Un testo discutibile - in cui si sente, inconfondibile, la mano del
revisionista - ke parla di 1 libro in cui (spero ci siano e non tutto sia
filtrato da questo Bianconi ke già ora, a pelle, non mi convince) dovrebbero
essere molto interessanti i racconti dei combattenti sconfitti.
Giovanni Bianconi racconta il fenomeno brigatista
Le identità soppresse delle Br
Salvatore Cannavò - Liberazione
E' un libro semplice come un romanzo, quello di Giovanni Bianconi (Mi
dichiaro prigioniero politico - Storie delle Brigate Rosse, Einaudi, pp.
311, euro 9,50). Non già una ricerca - su una vicenda ancora consegnata
all'attualità - non già una ricostruzione, né un saggio finalizzato al
giudizio storico-politico. Ma un tentativo di correre, a volte rincorrere,
le vite dei sei personaggi prescelti (Tonino Paroli, "Pippo"; Angela Vai,
"Augusta"; Bruno Seghetti, "Claudio"; Germano Maccari, "Gulliver"; Francesco
Piccioni, "Michele"; Geraldina Colotti, "Paola"), in una sorta di allusione
pirandelliana dove le sei storie, i loro percorsi, le loro vicende
politiche, familiari, spesso intime, trovano un autore che si incarica di
intrecciarle alla dura vicenda degli anni '70 (ma anche '80, nel caso di
Piccioni e Colotti), con i suoi sogni di rivoluzione e le illusorie
scorciatoie dettate dalla lotta armata.
Sei personaggi in cerca...
Il tema prescelto conduce l'autore a tratteggiare un ritratto dei suoi
personaggi mai compiacente, ma nemmeno pregiudizialmente perentorio, in cui
il racconto alla fine ha la meglio. Bianconi ha parlato a lungo con i suoi
protagonisti. Non sappiamo se e quanto loro si sentano rappresentati, ma
l'autore riesce a raccontarci una lotta armata vista da dentro, dalle
motivazioni, dai retroterra politici e culturali dei protagonisti diretti di
cui ci restituisce pensieri, emozioni, progetti di vita. E non è un caso che
i sei personaggi scelti siano tutti legati da un sottile filo comune fatto
di passionalità, emotività, coerenza con se stessi. Il più toccante è il
legame epidermico tra "Paola" e "Roberta", che si scelgono e si affidano
l'un l'altra - «si raccontavano ogni cosa (...) perfino della morte
parlavano» - nella vita e nella politica (Wilma "Roberta" Monaco rimarrà
uccisa nel corso dell'attentato ad Antonio Da Empoli per i colpi di un
agente di scorta che lei, Paola, non ha voluto colpire).
Oppure Seghetti, che segue un istinto di ribellione insopprimibile,
forgiato nelle lotte spontanee, e durissime, a Centocelle (Roma), fra
scontri con la polizia in difesa delle case occupate o scontri diretti con i
fascisti di quartiere. Nelle Br entra perché «bisogna fare di più» la
semplice resistenza non basta, occorre «un salto», il salto. Ma quel legame
con il territorio, o meglio, con il movimento spingerà "Claudio" a non
smettere mai di partecipare ad assemblee, ovviamente senza dichiarare mai la
propria appartenenza alle Br, anche nel periodo della clandestinità.
"Gulliver", il "quarto uomo" dell'operazione Moro, è quello che forse
meno di tutti riesce a gestire la doppia identità, la convivenza tra
Germano, che ama le donne, è innamorato della sua macchina sportiva, che non
vuole smettere di vivere nella propria casa, e "Gulliver" che deve preparare
il rifugio di via Montalcini dove il presidente della Dc trascorrerà
cinquantacinque giorni. Non a caso Maccari non sopporterà la freddezza con
cui Moretti gestisce il rapimento (dichiarandosi poi contrario alla sua
uccisione, segnando così il suo abbandono delle Br). L'arresto per il
«carceriere di Aldo Moro» arriva solo quindici anni dopo - sulla base delle
dichiarazioni di Adriana Faranda - e ancora per tre anni Maccari nega il
proprio coinvolgimento, tenendo separate le due identità. Ma alla fine «dopo
diciotto anni di segreti e di bugie raccontate anche a se stesso decide che
non può resistere oltre». Gulliver si «svuota», ricongiunge le sue due vite
e può cominciarne un'altra (morirà però in carcere il 25 agosto del 2001 per
un aneurisma cerebrale).
