Lähettäjä: clochard Päiväys: Aihe: [Cerchio] intervento di Enrica Collotti Pischel
Articolo pubblicato sul numero 35 di Giano. Pace ambiente problemi globali,
maggio-agosto 2000
CINA - NATO - USA
di Enrica Collotti Pischel
La guerra della NATO contro la Jugoslavia è stata considerata a Pechino come
attacco ad un paese sovrano e minaccioso monito degli Stati Uniti
Il problema del rapporto della NATO con la Cina si divide in due: da un lato
vi è il rapporto vero e proprio della NATO con la Cina, dall'altro vi è
quello degli Stati Uniti e della loro concezione strategica con la Cina. I
due fenomeni sono connessi ma non coincidenti.
Il rapporto della NATO con la Cina è relativamente recente e, comunque,
improprio. Nessuna fantasia può estendere l'Atlantico, il suo significato
strategico e la cultura che si è sviluppata sulle sue rive fino alla Cina.
Come è noto il testo del patto atlantico copre soltanto i territori europei
degli Stati membri. Quella clausola fu molto importante quando la Francia
era impegnata nella guerra coloniale in Vietnam e poi in Algeria: anche ad
essa si dovette se nessun soldato italiano fu mai chiamato a combattere in
quelle infami guerre e se, neppure, le basi su territorio italiano furono
chiamate a svolgere un ruolo di supporto in Algeria. La guerra del 1999
contro la Jugoslavia ha modificato questa logica in quanto è stata una
guerra ideologica, che ha messo in discussione non la sicurezza degli stati
membri della NATO sul loro territorio metropolitano, bensì i principi
ideologici che ne contraddistinguono la cultura politica. La guerra è stata
giustificata da una decisione comune di intervenire, in quanto alleanza
atlantica, sul territorio di uno stato che non è e non è mai stato membro
dell'alleanza e che non aveva invaso alcuno stato straniero, membro o no
della NATO. In questo senso si è trattato di un'operazione del tutto diversa
dalla guerra contro l'Iraq che aveva invaso il Kuwait e che per questo era
stato condannato dalle Nazioni Unite: e infatti quella guerra contro l'Iraq
fu patrocinata non dalla NATO, bensì dalle Nazioni Unite con il consenso o
almeno l'astensione di Russia e Cina. Dicendo ciò non si vuole dare
giustificazione alla guerra contro l'Iraq, ma soltanto dire che rientrava in
un'altra logica: un intervento collettivo dell'Organizzazione mondiale
deliberato a maggioranza e attuato in comune da suoi membri.
Nel caso della guerra contro la Jugoslavia, invece, la NATO, cioè un'
organizzazione non mondiale ma limitata ai suoi membri, ha deliberato un
intervento per motivi di ordine politico e morale (l'inaccettabilità della
"pulizia etnica"), senza che le Nazioni Unite avessero deliberato in
proposito e neppure fossero state investite del problema. E non lo erano
state perché, visti i problemi etnici che la maggior parte dei membri dell'
Onu si ritrovano, l'Organizzazione si sarebbe ben guardata dal sanzionare un
intervento. Si può discutere se sia ora che le Nazioni Unite si diano
strumenti per garantire l'osservanza di alcuni diritti umani, che potrebbero
anche essere universalmente condivisi, al di là delle differenze di cultura:
è probabile che ciò sarebbe giusto. Nessuno può accettare quanto è avvenuto
in molti paesi di quello che un tempo si chiamava con speranza Terzo Mondo,
per difendere interessi vari delle grandi potenze, i loro canali commerciali
e la loro possibilità di vendere armi. Ma il problema esige una vera
convergenza delle decisioni di una maggioranza, o comunque di un insieme di
paesi che comprenda almeno i più grandi, stabili, organizzati stati non
usciti dalla cultura dei bianchi-cristiani dell'Europa e degli Stati Uniti.
