Trovato in altra lista, rigiro
Ciao,paolo.
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La vita è breve e gli uomini creature stupide (traduzione di un
comunicato dell'ISM)
Era uno scudo umano
di Billie Moskona-Lerman
(una giornalista israeliana si associa agli attivisti di ISM [International
Solidarity Movement] a Rafah e descrive la sua esperienza di 24 ore)
La morte dell'attivista Rachel Corrie, schiacciata a morte mentre stava
cercando di fermare un bolldozer della IDF [Israeli Defence Force], è stato
il motivo per cui Billie Moskona-Lerman è andata al campo rifugiati di Rafah
e a passare 24 ore nel posto più miserabile della striscia di Gaza. Un posto
dove gli spari non si fermano mai, dove pallottole fischiano presso le
finistre, i muri sono coperti di macchie di sangue, case che si trasformano
in rovine e persone che camminano per le strade scalze e disperate. In un
raro documento umano lei descrive il suo incontro con la morte.
Con queste parole, il supplemento di fine settimana del giornale Ma'ariv
(28/3/03) ha presentato ai suoi lettori un resoconto, dando una sbirciatina
alla vita quotidiana palestinesi che è assai raro nei media importanti
israeliani.
Ho visitato l'inferno e sono tornata in un solo pezzo. E' successo nella
notte tra giovedì e venerdì della settimana scorsa [20-21 marzo] quando ho
accompagnato Joe e Laura, due attivisti ventenni, a fare lo scudo umano
davanti all'IDF. Quando loro mi chiesero se volevo associarmi a loro e disse
"sì", non resi conto in pieno di quello in cui stavo per inficiarmi.Era la
mia prima esperienza di stare sotto tiro: così vicina alla morte, così
anonima, mia vita così facilemente abbandonata alle mani di qualcun'altro.
Non mi sono mai sentita così debole, così indifesa. Dissi "vengo" e siamo
partiti. Erano le 19:30. Camminammo lungo la strada principale di Rafah, un
paese che in fatti è solo un grande campo dei rifugiati. Camminammo nel
buio, attraverso rovine, buche e pozzanghere, pezzi strappati di nylon e di
plastica, filo spinato e mucchi di spazzatura. Qua e là qualche negozio era
aperto. Gruppi di giovanotti camminavano attorno a noi gridando "Salaam
Alekum, Salaam Alekum".
All'improvviso, uno di loro raccolse una pietra e la tirò a noi. La pietra
cadde vicino a noi. Joe e Laura non furono molto turbati. "Rappresentiamo
per loro la cultura americana che loro odiano" disse Laura.
Sapeva vagamente che andavamo verso il confine con l'Egitto. Camminammo
verso l'ultima casa nella ultima fila di case di Rafah. La casa di Muhammad
Jamil Kushta. Ad un certo punto, dopo dieci minuti di camminare a passo
svelto in strade deserte, ci infilammo in una viuzza stretta in fondo alla
quale si vedeva una grande colonna. Quando l'avvicinammo potei vedere che
era un'alta torre di guardia.
Arrivati vicina alla torre, Joe e Laura alzarono le mani in alto e mi
intimarono di fare la stessa cosa. Feci quello che mi chiesero e camminai
verso la torre di guardia con le mani alte sopra la testa, a passo svelto,
ma non troppo, attraverso la viuzza deserta. I nostri vestiti erano di un
arancione fluorescente e con strisce argentee per farli ancora più evidenti
nella notte. Joe aveva un grosso megafono in una mano e un grande telo
fosforescente nell'altra. 20 metri dalla torre potevamo vedere, nonstante il
buio totale, che avevamo una fortificazione importante davanti a noi - un
posto delle forze israeliane sul confine tra Rafah ed Egitto.
Pochi passi prima della torre, Laura mi spinse all'improvviso verso
un'entrata piccola e buia e sussurrò "presto, è qui". Entrai tastando la
strada con mio piede, con gli occhi chi gradualmente si aggiustavano alla
vista di un alto corridoio buio. Cinque passi e mi sbattei contro un blocco
di cemento. Passando sotto di esso, salii dieci scalini al cui estremità vi
era una porta.
Un piccolo bussare e la porta si aprì rivelando la faccia sorridente di
Muhammad Kushta. In piedi nella porta e sorridendo mi sentii consolata che
la dannata camminata era finita e che eravamo arrivati da qualche parte che
somigliasse ad una casa ospitale. Non mi ero resa conto di che tipo di notte
mi aspettasse. Non aveva la più pallida idea.