Anche Angela Vai si avvicina all'opzione armata sulle ali di una
passione rabbiosa, ma anche ascoltando il commento che della tragica fine di
Mara Cagol fa un'anziana signora seduta su una panchina alla periferia di
Torino: «In fondo ha fatto tutto per amore». In lei quella frase significa
che la politica si accompagna ai sentimenti e che anche una donna «può
guidare la rivoluzione». E così Angela- "Augusta" inizia a rimpallarsi
dentro questa identità doppia - rivoluzionaria e operaia che deve accudire i
due fratellini - che non vuole saperne di ridursi a una, non ce n'è mai una
che esca fuori una volta per tutte se non, anche qui, con l'arresto, con il
dichiararsi "prigioniera politica".
Le realtà parallele
Ecco, forse è il tema dell'identità a percorrere l'intero libro in un
rimando costante tra il nome di battesimo, con il suo portato di relazioni
umane, emotive e politiche, e il nome di battaglia, quello che le Br
assegnano a chi entra in clandestinità. Una porta d'ingresso in una realtà
parallela, che non incrocia quasi mai la realtà «di prima» se non al momento
dell'arresto, punto di compimento di un percorso drammatico, mai felice.
L'arresto è una sorta di liberazione da questa doppia identità cogente,
quella del «rivoluzionario di professione» e quella dell'ex militante di
movimento, inserito in un rapporto familiare o amoroso; nel dichiararsi
«prigioniero politico» il, la militante Br trova finalmente una sintesi del
proprio percorso finalmente pubblico e riconosciuto, sia pure nella forma
non desiderabile del carcere.
Due realtà che non riescono mai a incontrarsi. Si sfiorano, a volte si
toccano - all'università, in fabbrica, in qualche corteo "duro". Ma le due
identità rimangono distanti. La storia del movimento di massa di inabissa
negli anni '70 per non riemergere mai più. Quella degli «uomini e delle
donne delle Br» si impantana di lì a poco nell'assenza di una strategia
possibile, negli errori commessi, nella repressione dello Stato, ma
soprattutto nella propria incapacità di padroneggiare quella doppia
identità. Perché il conflitto che si impadronisce della vita dei brigatisti,
il conflitto di cui ci parla Bianconi, non è altro che l'espressione di una
contraddizione più profonda: quella tra l'avventura delle Br e la storia
politica e sociale del grande movimento di massa che ha attraversato
l'Italia dal '68 alla fine degli anni '70 e che ha prodotto una sconfitta
epocale (i cui effetti perdurano oggi). Una contraddizione insanabile in cui
i progetti, le strategie, le aspirazioni, gli stessi sogni del "partito
armato" hanno coltivato un luogo autonomo e distaccato che non si è mai
agganciato, e come poteva?, con il potenziale di rivolta che proveniva dalle
nuove generazioni in lotta. L'autonomia del politico, l'avanguardismo spinto
oltre ogni immaginazione, l'illusione, e la presunzione, di guidare le
masse, che alberga in ogni follia terroristica ha avuto il sopravvento,
impedendo a quegli uomini e quelle donne di ricongiungere la rabbia con il
sogno, la rivolta con l'amore, il desiderio di rivoluzione con il bisogno di
pace. In questa irriducibilità c'è una frattura più generale, tante vite
spezzate, molte speranze infrante. Le «storie delle Brigate rosse»
raccontano una storia di relazioni impossibili, di distanze, di muri
insormontabili. E, forse per la prima volta, il libro di Bianconi ci offre
una chiave per attraversare qualche porta.