Il "fare muro" contro l'elaborazione di regole comuni per l'umanità, non
aiuta i paesi più poveri, più esposti a ricatti e più fratturati al loro
interno a difendere la sopravvivenza della loro popolazione, soprattutto dei
più deboli. In Rwanda, in Sudan o in Sierra Leone è avvenuto e avviene ben
di peggio che in Kosovo, ma nessuno ha fatto nulla.
Invece in Jugoslavia no, la NATO - e solo essa - ha deciso di intraprendere
una serie di operazioni militari punitive adducendo la necessità di
difendere i kosovari dalla "pulizia etnica" dei serbi: come poi stessero le
cose si è visto nel prosieguo di tempo, quando è stato possibile sceverare
la "pulizia etnica" precedente i bombardamenti e quella avvenuta nel corso
delle operazioni e quando è apparso il problema della "pulizia etnica"
contro i serbi. Del resto la natura delle mistificazioni che accompagnano
queste vicende non ha bisogno di molte dimostrazioni dopo che si è visto
come la gran campagna di solidarietà degli occidentali nei confronti del
"popolo afghano" (del quale è molto dubbia un'esistenza unitaria) aggredito
dai sovietici, abbia finito per mettere al potere i Talebani e non sia
neppure riuscita ad assicurare la pace.
L'attacco della NATO alla Jugoslavia e la sua giustificazione sono stati
letti - e non poteva essere diversamente - dai dirigenti cinesi come una
prova generale per predisporre, nel tempo, un attacco alla Cina. Poi è
venuta la vicenda del bombardamento dell'ambasciata che nessun asiatico di
mente normale può pensare sia stato compiuto per errore, in vista del
passato. Ma questa è questione secondaria. Il punto principale era proprio
la logica dell'attacco da parte di un certo numero di potenze alleate tra
loro, giustificato dal comportamento tenuto da un paese su problemi interni.
Un'identità multietnica
I cinesi non possono dimenticare che nel 1900 le potenze europee si
imbarcarono in un'operazione collettiva di repressione militare per
reprimere il movimento dei ribelli I Ho Tuan (o Boxer), che avevano ucciso l
'ambasciatore germanico: quella vicenda è una delle più radicate nella mente
dei cinesi, mai perdonata, non perdonabile. L'analogia con l'attacco alla
Repubblica jugoslava era evidente, anzi nel caso dei Boxer si poteva almeno
addurre una violazione del diritto internazionale. Ma non basta: il problema
è quello della "pulizia etnica" e del diritto di uno Stato di risolvere,
anche con la repressione, una ribellione etnica o problemi etnici. Su questo
specifico punto i cinesi hanno visto l'attacco alla Jugoslavia come il
tentativo specifico di creare un precedente per un attacco alla Cina, in
senso specifico e mirato. I politici, la stampa, l'opinione pubblica dell'
Occidente hanno fatto il possibile per confermare i cinesi nei loro timori
scatenando ancora una volta - con continui, ma impropri riferimenti al
Kosovo - la grande cagnara sul Tibet.
Come è noto, la Cina è un paese "multietnico". La maggioranza dei cinesi
(oltre il 90%), i cosiddetti cinesi han appartengono a una cultura (non una
"razza") comune, formatasi nel corso dei secoli per assimilazione di gruppi
umani diversi in base a pratiche materiali di lavoro e di vita condivise e
in base a una comune cultura politica: lo Stato cinese è stato protagonista
di quel grande processo di assimilazione che ha formato il popolo più
numeroso della terra e che tuttora è in corso. Han si diventa, in genere è
conveniente diventarlo: il processo non è avvenuto, in genere, per coazione,
ma per incentivazione materiale, in quanto gli han vivevano meglio degli
altri. Tra le genti non han, la maggioranza vive frammista agli han in
ambienti comparabili. Vi sono però popolazioni nomadi, nella fascia delle
steppe, delle montagne e dei deserti che circondano la Cina a Nord e a
Ovest, che differiscono sostanzialmente dagli han per modo di vivere e di
lavorare e che sono contraddistinte da una cultura materiale o spirituale
connessa all'ambiente. I territori in cui sono insediate queste genti sono
stati conquistati dallo Stato cinese (in parte ancora nel II secolo a. C.) e
per tutta la storia della Cina si è sviluppato un rapporto organico tra gli
han e il loro Stato e questi nomadi: gli uni e gli altri facevano parte
dello "Stato del Centro", il nome della Cina in cinese, un concetto
politico, non razziale. La Cina ha avuto imperatori turchi, mongoli,
tungusi: nulla di cui stupirsi per un cinese. Bastava che scrivessero in
caratteri e governassero da han.