Muahmmad Jamil Kushta, cui casa siamo venuti a difendere, aprì la porta per
trovarsi davanti due giovani attivisti che stavano passando le notti a casa
sua da qualche settimana, e una donna che si presentò come una giornalista
francese. La giornalista francese ero io; in quel momento nessuna sapeva che
io fossi un'israeliana da Tel Aviv. "Tfatdal, Tfatdal" disse lui aprendo la
porta, il saluto accompagnato dalla sua giovane moglie Nora e la piccola
Nancy nelle braccia. Erano già le otto meno un quarto. Eravamo seduti a
terra vicino alla piccola stufa quando, all'improvviso, il tutto iniziò. Un
rumore, che a mie orecchie sembrò molto molto vicino, un rumore rullante, un
rumore assordante, un rumore che sembrava l'inferno. Era la prima volta
quella notte che la casa si trovò sotto fuoco, e la prima volta che io mi
trovai sotto fuoco. Comminciai a tremare. Mio corpo intero stava tremando.
Il rumore stava rotolando come una serie di fuochi d'artificio giganti.
Spari, spari, spari. Capii che è così che si presenta l'incontro con la
morte. Con la prima raffica, Jamil spostò di poco la sua tazza di tè.
Su e giù, su e giù. Nora tenne stretta Nancy. Joe e Laura andarono dalla
piccola Ibasan che dormiva nell'angolo della stanza e suo frattello, il
piccolo Jamil, e si inchinarono sopra di loro. Durò mezz'ora, e dopo un'ora
e mezzo il mio corpo stava ancora tremando. Ma non mi ero ancora resa conto
che era solo l'inizio.
Guardai senza parole Jamil che mi spiegò: "Succede così ogni notte. Da due
anni e mezzo". "A che cosa sparono?" chiesi. "All'aria", scrollò le spalle.
"Perché?" "Per paura", disse semplicemente. "Sono impauriti anche loro, soli
lì nel buio. Sono molto giovani". "Perché non proti i tuoi figli da qualche
altra parte, lontano da qui?" chiesi dopo aver messo la voce sotto
controllo. "Non ho soldi", rispose. "Non ho soldi per un'altra casa.Ogni
centesimo che avevo, l'ho investito in queste mura, e anche così mi sono
indebitato."
Un gioco pericoloso
Non è per caso che da qualche settimana Joe e Laura passano le notti nella
casa di Jamil. E' l'ultima casa nella fila di case di fronte al confine
egiziano. Circa venti metri, forse meno, dalla casa l'IDF ha costruito una
fortificazione alta, distrutto tutte le case a destra e a sinistra e
stazionato fucili, carri armati e mortai puntati verso la città.
E' per questo che Laura e Joe stanno dormendo nella casa di Jamil. Questa è
la prossima casa nella lista di quelle da demolire. Non esiste modo per
Jamil e per gli attivisti sapere in anticipo quando i militari arriveranno a
questa casa con carri armati e bulldozer D-9 - e sarà il compito di Laura e
Joe cercare di impedire all'IDF di avvicinarsi alla casa. Laura e Joe sono
membri dell'ISM, Movimento Internazionale di Solidarietà, un gruppo di
attivisti che oppone l'occupazione israeliana tramite azione diretta
non-violenta. Sono giovani, laureati politicamente motivati - pacifisti
estremi e molto determinati.
Il loro proposito è di impedire ai militari da danneggiare i civili. Ogni
notte, all'iniziare del coprifuoco, si infilono nelle case della prima fila,
quelle che sono più espsote agli spari dalle postazioni militari. Si vestono
di cose fosforescenti e portano i megafoni. In mezzo a sparatorie, o davanti
ai bulldozer dell'IDF, emergono dalle case leggendo, in inglese, i testi
delle convenzioni internazionali e bloccono i soldati quando arrivano a
sparare, bombardare o demolire case. Fino alla settimana scorsa ha
funzionato. Loro parlavano, avvertivano, urlavano, bloccavano i bulldozer
con i loro corpi - e sempre l'esercito si ritirò. Domenica, 17 marzo, tutte
le scommesse sono perse. Quello che successe ha trovato spazio su tutti i
media del mondo e causò una tempesta. Un giovane donna, attivista per i
diritti umani, è stata ammazzata schiacciata da un bolldozer dell'IDF. Si
chiamava Rachel Corrie, aveva 23 anni, e Joe Smith registrò i suoi ultimi
momenti.
