[Cerchio] L'America renitente alla guerra

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Author: clochard
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Subject: [Cerchio] L'America renitente alla guerra
dal Manifesto, quotidiano (anti)comunista


L'America renitente alla guerra
Tutte le guerre americane hanno prodotto movimenti di protesta ma solo di
uno conserviamo ancora memoria. Quello per il Vietnam



MICHAEL S. FOLEY



Nel corso degli ultimi anni - mentre l'amministrazione Bush marciava
risoluta verso il conflitto contro l'Iraq - negli Stati uniti cresceva il
movimento contro la guerra preventiva. Un movimento al quale i media
americani hanno riservato una scarsa attenzione e che è stato completamente
ignorato dall'Amministrazione. Prestare attenzione alle proteste contro la
guerra, ha detto il presidente Bush dopo la marcia del 15 febbraio scorso a
New York, è come decidere una politica «in base a un gruppo di discussione».
Solo a guerra già iniziata - e con l'intensificarsi delle proteste - al
movimento è stata dedicata una più ampia copertura giornalistica: non
benevola, però, considerate le accuse di tradimento e di mancato «sostegno
alle truppe». Quanto all'amministrazione, ha continuato a snobbarlo: i
padroni di questa guerra hanno imparato molto dagli errori dei loro
predecessori e certamente Bush, Cheney, Rumsfeld hanno imparato molto anche
dalla massima che Herman Goering pronunciò al processo di Norimberga:
«Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra... ma dopo tutto, sono i
capi di stato a determinare la politica, ed è sempre semplice trascinare la
gente, si tratti di una democrazia, o di una dittatura fascista, o di un
parlamento, o di una dittatura comunista. La gente può sempre essere portata
a fare ciò che vogliono i leader. Questo è facile. Tutto ciò che bisogna
fare è dire loro che qualcuno li sta attaccando, e accusare i pacifisti di
mancanza di patriottismo e di voler esporre il paese al pericolo. Funziona
nello stesso modo in tutti i paesi».

L'amministrazione Bush riesce a «trascinare la gente» in parte grazie ai
grandi media - che non svolgono una funzione critica - ma anche perché gli
americani hanno una scarsa memoria storica. E' facile dipingere il dissenso
come aberrante quando la maggior parte degli americani crede che il solo
precedente storico del movimento contro la guerra in Iraq sia stato quello
tanto spesso demonizzato nella cultura popolare: il movimento contro la
guerra in Vietnam.

Se gli americani conoscessero meglio la loro storia, saprebbero che tutte le
guerre americane hanno prodotto movimenti di protesta. Durante la
Rivoluzione americana, almeno un terzo (se non la metà) della popolazione
era contraria all'indipendenza. Il dissenso contro la guerra del 1812
diventò così acceso che gli stati del New England presero seriamente in
considerazione la secessione dall'Unione. Negli anni '40 dell'Ottocento,
quando gli Stati uniti attaccarono il Messico, nacque un importante
movimento contro la guerra - scaturito principalmente da quello contro la
schiavitù - del quale fecero parte figure del calibro di Henry David
Thoreau, John Quincy Adams e un membro del Congresso dell'Illinois che si
chiamava Abraham Lincoln.

E ancora: nel corso della Guerra civile americana, specialmente nel nord, le
proteste contro la leva militare obbligatoria divennero violentissime; il
conflitto del 1898 contro la Spagna - e la repressione del movimento di
indipendenza delle Filippine che ne seguì - scatenarono la protesta di tutte
le classi della società americana. Allo stesso modo, nel 1917, l'ingresso
dell'America nella I guerra mondiale determinò un importante movimento
trasversale contro il conflitto costituito da gruppi di professionisti della
middle class e attivisti della working class che si battevano per i diritti
dei lavoratori e che erano contrari alla leva obbligatoria.

Il dissenso crebbe a tal punto che il governo mise in atto un ampio sistema
di spionaggio e varò leggi sulla sedizione che - in tempo di guerra -
privavano la gente comune del diritto di parola.