Mettere in discussione questo meccanismo significa negare l'esistenza della
Cina, che è - appunto - "Stato del Centro": sceverare le etnie di luogo in
luogo e dividerle sarebbe assurdo, come sceverare il Dna degli italiani che
hanno preso tutte le genti venute da noi. Nel mondo di oggi è molto
importante riaffermare il principio che chi viene perché ritiene di andare a
star meglio deve essere accolto e, in un paio di generazioni, fuso e
assimilato con gli altri. Questa è stata la caratteristica della cultura
italiana e soprattutto di quella cinese: un grande fattore di superiorità.
Invece, nel loro attacco alla Cina, le potenze imperialistiche hanno sempre
fatto leva sulle diversità etniche o culturali per spartire il grande paese
o creargli problemi.
Ciò ha riguardato in particolare due casi, quello mongolo e quello tibetano.
Con i mongoli la Cina ha avuto un rapporto intrinseco per tutta la sua
storia; non si era mai discusso il fatto che i mongoli inseriti entro i
confini dell'Impero ne facessero parte. L'Impero zarista, tuttavia, attuò
una politica di penetrazione e al momento dell'avvento della Repubblica in
Cina nel 1911 fece proclamare l'indipendenza di quella che fu definita
"Mongolia esterna" (anche se la maggior parte dei mongoli rimaneva in Cina e
oggi costituisce la regione autonoma mongola, vicinissima a Pechino e
abitata da una maggioranza han). Nel 1924 una rivoluzione sostenuta dai
bolscevichi portò alla creazione della Repubblica popolare mongola, che il
governo di Chiang Kai-shek, su pressione di Stalin, riconobbe nel 1945,
cosicché anche la Repubblica popolare cinese dopo il 1949 ne ha riconosciuto
l'indipendenza: si tratta di un territorio dell'impero staccatosi per
processo legittimo.
Analogo, ma diverso nella conclusione, il caso tibetano: anche i tibetani
ebbero lunghi - e in genere molto ostili - rapporti con l'Impero cinese e
nel corso dei secoli scesero in folte schiere dal loro inospitale altipiano
per insediarsi nelle regioni cinesi a ridosso delle montagne, dove
rimangono, pur essendo numericamente una minoranza rispetto agli han e ad
altre genti. Il Tibet vero e proprio, il vasto altipiano, tutto al di sopra
dei 4-5 mila metri, se si esclude la valle di Lhasa, fu conquistato dall'
Impero cinese nel 1721 e nel 1751 inserito nell'amministrazione cinese in
modo regolare, attraverso la presenza di funzionari, anche se tra i Dalai
Lama e gli imperatori esisteva anche un rapporto personale di reciproco
legame. Qualsiasi governo cinese, quello imperiale, quello del Guomindang e
quello della Repubblica popolare hanno sempre considerato il Tibet un
territorio appartenente allo Stato cinese. Nessun paese al mondo oggi
riconosce uno status di indipendenza al Tibet e neppure il Dalai Lama la
rivendica. Su questo non possono sussistere dubbi.
