[Cerchio] ciao, Enrica

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Autor: clochard
Data:  
Assumpte: [Cerchio] ciao, Enrica
Dalla Cina al Vietnam, le frontiere di Enrica Collotti Pischel
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI
Stando a quanto si è saputo dai familiari nelle ore dopo la sua morte, non
inattesa da quando la malattia di cui soffriva da tempo si era
irrimediabilmente aggravata ma la cui notizia è giunta egualmente dolorosa
per tutti coloro che la conoscevano e la frequentavano, Enrica Collotti
Pischel ha lasciato scritto o detto di volere ricevere l'ultimo saluto nella
sede dell'Università dove insegnava, a Milano, la sua Facoltà di Scienze
Politiche, in via Conservatorio. E' una scelta emblematica e per certi
aspetti obbligata. E' il suggello più giusto di una vita che
nell'insegnamento ha trovato la sua vera ragion d'essere. Enrica era
anzitutto e soprattutto una docente, un'insegnante. A costo, a volte, di
apparire didascalica, quando parlava, non importa se in un'aula
universitaria o in una conferenza pubblica, ma anche negli incontri più
ristretti, come nelle riunioni che tenevamo attorno a Giorgio Borsa finché è
stato vivo, uno dei suoi maestri che non poteva non ammirare e amare pur
dissentendo da molti dei suoi presupposti o delle sue conclusioni, non era
mai convinta di essere stata abbastanza chiara e tornava sui concetti, sulle
interpretazioni, affinando continuamente il suo ragionamento. Sempre critica
con se stessa e con gli altri. Perché le sue scelte politiche, i valori in
cui fermissimamente credeva, non le impedivano di interrogarsi sugli opposti
che si scontrano, nella dialettica argomentativa e in ultima analisi nella
storia, sapendo che sono troppe le variabili per permettersi di essere
sicuri e tanto meno dogmatici.

Il suo presunto «estremismo», in effetti, era talmente intrecciato con la
consapevolezza dei limiti della conoscenza storica o della condivisione
politica da ammettere dubbi, riconsiderazioni, confronti.

In occasione di una delle ultime lezioni che mi chiese di tenere nel quadro
dei seminari che organizzava all'università con la collaborazione di un
centro di studi milanese, aperti al pubblico esterno, tardi nel pomeriggio
per favorire l'affluenza di studenti di altre facoltà, giovani e lavoratori,
per tutto commento, dopo aver sentito un'analisi della crisi africana che
seguì visibilmente sofferente quasi piegata sulla sedia, disse: «Avevamo
sperato qualcosa di più per i nostri paesi». I «nostri paesi» erano le
nazioni dell'Africa e dell'Asia, gli stati della decolonizzazione, i popoli
che avevano puntato sulla «liberazione» dopo il colonialismo.

I suoi interessi di studiosa si concentravano soprattutto sul Vietnam e
sulla Cina, sull'Asia orientale, ma i suoi orizzonti erano più ampi. Non per
niente, il suo insegnamento universitario si intitola appunto, un po'
bizzarramente secondo alcuni puristi dell'epistemologia, Storia e
Istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici. La sua formazione, che era partita
dalle discipline letterarie, dalla filosofia e dalla storia, prima di
approdare alla politica internazionale attraverso l'Ufficio studi dell'Ispi
ai tempi d'oro di «Relazioni Internazionali» e dell'Annuario di Politica
internazionale, fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, che è stato per
molti un passaggio prezioso verso la pubblicistica di livello alto e
l'università, la predisponeva a approfondimenti che scontavano anche la
capacità di leggere i molti nessi in senso geografico e tematico.

Alla Cina ha dedicato il suo ultimo libro, uscito pochi mesi fa presso
l'editore Franco Angeli (La Cina. La politica estera di un paese sovrano) e
già recensito su queste colonne. Il nuovo corso della Cina vi veniva
sviscerato fuori d'ogni concessione per i pregiudizi positivi o negativi.
Enrica Collotti Pischel si misurava con i fatti e con la realtà. Lo sviluppo
economico, le dimensioni della grande potenza, avrebbero compensato i
compromessi ideologici o addirittura l'abbandono della rivoluzione e della
stessa solidarietà afro-asiatica. Si sforzava di capire senza lasciarsi
deviare dai suoi progetti, anche se per lei la costruzione di una società,
comunque la si chiami, che abolisse lo sfruttamento e le ingiustizie del
capitalismo, era parte integrante della sua esistenza e della sua militanza.

Quando Urss e Cina - le due grandi potenze del comunismo mondiale, che
dovevano essere, ciascuna per quanto le competeva, vindici e garanti di un
ordine diverso - arrivarono all'orlo della guerra, là sul fiume Ussuri, la
ferita le sembrò troppo lacerante per essere solo una materia di studio.
Eppure, assorbito il trauma, anche psicologico, si mise subito al lavoro per
raccogliere documenti e analisi in grado di spiegare i perché di quella
lotta, magari fratricida, che derivava comunque dalle dinamiche storiche.
Dopo la tragedia della piazza Tien An Men si interrogò ancora più in
profondità sulle possibilità di regressioni autoritarie e repressive fino ai
limiti del fascismo anche dopo una rottura rivoluzionaria.

La Cina era uno dei «nostri paesi», uno dei «suoi» paesi, ma il suo rigore
di trentina, nata in una famiglia di frontiera, non si conciliava con
nessuna compiacenza. Né giustificazionismo né rimpianto: solo l'esaltante,
drammatica, contraddittoria «lezione della storia». Una lezione appunto,
cara Enrica.