Sebbene l'attacco a sorpresa su Pearl Harbor, insieme alla minaccia del
fascismo, avesse creato un ampio consenso intorno alla politica di Roosvelt,
comunque le proteste ci furono: in particolare contro l'internamento dei
nippo-americani e i bombardamenti di Dresda e di altre città tedesche. (...)

Nonostante tutti questi precedenti storici, sembra che l'attuale movimento
contro la guerra possa essere giudicato solo confrontandolo con quello
contro il conflitto in Vietnam. Si tratta di un raffronto poco corretto:
quella in Vietnam è stata la guerra più lunga della storia americana e -
persino nel momento della sua massima escalation - pochi americani sarebbero
stati in grado di dire com'era cominciato l'intervento statunitense. E'
anche la sola guerra che gli Usa abbiano perso.

E tuttavia ancora oggi i no-war hanno molto da imparare dal movimento che si
oppose alla guerra del Vietnam.

In primo luogo, durante quella guerra, fu la stessa Casa Bianca a
determinare le condizioni della protesta: nel 1967, un numero crescente di
soldati americani - arruolati soprattutto tra i poveri, tra la working-class
e le minoranze - tornarono a casa nelle bare. E così ad allarmarsi furono
anche i sostenitori della guerra.

I reporter di guerra fecero entrare nelle case americane parole e immagini
che contribuirono ad accrescere il senso di crisi: quelle, per esempio, dei
civili vietnamiti sotto attacco, spesso scambiati per il nemico dai soldati
americani - essi stessi spesso all'oscuro dell'obiettivo più ampio della
loro missione. La follia di dover «distruggere un villaggio per salvarlo»
non sfuggiva a larghi settori dell'opinione pubblica americana.

Ma finora nella guerra americana all'Iraq, queste condizioni sono state
largamente assenti. La leva non è più obbligatoria e l'esercito è formato
interamente da volontari che il Pentagono riesce a dipingere come un corpo
militare professionale, motivato e patriottico. Inoltre - secondo il modello
già sperimentato nella prima guerra del Golfo che spostava i combattimenti
soprattutto nei cieli dell'Iraq, e con la grande stampa americana ben
stretta al guinzaglio - nelle case dei telespettatori sono entrate ben poche
sono state le immagini delle vittime civili causate dagli eccessi
dell'aviazione americana.

In queste condizioni opporsi alla guerra diventa più difficile ma ancor più
essenziale, e sarebbe bene ricordare gli anni perduti del 1964-1967. Dopo
l'«incidente» della guerra del Tonkino nell'agosto 1964, l'amministrazione
Johnson condusse una guerra contro l'Asia sud-orientale per tre anni, senza
preoccuparsi granché dell'opinione pubblica o dei movimenti di protesta.
Solo quando, nell'autunno del 1967, ebbe inizio la resistenza alla leva
obbligatoria - con migliaia di cartoline di precetto rispedite al mittente -
Johnson cominciò a prestare attenzione al movimento contro la guerra. E
ordinò a Lewis Hershey, direttore dell'ufficio reclute, di convocare i
renitenti al servizio di leva affidando al ministro della giustizia, Ramsey
Clark, il compito di avviare un'azione penale nei loro confronti. Ma,
soprattutto, fece rientrare negli Usa il generale William Westmoreland
perché avviasse una campagna di propaganda durante la quale il comandante
americano assicurò ripetutamente il paese: c'era «una luce alla fine del
tunnel». Due mesi dopo, quando i nord-vietnamiti e i Viet Cong lanciarono
l'offensiva del Tet, la credibilità di Johnson ne uscì a pezzi e il
movimento contro la guerra poté incassare il suo primo successo.

Il punto è che ci vollero tre anni perché l'opposizione - che intanto
cresceva e assumeva varie forme - ottenesse dei risultati. Per tre anni, gli
americani scrissero lettere di protesta ai membri del Congresso, ai senatori
e al presidente. Tennero sit-in e dimostrazioni come quelle che si svolsero
a New York, San Francisco e Washington. Anche se tutto ciò fu molto
importante per far crescere un consenso di base per porre fine alla guerra,
ancor più determinante fu il fatto che in quei tre anni morirono migliaia di
americani e centinaia di migliaia di vietnamiti.