Lui la vide affrontare il bulldozer, come era sua abitudine, cercando di
stabilire un contatto con il soldato che lo pilotava. Un secondo dopo lei
non si vedeva più. Un gioco di gatto e topo è come descrivono i membri del
gruppo dei diritti umani il gioco a cui stanno giocando con il bulldozer D-9
dell'IDF. Quando un bulldozer si avvicina ad una casa che è stata segnata
per la distruzione, loro si siedono, indossando i loro vestiti
fosforescenti, sul mucchio di terra sul fronte gigantesco esteso del
bulldozer, parlando, con il megafono, al soldato seduto dietro il parabrezzo
di vetro opaco e rinforzato. Stare in piedi sul fronte del bulldozer
richiede mantenere un equilibrio molto delicato, e arriva il momento in cui
si può cadere indietro. Fino al giorno in cui Rachel Corrie fu ammazzata, i
soldati non avevano spinto a tal punto.
Si sono sempre fermati e tornati indietro un minuto prima che questo potesse
succedere. Ma quella domenica, il soldato che pilotava il bulldozer non si
fermò al momento critico e Rachel morì. Le foto di Joe Smith documentano,
stadio per stadio, il piegarsi di Rachel alla morte. Come un uccello grande
e forte che vola nel cielo, viene colpito, si stringe e lentamente cade a
terra per diventare un piccolo mucchio attorcigliato. Qui c'è una foto di
Rachel in piedi, determinata, davanti al bulldozer, qui lei sta sul mucchio
di terra. E qui lei sparisce, sta distesa a terra, sua bocca aperta come se
cercasse di dire qualcosa. Alice si piega su di lei (dopo, Alice racconterà
che quella che disse con le sue ultime forze era: "mia schiena è rotta"),
lei raccoglie le sue gambe, il corpo giace come un sacco senza vita. Rachel
è morta.
Dopo sua morte, Rachel divenne una Shahid (martire). Da tutto il mondo, i
media sono stati chiamati a intervistare il gruppo di giovani, che erano
otto ed ora erano rimasti in sette. Ed era così che ero arrivata anch'io.
Una breve chiamata dal mio editore, un contatto al checkpoint di Erez, un
taxi, un fotografo palestinese da Gaza, e istruzioni enfatiche dal contatto:
"nessuno deve sapere che sei israeliana. Da ora in poi sei una giornalista
francese - punto."
Un morte terribile
Ho passato 24 ore con il gruppo. Ore pazze, molto paurose, ore di paura e di
apprensione in cui sentii alle estremità nervose un cuore che batteva
selvaggemente e mutande bagnate. Capii che cosa vuol dire vivere con la
morte 24 ore al giorno. Una morte terribile. Con fucili, carri armati, e
bulldozer puntati sulla tua casa, il tuo soggiorno, la tua cucina, la tua
camera da letto, il tuo balcone. Nessun modo per difenderti e nessun posto
dove scappare. A mezzanotte, nella casa di Jamil, di fronte a blindati che
sparavono e sentendo che quelli realmente potevano essere i mie ultimi
momenti, decisi di scoprire le mie carte. Mi infischiai delle istruzioni a
non esporrmi perché Hamas e Tanzim e tutti gli altri mi potevano ammazzare
senza avvetire. Con una sensazione di finalità profonda disse
all'improvviso: "Signore e signori, vi devo dire la vertià. Sono una
giornalista israeliana da Tel Aviv." Ci fu un momento di silenzio, poi Jamil
sorrise e cominciò a parlare in ebraico corrente:
"Benvenuta, benvenuta, Ahalan va'sahalan [saluto araba che diventò parte del
gergo ebraico]. Ho vissuto per quattro anni in via Sokolov in Herzlia. Ero
il tagliatore di shawarma nel ristorante Mifgash Ha'Sharon. Ho anche
lavorato in via Abba Eban a Netanya e all'Hotel Hod a Herzlia Pituach.
Quello chi piaceva di più era il gelato alla ciliegia al ristorante Little
Tel Aviv. E' ancora aperto?" Piogge di munizione caddero su di noi in quella
singola notte. Una sola notte, per me. La sparatoria continuò senza
interruzione dalle ore 1:30 alle ore 4:15, quasi alba.
Solo allora si calmò. I miei denti non smisero da battere. "E' molllto
vicino" era l'unica cosa che riuscii a dire per quattro ore consecutive.