Al momento dello sfacelo del potere cinese all'inizio del secolo XX,
tuttavia, il potere britannico in India cercò di penetrare in Tibet e di
stabilire rapporti con l'aristocrazia schiavista e monastica che lo
controllava. Gli inglesi cercarono anche di attribuire uno status
internazionale alle autorità tibetane, invitandole nel 1913 alla conferenza
di Simla, dove, nonostante le proteste della delegazione dell'Impero cinese,
si fecero cedere i territori che tuttora sono contestati tra India e Cina.
Neppure gli inglesi, però, riuscirono a portare avanti il tentativo e
durante la seconda guerra mondiale chiedevano regolarmente al governo di
Chiang Kaishek il permesso di sorvolo sul Tibet per gli aerei che portavano
aiuti. Poi vennero la rivoluzione e la proclamazione della Repubblica
popolare cinese: l'ingresso in Tibet dell'esercito rivoluzionario era
soltanto la conclusione di una guerra civile e non la conquista di un
territorio esterno alla Cina, come va ripetendo da anni la campagna tenace e
subdola condotta in occidente con gran rinforzo di attori di Holliwood e
patiti delle nuove religioni esoteriche.
Nel 1951, la Repubblica popolare cinese concluse un accordo con le autorità
tibetane, politiche e religiose, e istituì un regime di autonomia, gestito
con il consenso del Dalai Lama. Però nel 1956-57, in un momento di massima
tensione tra Stati Uniti e Cina popolare, la Cia sostenne una rivolta dei
tibetani insediati nella regione cinese del Sichuan. A seguito di una serie
di manovre (c'è di buono che la Cia deve rendere conto delle sue spese al
contribuente americano e così, ogni tanto, si sa qualcosa) e probabilmente
con qualche complicità dei sovietici ormai ostili a Mao e alla Cina, i
rivoltosi si trasferirono a Lhasa, chiesero e ottennero il consenso del
Dalai Lama. I cinesi repressero la rivolta e il Dalai Lama, con gran parte
della classe dirigente tibetana, si trasferì in India, a Dharamsala, dove ha
costituito un governo tibetano in esilio, finora non riconosciuto da alcun
paese.
Da allora è iniziata nel mondo intero un'intensa campagna di
delegittimazione morale e storica del potere cinese sul Tibet, penetrata
largamente nell'opinione pubblica occidentale, benché non abbia mai portato
a prese di posizioni giuridiche dei governi. Per parte loro, i governanti
cinesi sottoposero dopo il 1959 la società tibetana a profonde
trasformazioni cercando di allevarsi una classe dirigente alternativa che
doveva tutto alla rivoluzione. Furono soprattutto questi giovani "giacobini"
tibetani che durante la rivoluzione culturale distrussero templi e simboli
della civiltà tibetana, dando ulteriore fiato alla campagna anticinese. Dopo
la morte di Mao, è stato ripristinato il regime di autonomia ed è stato dato
maggiore spazio alla popolazione tibetana, anche se è continuata, in alcune
fasi con molta intensità, la repressione contro le spinte indipendentistiche
e i movimenti separatistici. Oggi il Tibet, che resta molto povero, sta
trasformandosi: i pastori nomadi sparsi ricevono qualche piccola assistenza
dall'esercito popolare cinese che continua a gestire un minimo di strutture
sanitarie, mentre la valle di Lhasa sta diventando un'attrazione turistica e
molti tibetani trovano conveniente accettare la politica tradizionale dei
cinesi verso le minoranze: comprarne il consenso con un minimo di benessere.
Questa lunga diversione pare irrilevante per il rapporto Cina-NATO, ma non
lo è affatto: i dirigenti cinesi, tallonati in ogni loro visita dalla
campagna per l'indipendenza del Tibet, hanno fatto un ragionamento logico.
Non ci vorrebbe nulla per gli americani a reclutare un Uck tibetano a
Dharamsala e a pagare altri tibetani per sostenerlo sull'altopiano,
costringendo le autorità cinesi a una repressione etnica, che oggi non c'è.
