ne uscì a pezzi e il
> movimento contro la guerra poté incassare il suo primo successo.
>
> Il punto è che ci vollero tre anni perché l'opposizione - che intanto
> cresceva e assumeva varie forme - ottenesse dei risultati. Per tre anni,

gli
> americani scrissero lettere di protesta ai membri del Congresso, ai

senatori
> e al presidente. Tennero sit-in e dimostrazioni come quelle che si

svolsero
> a New York, San Francisco e Washington. Anche se tutto ciò fu molto
> importante per far crescere un consenso di base per porre fine alla

guerra,
> ancor più determinante fu il fatto che in quei tre anni morirono migliaia

di
> americani e centinaia di migliaia di vietnamiti.
>
> Nell'attuale guerra all'Iraq, il movimento contro la guerra non ha a
> disposizione tre anni. In questa guerra ciò che conta è porre subito la
> questione. Le lettere, le petizioni, le dimostrazioni e le marce a cui
> abbiamo assistito finora - non importa quanto riuscite - sono state di

nuovo
> ignorate. E' necessario intensificare il lavoro. Immediatamente.
>
> Innanzitutto, è particolarmente importante informare la popolazione
> americana. Per contrastare l'informazione acritica dei grandi media sulla
> guerra, il movimento deve restare «sul messaggio»: deve fare del popolo
> iracheno l'equivalente odierno delle donne e dei bambini vietnamiti

bruciati
> col napalm; deve trasmettere il messaggio che la guerra è illegale,

immorale
> e che certamente causerà altri devastanti attacchi terroristici sul suolo
> statunitense.
>
> Ma una campagna di informazione non basta. Dobbiamo concepire un piano di
> disobbedienza civile contro la guerra a livello nazionale - un equivalente
> dei sit-in per i diritti civili degli anni Sessanta o del rifiuto di
> prestare il servizio militare all'epoca del Vietnam. Se c'è qualche

speranza
> di spostare l'opinione pubblica, chi si oppone alla guerra deve essere
> disposto ad andare in carcere, deve essere disposto, secondo il memorabile
> appello di Mario Savio, a gettare il proprio corpo su tutti gli ingranaggi

e
> le leve della macchina bellica. Quando, molte settimane fa, è cominciato

il
> bombardamento su Baghdad finalmente negli Usa si sono verificati atti di
> disobbedienza civile, specialmente a San Francisco, Chicago e New York. A
> San Francisco, più di mille persone sono state arrestate durante la prima
> settimana di guerra, e svariate centinaia sono state arrestate a Chicago e
> New York.
>
> Ad oggi, questa disobbedienza civile ha preso di mira il governo, i media

e
> quanti fanno affari con la guerra. Tali obiettivi non sono facilmente
> recepiti dal pubblico più ampio che il movimento spera di rendere più
> consapevole. Per farlo, deve continuare le marce, le dimostrazioni e la
> disobbedienza civile ma in forme e pratiche che le rendano comprensibili e
> condivisibili dall'opinione pubblica. E questo deve accadere in tutto il
> paese. Nei campus, dove ci sono istituti di ricerca per la difesa

nazionale;
> ovunque ci siano imprese che hanno contratti con il Pentagono; in ogni
> grande città dove ci siano edifici federali e uffici di reclutamento delle
> forze armate; nella capitale dove ci sono la Casa Bianca, il Dipartimento

di
> Stato e il Pentagono: ovunque dobbiamo essere disposti a rischiare
> l'arresto.
>
> La chiave di qualunque successo sarà la disciplina. Perché sappiamo dalla
> storia, e le ultime settimane ce lo confermano, che questo movimento
> incontrerà l'ostilità dei funzionari pubblici, della stampa, e di molti
> nostri concittadini. Verremo liquidati come pacifisti svitati e trattati
> alla stregua di traditori. Ma è possibile portare i media dalla nostra
> parte, ad esempio non «concedendo» loro immagini stereotipate come quelle
> dei black block. Se il movimento seguirà l'esempio di quello per i diritti
> civili, se continuerà a praticare la nonviolenza senza tentennamenti,

allora
> riuscirà - riusciremo - a farci sentire.
>
> Chi è nauseato da questa guerra ora sa come deve essersi sentito Norman
> Morrison nel 1965 quando, di fronte al preponderante consenso alla guerra

in
> Vietnam di Lyndon Johnson, si dette fuoco davanti all'ufficio del ministro
> della difesa McNamara al Pentagono. Senza dubbio fu spinto dalla
> frustrazione per la mancanza di un movimento organizzato. Non poteva
> aspettare due o tre anni. Neanche noi.
>
>
>
> per cancellarsi dalla lista, andare su

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