Jamil e Nora, con i loro tre bambini, cercarono di calmarmi. "I soldati ci
conoscono, sanno che siamo puliti. Ti sembra così vicino perché stanno
sparando al muro vicino a noi." "Allora non sparano sulla tua casa?" chiesi
con un enorme scoppio di speranza. "Ah, qualche volta lo fanno. Guarda ai
buchi da pallottole". Alzo la testa e guardo ai lati. Il soffitto è pieno di
buchi, i muri laterali sono tagliati. Così anche il muro della cucina vicino
al rubinetto, vicino alla tavola, nel toilet, un centimetro dai letti dei
bambini. Alcuni buchi sono stati riempiti. Ogni notte, finita la sparatoria,
Jamil chiude i buchi con cemento bianco. I muri sono un "patchwork", e se
hai il coraggio di avvicinarti alla finestra puoi vedere che la casa di
Jamil e Nora è circondata da rovine su tutti i lati.
Tutti sono scappati, solo lui è rimasto perché non ha i soldi per portare
via la sua famiglia da qui. Le pallottole fischiano e Jamil prepara per la
famiglia insalata e omelette e pane pita in un forno tabun tradizionale. Le
pallottole fischiano e noi stiamo mangiando. Con un buon appetito. Ci
pieghiamo ogni volta che la sparatoria sembra di avvincinarsi troppo. E'
incredibile come persone possono abituarcisi, penso. Un settimana fa, Jamil
prese una grossa penna nera e scrisse su un cartone: "Soldati, per favore
non sparate. Ci sono bambini che dormono qui". Lo scrisse in grosse lettere
ebraiche e Rachel Corrie si era arrampicata sul muro esterno per appenderlo.
Ora la faccia di Rachel appare su un poster palestinese di martiri sulla
finestra del soggiorno. Jamil sorride tristemente e dice a me e ai miei
denti battenti e alle mie mani chiuse strette e mio cuore selvaggemente
battente: "Cosa possiama fare? Quando Allah decide che è arrivata la nostra
ora, noi muoriamo. E' tutto nelle mani di Allah." Non mi rassicura.
Un estraneo tra noi
Avevo vissuto 24 ore nelle città rovinata e distrutta di Rafah. "Campo di
Rafah" come la chiamano abitanti ed internazionali. Più delle volte, le
persone che incontrai non sapevano che fossi israeliana. E' importante
notare questo, perché le parole che udii e le conversazioni che condussi non
facevano parte di un ping-pong israeliano-palestinese. Nessuno cercò di
accusarmi, convincermi o di farmi capire qualcosa che non aveva capito
precedentemente. Per quanto li riguardava, ero una giornalista europea.
Durante quelle 24 ore, feci cose che potrebbero essere descritte come
correre un terribile, irresponsabile rischio, non degno di una persona della
mia età. Ciò nonstante, sono contenta che l'ho fatto. Mi sento ora che non
sono la stessa persona che ero prima di entrare Rafah. Una persona può
invecchiare parecchio in sole 24 ore. Ora capisco anche meglio perché la
guerra affascina tanti uomini. Nessun'altra esperienza umana, per quanto
eccitante, può far scorrere tanta adrenalina nelle vene. Ma ero
principalmente interessata a capire come è vivere lì più di un giorno. Il
mio cammino era iniziato a Tel-Aviv alle ore 8:30, con il tassista simpatico
ed amichevole Yehuda Gubali che mi offrii acqua e gomma da masticare. Era
curioso di sapere cosa cercassi al Checkpoint Erez, dimenticato da Dio, di
una mattinata così bella. Gli dissi la verità: dovevo incontrare le persone
di ISM. "Ah, leggo nei giornali di quella ragazza, come si chiama, che è
morta e fammi dire la verità, sono contento che sia morta. Chi è questo
piccolo rompiscatole che viene dall'america per interferire con i nostri
affari? In piedi sul bulldozer, veramente! non sorprende che sia finita
sotto. Che imparino una lezione. Che è loro paese?"
Il cielo era grigio quando attraversai il confine a Erez dopo aver firmato
il documento del Portavoce dell'Esercito dichiarando che assumevo piena
responsabilità per quello che mi poteva succedere dall'altra parte. Passai
l'ultimo bunker, agitai la mano ai soldati, e mi fermai vicino al filo
spinato ad aspettare il mio accompagnatore palestinese, Talal Abu Rahma.
Abu Rahma scattò la foto che simbolizza l'intifida attuale più di qualsiasi
altra foto: la morte del bambino Muhammad Al-Dura nelle braccia di suo padre
nella sparatoria tra soldati israeliani e palestinesi armati.