Se mai si tratta di repressione politica dei settori monastici favorevoli
all'indipendenza, ma in nessun caso sono stati segnalati episodi di
repressione nei confronti di villaggi o di gruppi di pastori. Basta volere e
una guerra etnica si scatena. Per questo, la logica della guerra della NATO
alla Jugoslavia è apparsa ai dirigenti cinesi in modo chiarissimo come la
costituzione di un precedente per l'attacco alla Cina. Tanto più che i
giovani tibetani esiliati, in concomitanza con la guerra in Kosovo,
chiedevano armi e sostegno all'Occidente e compirono anche un misterioso
attentato contro il Dalai Lama, che è molto più prudente e probabilmente
mira a un compromesso con la Cina. Poi le vicende del Kosovo hanno
ridimensionato la realtà delle motivazioni morali dell'intervento della NATO
e i governanti cinesi hanno riportato il discorso con l'Occidente sul piano
degli scambi economici e delle condizioni commerciali.
Ma non hanno ceduto in nulla sul problema della sovranità nazionale quale
principio base del diritto internazionale. Come è noto, durante la guerra
alla Repubblica jugoslava, i nostri zelanti governanti sono riusciti a
trovare una minoranza di giuristi internazionalisti che, con l'opposizione
dei loro più esperti colleghi, sostenevano la relatività del principio della
sovranità e promuovevano la nascita di "nuovi principi" del diritto
internazionale che consentissero appunto interventi esterni per ricondurre
paesi per qualche motivo ritenuti "colpevoli" ad un comportamento ritenuto
corretto: non dimentichiamo che negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno
denunciato l'esistenza di "rogue states", di "stati mascalzoni", un
pericolosissimo concetto giuridico. I paesi che hanno riconquistato la
pienezza della loro sovranità dopo la lunga notte delle ipoteche
imperialiste o sono divenuti sovrani dopo la colonizzazione, non a caso
difendono il principio della sovranità nazionale quale tutela dei loro
diritti. E prima tra tutti la Cina.
E qui il discorso sul rapporto Cina-NATO si può considerare concluso. Ma vi
è l'altro aspetto del rapporto della Cina con gli Stati Uniti. Come è noto,
la strategia "storica" degli Stati Uniti ha diviso il settore "atlantico"
fondato sul rapporto con le grandi società capitalistiche omologhe dell'
Europa, da quello del Pacifico. Noi europei non comprendiamo facilmente il
peso che il Pacifico esercita sul mondo esistenziale, ancor prima che sulla
cultura politica, degli americani. L'Atlantico è condiviso, il Pacifico è
loro: per affermarlo hanno combattuto e vinto la dura guerra contro il
Giappone. Per molti europei l'Asia orientale resta ancora, spesso, "Estremo
Oriente", il punto terminale di un cammino che parte dall'Europa. Per gli
Stati Uniti è lo "Western Pacific Rim", il "bordo occidentale del Pacifico",
sul quale si ritengono autorizzati ad esercitare un'egemonia in nome del
fatto che possiedono il "bordo orientale". Il controllo del "Western Pacific
Rim" è stato esercitato dagli Stati Uniti in proprio, senza nessuna
condivisione di responsabilità con gli alleati atlantici, che anzi sono
stati volutamente emarginati ed espulsi da questo settore strategico.
Cina e Stati Uniti d'America
Non è senza significato il ricordare che la colonna portante della strategia
statunitense in Asia orientale dopo la vittoria dei comunisti in Cina è
stata l'alleanza bilaterale tra Stati Uniti e Giappone: nonostante certe
affinità della società giapponese con quelle capitalistiche consolidate dell
'Europa, il Giappone non ha mai fatto parte, né avrebbe potuto, dell'
Alleanza atlantica; così come la Corea meridionale, pur entrata nel 1997
nell'Ocde. E in entrambi i casi, si tratta di paesi stabili che non
presenterebbero particolari pericoli. Ma gli Stati Uniti intendono gestire i
rapporti in proprio e da soli. In proprio e da soli per anni mantennero l'
assedio alla Cina attraverso la VII Flotta che pattugliava lo stretto di
Taiwan. Per anni imposero la politica di non riconoscimento alla Repubblica
popolare cinese ai loro alleati europei che invece vedevano vantaggi
economici e politici nel rapporto con Pechino; per anni manovrarono con
pesanti ricatti perché i paesi europei si allineassero sul rifiuto alla
presenza della delegazione della Repubblica popolare cinese alle Nazioni
Unite. Da soli si impegnarono nella guerra in Vietnam, nonostante le offerte
di mediazione di de Gaulle. Tutte cose che gli alleati atlantici avrebbero
evitato volentieri.
