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DAL PIÙ FORTE PC D'OCCIDENTE AL PIÙ MODERATO FRA I PARTITI SOCIALDEMOCRATICI
DAL PIÙ FORTE PC D'OCCIDENTE AL PIÙ MODERATO FRA I PARTITI SOCIALDEMOCRATICI
Ds, l'ossessione centrista
17/4/2003 La Stampa
APPARENTEMENTE segnato da una contrapposizione tra «destra» e «sinistra»
sempre più aspra, il sistema politico italiano è in realtà attraversato da
una crescente attrazione verso il centro. A destra questo è un fenomeno noto
e ricorrente, ma anche a sinistra il vento del centrismo soffia robusto e
ancora recentemente Michele Salvati ha auspicato «un grosso partito con
leadership autorevole sul versante di centro della coalizione, un partito
che possa strappare una buona fetta di elettori moderati a Forza Italia...
spostando verso il centro l'asse della coalizione». L'ossessione centrista
viene da lontano e segna una delle più vistose continuità tra la frammentata
sinistra di oggi e il vecchio, monolitico Pci togliattiano. Questa è la tesi
ripresa nell'ultimo libro di Isaia Sales (Riformisti senz'anima. La
sinistra, il mezzogiorno, gli errori di D'Alema, L'Ancora del Mediterraneo,
2003), una testimonianza preziosa sia perché viene dall'interno dei Ds, sia
perché usa il Sud come osservatorio privilegiato, restituendoci così uno
sguardo insolito sull'intero decennio della transizione italiana apertasi
con Mani Pulite. Questa lunga fase si è conclusa (elezioni del maggio 2001)
all'insegna di una stabilizzazione moderata con assetti politici nettamente
spostati a destra. Non era scontato che finisse così. Al Sud, ci ricorda
Sales, fra il giugno e il dicembre 1993 si verificò il più vasto cambiamento
di classi dirigenti locali e di ceto politico che si ricordi negli ultimi 50
anni. Nelle amministrative del 1997 quasi tutti i sindaci eletti nel 1993
furono confermati con consensi quasi plebiscitari; «l'uccisione di Falcone e
Borsellino fu come una scossa elettrica: il momento di più alta e più
intensa autocoscienza della società civile meridionale...». Mentre al Nord
il crollo della Dc e del Psi liberava i soggetti sociali che affollavano le
file turbolente della Lega, anche il Sud, che avrebbe dovuto essere l'ultimo
avamposto del «vecchio partito della spesa pubblica», sembrava scegliere la
strada di una decisa rottura con il passato. Quei fermenti si indirizzarono
«naturalmente» verso sinistra; nella stessa Lega, i soggetti che allora
vennero definiti «i tristi delle aree tristi» (e che comprendevano anche
spezzoni del vecchio blocco sociale comunista) portavano esigenze di rottura
non più riassorbibili nella tradizionale politica consociativa del Pci.
Quella stagione sembra ormai lontanissima: al Nord leghista normalizzato da
Berlusconi si affianca un Sud in cui gli slanci della società civile si sono
stemperati fino a scomparire in una nuova edizione della consueta
aspettativa di protezione e tutela dello Stato. «La verità», scrive Sales,
«è che nel Sud nessuna tensione morale, civile e culturale regge nel lungo
periodo se la base economica non si consolida e se non vengono risultati sul
piano occupazionale e sociale». In preda a una vera «ossessione
istituzionale», la sinistra ha anteposto il «malessere politico della parte
più sviluppata del paese» al «malessere sociale» della parte più arretrata;
una volta al governo (dal 1996) tutti i suoi sforzi sono stati concentrati
sulle riforme istituzionali (la Bicamerale, la legge Bassanini, la riforma
federalista) lungo un percorso al cui interno «la sinistra non si toglie di
dosso l'identificazione con lo Stato e con il suo cattivo funzionamento e,
al tempo stesso, si lega indissolubilmente alla difesa del sistema partitico
così com'è al punto di trasformarsi nel partito per antonomasia, facile
bersaglio per tutti i vizi che l'italiano medio a esso attribuisce». Alle
spalle di tutto questo c'è ancora la vecchia ansia di legittimazione del
Pci, quello togliattiano ma anche quello di Berlinguer che, nella seconda
metà degli anni 70, si «fece Stato» troppo voracemente e troppo
frettolosamente. Per Togliatti un'alleanza doveva essere «un blocco», ogni
conflitto poteva essere una «lacerazione»; già nel linguaggio c'era una
sorta di «pedagogia autoritaria» della politica alimentata da una sfiducia
radicale verso tutto quello che si muoveva fuori delle sedi istituzionali:
la centralità dei partiti si coniugava così con la ricerca assillante
dell'incontro «storico» con quelli che fisiologicamente avrebbero dovuto
essere i propri avversari. D'Alema ha sostanzialmente ripreso questa linea,
fino a identificare «nel centro sinistra allargato a Cossiga e Mastella
l'idea di aver portato finalmente a compimento l'incontro tra Dc e Pci...».
Quello di Sales è chiaramente un paradosso, ma con ampie tracce di verità:
oggi, dal tronco del più grande partito comunista dell'Occidente è nato il
più moderato dei partiti socialdemocratici europei. Ritornando al Sud, il
ripristino dello status quo non è quindi una «questione meridionale»; da un
lato la sinistra ha pervicacemente difeso la politica dei partiti, guardando
con arcigna diffidenza tutto quello che emergeva spontaneamente nella
cosidetta «antipolitica»; dall'altro, proprio quando sembrava cogliere i
frutti della rottura, ha scelto una linea di sostanziale continuità con il
vecchio sistema politico. Così, l'ala più riformista e moderata del Pci è
quella che maggiormente stenta a prendere le distanze dalla tradizione
togliattiana. In questa ottica, l'attrazione fatale che esercita il centro
può agevolmente essere letta come nostalgia del consociativismo, quasi che
il «governo dal centro» sia la sola strada percorribile per un popolo
«geneticamente» capace di vivere il conflitto politico soltanto nella
dimensione delle risse municipalistiche, della disgregazione o addirittura
della guerra civile.