In questi giorni, Abu Rahma, che vive a Gaza e lavora per reti stranieri, è
un uomo molto impegnato. E' la mia guida ufficiale e la prima cosa che dice
è: "Da questo momento in poi, nemmeno una parola in ebraico. Nemmeno il
fotografo deve sapere che sei israeliana. Da questo momento sei una
giornalista francese." Con queste parole in mente, salgo in una macchina
diretta a Campo di Rafah, ad un'ora e mezzo di distanza. Corriamo lungo la
strada costale tutta rotta nella direzione di Khan Yuneis e Rafah.
"Vedi questi alberghi e ristoranti? C'era una volta che erano tutti felici,
pieni di vita. Ora tutto è ignorato, rotto, abandonato." Al checkpoint di
"Abu Huly", vicino all'insediamento israeliano di Gush Katif, ci fermiamo.
Aspettiamo il permesso dei soldati a procedere. Abu Rahma è un persona
intensiva, cioè nervosa. Accende una sigaretta con l'altra. Questo
checkpoint non deve essere attraversato da una macchina con meno di tre
persone dentro. Da entrambi i lati della strada, ci sono bambini che
aspettano. Vogliono un shekel dagli autisti che li usano per riempire la
macchina fino al numero richiesto, poi dall'altra parte prendono un altro
shekel da un altro autista per fare la strada inversa.
Questo è il loro modo di sopravvivere questa economia collassata.
Aspettiamo. "Qualche volta devi aspettare qui tre giorni. Dipende dalle
circostanze." Ma questa volta otteniamo il permesso dopo mezz'ora. Passima
un viale di eucalipti, bello ma abbandonato. E poi siamo a Campo di Rafah.
Un posto grande, rovinato. Non puoi chiamare questo posto, con 140.000
persone, una città. I palestinesi sono unanimi nel dire che questo è "il
posto più povero, più miserabile, più distrutto di tutti: 250 abitanti
ammazzati nell'Intifada, più di 400 case distrutte. La metà di quelli
ammazzati erano bambini." Quando entro l'appartamento utilizzata da "Gli
Internazionali" comincio a sentire che qui, specialmente, non mi dovrei
identificare come israeliana. Essere israeliano raprresenta a questi persone
giovani la cosa più malvagia che ci sia: demolizione di case, uccisioni
brutali, bulldozer, sparatorie, blindati, umiliazioni, fame e povertà. I
giovani nella stanza non sono veloci nel comunicare con la giornalista
francese che pensano di incontrare. Sono stanchi dei media, non sono ancora
venuti completamente a patto con la morte della loro amica, non sono
entusiasti di rispondere alle domande e non gliene importa molto che ho solo
due ore di tempo. Ossrevo il piede del mio accompagnatore che batte
nervosamente sul pavimento. "Torna domani a prendermi" gli chiedo
all'improvviso. Dopo una piccola discussione in cui gli prometto di prendere
molta cura di me stesso mi lascia con un'espressione di disapprovazione. Joe
Smith, l'unico membro del gruppo veramente voglioso di parlarmi, offre di
accompagnarmi all'internet caffè non molto lontano e lungo la strada mi
racconta come è capitato nell'ISM.
Paura sudante
Smith è un ragazzo di 21 anni di Kansas City. Quando stava nelle scuole
superiori lesse un libri su attivisti per la pace e divenne entusiasta
dell'idea. In un corso di scienze politiche incontrò il Prof. Steve Naber,
lesse Marx e si rese conto del suo status di uomo maschio bianco con
privilegi all'apice della piramide.
Andò in Slovakia, si associò con gruppi anti-globalizzazione e decise che
quello che voleva fare più di tutto era di dedicare la sua vita ai deboli, a
coloro che non hanno privilegi come lui. In particolar modo, voleva sfidare
la dittatura dei forti che è imposta del suo governo stesso. E' così che
arrivò al gruppo di Rafah. Parlando arriviamo all'intrnet caffè nel centro
della città dove incontro Muhammad che non vuole dire il suo nome completo
alla giornalista francese "perché c'è molto casino da queste parti", ma che
insiste che mi sieda vicino a lui e legga sullo schermo il suo diario online
e veda le foto che ha caricate sul sito
http://www.rafah.vze.com. Muhammad
ha 18 anni, una faccia delicata e studia inglese all'università. Decido di
giocare ad azzardo e gli suggerisco di farmi da interprete ed accompagnatore
a Rafah. Lascio Joe al computer e cammino attraverso la via Salah Al-Din, la
strada principale di Rafah. Noto un po' di disagio nello sguardo di Muhammad
e gli chiedo il perché. "E' meglio se ti compri un kefia e copri la testa.