Gli Stati Uniti si sono trovati da soli anche a operare la revisione di
quella strategia. Non avvennero su pressione dei governati europei, ma sotto
la spinta della vittoria dei vietnamiti e con la speranza di poter usare la
Cina in Asia contro l'Urss, le visite di Kissinger e poi di Nixon che
modificarono il rapporto tra Stati Uniti e Cina nel 1971 e nel 1972. Lo
stesso si dica per lo stabilimento dei rapporti diplomatici dopo il 1978,
che - in vista della ferma richiesta da parte della Repubblica popolare
della riaffermazione, in ogni riconoscimento, del principio per cui "esiste
una e una sola Cina e Taiwan è parte di essa" - ha aperto la spinosa
questione dei rapporti degli Stati Uniti con Taiwan, sanciti dall'ambiguo
Taiwan Relations Act, che lascia sussistere la fornitura di armi
statunitensi all'isola, nonostante la decadenza del patto bilaterale all'
atto dello stabilimento dei rapporti tra Washington e Pechino. Tutte le
vicende connesse a questi problemi sono state trattate dagli Stati Uniti
direttamente con le controparti asiatiche. Impensabili interferenze europee.
Negli ultimi anni vi è stata una certa trasformazione dell'equilibrio
strategico. La Cina si è dimostrata sempre più autonoma sia in campo
politico, sia in campo economico ed è stata il perno del salvataggio delle
economie asiatiche dopo la crisi del 1997 con il proprio sforzo di non
svalutare lo yuan, nonostante le ripercussioni negative sulle esportazioni.
I paesi dell'Asean, nati in una prospettiva di dipendenza dalla strategia
statunitense al momento della fine della guerra in Vietnam, si stanno
rivelando autonomi e talvolta anche polemici nei confronti dello strapotere
economico degli Stati Uniti: non sono mancate voci, conservatrici e non
certo rivoluzionarie, che hanno attribuito - probabilmente a torto - la
crisi del 1997 a manovre americane. I giapponesi, nonostante il
ridimensionamento della loro economia, restano il maggior creditore degli
Stati Uniti e manifestano voci - certo non tranquillizzanti in quanto legate
alla rivendicazione del valore della politica seguita nella seconda guerra
mondiale - di crescente indipendenza. Le due Coree recentemente hanno messo
in moto un processo che potrebbe portare, se non a una riunificazione, a una
certa distensione e quindi a una messa in dubbio della necessità della
presenza di quei 37 mila soldati statunitensi che presidiano nella penisola
un tratto dello "Western Pacific Rim"; lo stesso vale per i 64 mila soldati
statunitensi acquartierati nell'isola giapponese di Okinawa e oggetto di
sempre più pesante ostilità della popolazione, nonostante la disponibilità
al compromesso dei governanti giapponesi.