Nell'attuale guerra all'Iraq, il movimento contro la guerra non ha a
disposizione tre anni. In questa guerra ciò che conta è porre subito la
questione. Le lettere, le petizioni, le dimostrazioni e le marce a cui
abbiamo assistito finora - non importa quanto riuscite - sono state di nuovo
ignorate. E' necessario intensificare il lavoro. Immediatamente.

Innanzitutto, è particolarmente importante informare la popolazione
americana. Per contrastare l'informazione acritica dei grandi media sulla
guerra, il movimento deve restare «sul messaggio»: deve fare del popolo
iracheno l'equivalente odierno delle donne e dei bambini vietnamiti bruciati
col napalm; deve trasmettere il messaggio che la guerra è illegale, immorale
e che certamente causerà altri devastanti attacchi terroristici sul suolo
statunitense.

Ma una campagna di informazione non basta. Dobbiamo concepire un piano di
disobbedienza civile contro la guerra a livello nazionale - un equivalente
dei sit-in per i diritti civili degli anni Sessanta o del rifiuto di
prestare il servizio militare all'epoca del Vietnam. Se c'è qualche speranza
di spostare l'opinione pubblica, chi si oppone alla guerra deve essere
disposto ad andare in carcere, deve essere disposto, secondo il memorabile
appello di Mario Savio, a gettare il proprio corpo su tutti gli ingranaggi e
le leve della macchina bellica. Quando, molte settimane fa, è cominciato il
bombardamento su Baghdad finalmente negli Usa si sono verificati atti di
disobbedienza civile, specialmente a San Francisco, Chicago e New York. A
San Francisco, più di mille persone sono state arrestate durante la prima
settimana di guerra, e svariate centinaia sono state arrestate a Chicago e
New York.

Ad oggi, questa disobbedienza civile ha preso di mira il governo, i media e
quanti fanno affari con la guerra. Tali obiettivi non sono facilmente
recepiti dal pubblico più ampio che il movimento spera di rendere più
consapevole. Per farlo, deve continuare le marce, le dimostrazioni e la
disobbedienza civile ma in forme e pratiche che le rendano comprensibili e
condivisibili dall'opinione pubblica. E questo deve accadere in tutto il
paese. Nei campus, dove ci sono istituti di ricerca per la difesa nazionale;
ovunque ci siano imprese che hanno contratti con il Pentagono; in ogni
grande città dove ci siano edifici federali e uffici di reclutamento delle
forze armate; nella capitale dove ci sono la Casa Bianca, il Dipartimento di
Stato e il Pentagono: ovunque dobbiamo essere disposti a rischiare
l'arresto.

La chiave di qualunque successo sarà la disciplina. Perché sappiamo dalla
storia, e le ultime settimane ce lo confermano, che questo movimento
incontrerà l'ostilità dei funzionari pubblici, della stampa, e di molti
nostri concittadini. Verremo liquidati come pacifisti svitati e trattati
alla stregua di traditori. Ma è possibile portare i media dalla nostra
parte, ad esempio non «concedendo» loro immagini stereotipate come quelle
dei black block. Se il movimento seguirà l'esempio di quello per i diritti
civili, se continuerà a praticare la nonviolenza senza tentennamenti, allora
riuscirà - riusciremo - a farci sentire.

Chi è nauseato da questa guerra ora sa come deve essersi sentito Norman
Morrison nel 1965 quando, di fronte al preponderante consenso alla guerra in
Vietnam di Lyndon Johnson, si dette fuoco davanti all'ufficio del ministro
della difesa McNamara al Pentagono. Senza dubbio fu spinto dalla
frustrazione per la mancanza di un movimento organizzato. Non poteva
aspettare due o tre anni. Neanche noi.