Così, sarai meno cospicua, e la gente penserà che ti identifichi con la loro
sofferenza." Accetto subito il suo consiglio. Ci fermiamo alla prima
bancarella, compriamo il kefia, fermiamo un taxi, contrattiamo un po' e
accettiamo il prezzo di 50 shekel per mezz'ora e cominciamo ad andare in
giro per la città. Già nei primi momenti mi chiede se sono la giornalista
straniera che è venuta a visitare gli internazionalisti. Le voci corrono
veloci qui. L'autista mi dice che era stato lui a portare Rachel Corrie alla
sua morte quella mattina brutta.
Il primo posto che Muhammad sceglie di farmi vedere è il Blocco G sul ciglio
settentrionale della città, dove 400 case sono state distrutte. Come ci
avviciniamo, gli abitanti delle tende ci avvertono di non andare vicini ai
carri armati con i cannoni puntati su di noi. "Quando vedono qualcosa che si
muove, sparano," avvertii una signora su un asino. Per il resto della strada
andiamo mezzi piegati tra le rovine, attraverso viuzze strette, attenti a
non alzare le teste. E' importante a Muhammad farmi vedere il sito della
demolizione massiccia delle case. Aveva fotografato casa per casa e caricato
le case su suo sito internet che viene visitato da 900 persone in tutto il
mondo al giorno .
Fila dopo fila di case distrutte, con gli effetti personali sparsi
dappertutto. Bambole, arredi, biciclette, libri. Strisciamo per le vie per
evitare i cannoni minacciosi dei carri armati. "Possono sparare in un
qualsiasi momento, ad un qualsiasi movimento sospetto" mi dice e si spinge
più dentro. La paura mi assale i piedi e lungo le gambe. Finalmente, man
mano che ci avviciniamo sempre di più ai carri armati e le rovine diventono
sempre più profonde, alzo la voce: "Basta!". Muhammad cede alla giornalista
francese, entiramo il taxi e continuiamo.
La prossima tappa è il campo aereo al-Ubur che è stato distrutto da aerei
F-16, poi la casa distrutta vicino a dove Rachel Corrie è stato assassinata,
poi un piccolo ospedale cui due ambulanze stanno andando avanti e indietro
in continuazione. Molte delle cose le vediamo ad una distanza di meno di 100
metri "perché le sparatorie possono iniziare in un qualsiasi momento". Dopo
due ore insisto che ci fermiamo. Entriamo un piccolo ristorante e ordiniamo
pane pita con humous, tehina e coca cola, il tutto per quattro sheke e mezzo
[circa un dollaro, meno della metà dei prezzi di Tel-Aviv].
"Dove abiti?" gli chiedo. "Mi sono trasferito con i miei genitori in
un'altra casa. Due mesi fa hanno distrutto la nostra casa. Sono tornato da
università e ho trovato tutto distrutto. Il computer, i libri, i miei
appunti. Non c'è rimasto nulla. Sono venuti e hanno distrutto ogni cosa con
una notifica al momento. Non hanno dato la possibilità di tirare fuori
alcuna cosa. Siamo stati buttati nella strada così. Io, mio padre, mia
madre, mie tre fratelli, mio nonno. E credimi", dice alla giornalista
francese, "non avevano alcun motivo. Siamo una famiglia ordinaria, non siamo
coinvolti in nulla. Hanno semplicemente distrutta la nostra casa e la nostra
vita." Guardo Muhammad che parla. Solo ora, dopo aver visto 400 case
distrutte, posso veramente capire il suo dolore.
Muhammad mi accompagna all'appartamento degli internazionali proprio mentre
stanno uscendo per andare a fare una visita di condolianze alle famiglie
delle persone ammazzate lo stesso giorno in cui fu assassinata Rachel.
Sorprendentemente non fanno obiezioni che vada con loro. I sette di noi
stringiamo in un solo taxi e andiamo alla torre dell'acqua all'estremità
della città. Uno dei compiti del gruppo è di fare la guardia ai lavoratori
che riparano i condotti d'acqua e le linee elettriche che sono stati
danneggiati nelle sparatorie.
Mentre fanno il loro lavoro, Joe, Laura, Alice e Gordon fanno una cerchio
attorno a loro per difenderli dagli spari dei soldati.
Un nemico senza faccia
Nelle case delle famiglie in lutto, dove mi sono seduta con gli altri per
terra, bevuto caffè e magiato datteri, non ho quasi mai sentito la parola
"israeliani". Anche la parola "soldato" era raramente usata. Quello che i
palestinesi dicono normalmente è "loro". Questo non è casuale. Nelle 30 ore
che ho vissuto lì, non ha mai visto un soldato israeliano in carne e ossa.