In tutto questo Clinton si è dimostrato politico incerto, ondeggiante,
sensibile ai ricatti del Congresso dove è insediato un potente centro di
inesauribili polemiche contro la Cina e più in generale di ostilità all'
Asia. Se la difesa del "Western Pacific Rim" è uno dei punti cardine della
strategia mondiale statunitense, è quindi necessario garantire la
possibilità di una continuata presenza militare statunitense in Asia
orientale: non è facile per un presidente rifiutare le richieste strategiche
( e quelle economiche connesse) avanzate dai militari. Per questo sono stati
compiuti una serie di passi che non hanno mancato, motivatamente, di
preoccupare i governanti cinesi. Nel 1996, in un momento di tensione tra
Cina e Taiwan a seguito di esercitazioni militari cinesi, Clinton decise di
inviare nuovamente la VII Flotta nello stretto e raggiunse anche con i
giapponesi un accordo con il quale si consentiva alle forze nipponiche (che
non dovrebbero neppure esistere in base alla Costituzione data dagli
americani) di pattugliare una vasta area marittima e aerea che non a caso
comprende sostanziali parti dello spazio aereo cinese. Quando nel 1998 i
nordcoreani non trovarono di meglio di inviare un missile che ha
attraversato fischiando tutto il territorio giapponese prima di finire nel
Pacifico, gli Stati Uniti montarono una grande campagna per indurre il
Giappone (e la Corea meridionale) a cercare ancora una volta rifugio sotto l
'ala protettrice potente dello Zio Sam, attraverso un progetto di "scudo
spaziale".
Ogni volta che tra Cina e Taiwan si giunge a una fase di tensione, la stampa
statunitense scatena una campagna come se stesse per scoppiare la terza
guerra mondiale. Lo stesso è avvenuto nella primavera scorsa quando le
elezioni di Taiwan sono state accompagnate da un'intensa guerra verbale tra
le due parti cinesi. Per non parlare della Corea settentrionale presentata
sempre come una minacciosa potenza nucleare. L'ipotesi di uno "scudo
spaziale" - che per ora ha incontrato fiaschi tecnologici e comunque
costerebbe carissimo - dovrebbe difendere il sacro territorio degli Stati
Uniti da missili asiatici: poco probabile uno nord-coreano, non così uno
cinese. I missili e le bombe nucleari cinesi non sono molti, ma meglio
renderli inutilizzabili, appunto con uno "scudo spaziale", che, come hanno
messo in luce gli stessi governanti europei, costituisce una minaccia di
guerra, in quanto disinnesca il meccanismo della deterrenza, risultato negli
ultimi decenni fattore di pace.
E poi i cinesi sono spie formidabili. I nemici della Cina al Congresso non
cessano di sfornare rapporti per accusare cinesi (o oriundi cinesi, o
oriundi taiwanesi, o mezzi sangue) di aver rubato segreti nucleari o
missilistici, o comunque strategici per mandare avanti lo sviluppo delle
tecnologie militari cinesi. Che una grande potenza abbia delle spie, non
sembra cosa che debba essere dimostrata: è ovvia. I più scafati governanti
europei su questo non hanno esternato meraviglia. Che l'intera comunità
degli scienziati asiatici negli Stati Uniti (in alcuni campi un terzo dei
ricercatori) debba, su basi razziali, essere guardata con diffidenza, è un
pessimo segno per la vita democratica degli Stati Uniti e potrebbe ridondare
a danno della stessa scienza e tecnologie americane. Meglio accettare come
un dato di fatto che la Cina ormai ha un suo importante apparato
tecnologico, civile e militare, e che può ottenere in proprio, e con le
proprie risorse intellettuali, molti dei risultati ottenuti da altri paesi.
E non è detto che, per questo, voglia far la guerra agli Stati Uniti: non se
la fecero né gli Stati Uniti né l'Unione Sovietica quando avrebbero potuto
farla.
O il discorso è un altro? Nel fondo della cultura americana sta un elemento
razzista. A quei "maledetti musi gialli", siano essi cinesi o giapponesi,
bisognerà pur dare una lezione prima o poi. Meglio quindi che siano
disarmati, che non possano effettuare alcuna opera di deterrenza. Su questo
terreno gli europei non sembrano afflitti dalla sindrome anti-asiatica
americana e di fare la guerra all'Asia non ci pensano proprio. Per togliere
i dubbi ai cinesi, era meglio non farla neanche alla Jugoslavia.