Dal punto di vista dei palestinesi, il nemico non ha una faccia, un corpo,
una forma umana. Il nemico è nascosto dietro bulldozer D-9 giganteschi,
mostri grandi quanto le case stesse, in cui cima ci sono quadrati di vetro
rafforzato. Il nemico è nascosto dietro bunker, torri di guardia, carri
armati di metallo. Il nemico non ha alcuna faccia, alcuna espressione che
può essere interpretato. Il nemico è nascosto dietro tonnellate di acciaio
colo khaki. Acciaio massiccio, pauroso, sputante fuoco senza avvertimento.
Per l'uomo della strada, il nemico è virtuale, sofisticato, disumano,
inaccessibile. E ad affrontare questo nemico sono i palestinesi che io vedo
camminare per strade sporche.
Molti con vestiti strappati, alcune scalzi, abbandonati, manifestamente
poveri. Puoi vedere le tracce di tristezza, aprrensione, sofferenza,
mancanza di cibo. A 45 anni sembrano vecchi. Camminano da una parte della
città all'altra in cerca di lavoro. Gli uomini vanno di qua e di là in
gruppi. Non hanno lavoro e nessun posto dove andare. Vivono stretti -
uomini, donne, bambini - in case strette e su piccoli pezzi di terra. Sulla
via di ritorno dalla visita di condolianze incontriamo un grosso gruppo di
uomini in marcia. Davanti alla macchina con altoparlanti grosse, musica
assordante e dieci uomini mascherati che tengono in mano delle spade e
urlano slogan contro la guerra all'Iraq. "Una manifestazione, una
manifestazione", dicono gli internazionali, fermando il taxi e mescolando
agli uomini fieri. Volente-nolente la giornalista francese marcia con loro
mantenendo in contatto tramite sguardi alle tre donne del gruppo - Laura,
Alice e Carol.
Non ci sono donne palestinesi in vista. E' una di quelle manifestazioni che
sembrano paurose in televisione. Uomini con stracci neri sugli occhi,
altoparlanti assordanti, spade e coltelli nelle bocche. Il contatto diretto
umano ravvicinato, diminuisce il dramma.
Guardo gli uomini fieri e gioco con l'immaginare come avrebbero reagito se
avessero saputo che ho una carta d'identità israeliana proprio all'ora nella
mia tasca. Nelle loro facce sudate vedo quanto sono giovani e disperati, in
cerca di azione. Alice, Laura e Carol gli fanno compagnia nell'urlare slogan
contro gli americani e gli israeliani, portando un grosso poster a colori
con la faccia di Rachel nel suo ruolo da martire.
Alice, una londinese di 26 anni, prende il megafono e fa un discorso su cosa
aveva fatto Rachel per la Palestina e come era stata ammazzata. Alice parla
in inglese e gli uomini palestinesi la guardano con ammirazione. Sento che
Alice è la più forte donna del gruppo. E' giovane, carismatica e
determinata.
Ho dovuto aspettare dieci ore prima che lei acconsentisse di togliere il suo
esteriore duro, ammorbidisse un po' la sua immagine di Giovanna d'Arco e
scambiasse alcune parole con me. Alice, che preferisce non far sapere il suo
nome di famiglia, è cresciuta a Londra. Dopo le scuole ha studiato
programmazione del computer, aveva un lavoro decente e aveva preso un
appartamento in affitto. "Vivevo un vita borghese e ho visto che non mi
portava da nessuna parte. Andando ad un ristorante caro con un nuovo ragazzo
e sulla strada passando gente senza tetto che dorme per la strada. Poi sono
diventata sempre più politico. Ho cominciato ad interessarmi a come i più
forti sfruttano i più deboli, e per un po' sono andata a lavorare in una
fabbrica. Ho cominciato a rendermi conto di tutto quello che facevo, quello
che mangiavo, quello che mi divertiva, quel che significa vivere in una
società capitalista. Sono andata a manifestare a Praga e fui arrestata. Ho
messo a prova il mio coraggio, fino a quando mi sono addestrata a venire
qui".
"Qui è il più duro. Quella che è il più interessante per me è analizzare le
tattiche di forza utilizzate dai forti contri i deboli. Solo qui, quando
aiuto i palestinesi ad affrontare gli israeliani, mi sento che la mia vita
ha un significato." Abbiamo marciato per 20 minuti con la marcia
tempestuosa, poi siamo usciti e abbiamo fatto un po' di spesa per la sera:
carne conservata, spaghetti, riso, zucchero, biscotti e tè. Il gruppo è
finanziato da contributi e vive come una comunità. Ogni shekel speso è
meticolosamente annotato.
Nessuna via di uscita
Alle 18 un'ultima riunione del gruppo prima della notte. La piccola comunità
è condotta per mezzo di regole ferme. Ogni mattina alle 8:30 si incontrano
all'appartamento dopo aver passato la notte alle case palestinesi
minacciate. Discutano le esperienze della notte passata, si sentono con gli
amici palestinesi sulla vicende e si dividono i compiti per la giornata.
Fanno da scudi umani alle istallazioni di elettricità e pozzi di acqua,
raccolgano testimonianze, e riprendono con video camere. Si affrontano i
grossi mucchi di acciaio con i loro megafoni e cercano di stabilire un
dialogo con i soldati che stanno dentro.
Queste sette persone stanno portando un enorme carico in questo caos. Ma chi
è che prende cura di questi giovani che dormono due ore alla notte e non
hanno avuto ancora il tempo di venire a patto con avere testimoniata così da
vicino la morte di Rachel?
Non lasciano niente per sè stessi. Avevano insisto a pulire loro stessi il
sangue dalla faccia di Rachel, di toccare la sua schiena rotta, portare il
suo corpo al mortuario con le loro stesse mani, avvolgerla con le stoffe, ed
accompagnarela nell'ambulanza a Tel-Aviv, dibattendo con forza con i soldati
ai checkpoint che gli hanno tenuti in attesa per ore anche se il corpo
cominciava ad esalare fumi.
Il ruolo della mamma è coperto da Carol Moskovitz, che raggiunse il gruppo
con suo marito Gordon una settimana fa. Carol ha 61 anni e Gordon sembra più
giovane. Sono artisti, vivono in Canada, e stanno girando il mondo da tre
mesi. Quando hanno sentito di quello che era successo a Rachel decisero di
tagliare corto il loro viaggio e vennero ad offrire il loro aiuto. Da
domenica, fanno da genitori ai membri giovani del gruppo: preparono il tè,
fanno le domande, cercano di aiutare a recuperare dallo shock e incredulità
che Rachel ha lasciato.
Carol e Gordon hanno tre figlie in Canada. Un'ora fa Carol ricevette una
chiamata dalla figlia più grande, trentenne, con auguri per la festa della
mamma. Carol e Gordon nascondano dalle loro figlie il fatto che stanno nel
Campo di Rafah. Non vogliono che loro ed i nipoti si preoccupino.
Erano le ore 7:30 quando io sono andata con Laura e Joe a passare la notte
alla casa di Muhammad Jamil Kushta, la prima casa che si affaccia la
postazione dell'IDF sul confine egiziano, una casa di cattiva sorte. Lì,
nella casa di Jamil sotto una sparatorie incessante, fucili, missili, razzi
e solo il diavolo sa che altro, per quattro ore consecutive, pensando sul
serio che quelle potevano essere le mie ultime ore, ho giocato ad azzardo ed
ho rivelato la mia identità di israeliana da Tel-Aviv. Poi ho detto che i
miei stessi figli potrebbero essere tra i soldati che ci stavano sparando,
non sapendo che ero nella casa su cui stavano sparando, o poteva essere uno
degli amici di miei figli che avevano visitato la casa mia.
E quello è stato il momento che abbiamo cominciato a guardare gli uni gli
altri e abbiamo cominciato a ridere. Tre bambini, due americani, una coppia
palestinese e una donna israeliana tutti seduti intorno ad un grosso
contenitore di insalata, con pallottole fischiando attraverso l'aria,
abbiamo cominciato a ridere. Una risata di disperazione, di apprensione, di
sollievo per la vicinanza umana che abbiamo trovato all'improvviso. Sapevo
che con un po' di fortuna avrei passato la notte e sarei corsa via per
salvarmi la vita, ma Jamil e Nora non avevano via di uscita, erano dannati a
crescere i loro bambini sotto fuoco vivo. E poi Laura aprì la bocca per
rivelare che anche lei era ebrea, e anzì, un'ebrea osservante. E poi
scoprimmo che la fiere Alice, la Giovanna d'Arco del gruppo, la detestatrice
di Israele, era anche lei ebrea. "E i soldati", disse Jamil, "sono anche
loro dei bambini ventenni che devono stare là, soli nel buio, tremanti,
dentro il freddo acciaio".
Eravamo tutti d'accordo: la vita è breve e gli uomini creature stupide.
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