[Cerchio] La sconfitta del pacifismo

Delete this message

Reply to this message
Author: Tuula Haapiainen
Date:  
Subject: [Cerchio] La sconfitta del pacifismo
----- Original Message -----
From: "clochard" <spartacok@???>
To: <movimento@???>; <cerchio@???>
Sent: Saturday, April 12, 2003 12:24 AM
Subject: [Cerchio] La sconfitta del pacifismo


> Mario Tronti, un eccezionale maestro che si è separato da noi da + di 3
> decenni. E tuttavia conserva la zampata dell'animale di
> razza...Attenzione!Non è certo diventato un comunista libertario.


Ma Tronti cosa è dunque?
tuula

>
> dal Manifesto
> Che fare dell'Occidente?
> Commento in diretta alla presa di Baghdad, ultima puntata di un film
> cominciato nell'89. Golia senza Davide: la guerra del declino americano,

lo
> scontro di civiltà che diventa scontro di barbarie, il linguaggio politico
> che diventa linguaggio religioso. La sconfitta del pacifismo, i guasti

delle
> democrazie reali. In gioco, il futuro dell'Occidente fra Kultur e
> geopolitica, e il ruolo di un'Europa aperta a est e a ovest. Intervista

con
> Mario Tronti
>
> IDA DOMINIJANNI
>
>
>
> Parlo con Mario Tronti mentre in televisione scorrono le immagini dei

carri
> americani che entrano a Bagdad e degli idoli del regime di Saddam che
> vengono distrutti. Ancora poche ore prima, quando ci siamo dati
> appuntamento, nessuno prevedeva che finisse così in fretta. E' un film già
> visto sul calare del Novecento: regimi che crollano come birilli sotto le
> insegne vincitrici di una democrazia occidentale che nel frattempo si
> sfigura a sua volta.
>
> Commentiamo in diretta: com'è finita, in Iraq?
>
> E' finita secondo i moduli della storia più antica, quella che ci ha
> insegnato Tucidide ai tempi del Peloponneso: con la vittoria del più

forte.
> Quando la sproporzione delle forze è gigantesca, non c'è niente da fare:

non
> è più vero che può vincere il più debole se è anche il più abile - e
> stavolta oltretutto il più debole non era il più abile. Non c'è più

Davide,
> c'è solo Golia.
>
> La vittoria militare americana è schiacciante, né c'è mai stato dubbio che
> lo sarebbe stata. E' anche una vittoria politica schiacciante?
>
> Se stiamo all'immagine sì. Torna l'immaginario politico ricorrente
> dall'Ottantanove in poi: muri che crollano, statue che cascano, regimi che
> si squagliano, capiregime che scompaiono, e la democrazia che trionfa. Se
> scaviamo sotto i fotogrammi di questo film, le cose però si fanno più
> complicate. La classe dirigente che ha preso il potere negli Stati uniti

ha
> indubitabilmente un Dna molto aggressivo, ma questa aggressività segnala a
> mio avviso una posizione di relativa debolezza. Il dispiegamento di forza
> militare e tecnologica, ad esempio, stavolta è stato evidentemente troppo
> sproporzionato rispetto all'obiettivo tutto sommato facile da abbattere.
> Perché questa continua sovraesposizione di forza davanti al mondo? Una
> potenza realmente sicura di sé non ne avrebbe bisogno. La verità è che,
> mentre alimentano l'immagine di una potenza in continua ascesa economica,
> politica e geostrategica, i neoconservatives percepiscono il declino
> dell'egemonia statunitense, della civilization americana che ha portato ai
> suoi esiti estremi la grande avventura della modernità occidentale. E ne
> deducono che la prima cosa da fare è arrestare questo declino in qualche
> modo, per poi ripartire. Hanno un incubo, l'avvento del secolo asiatico

dopo
> il secolo americano, una sorta di fatalità che accusano l'Europa di
> accettare con rassegnazione.
>
> Del resto, il grido di Huntington sullo scontro di civiltà partiva proprio
> da questa diagnosi.
>
> Sì, da pensatore realista qual è Huntington aveva individuato il punto,
> anche se ne traeva conclusioni sbagliate. Nella scelta strategica della
> «guerra preventiva infinita», e già prima nei documenti degli anni Novanta
> che la preparavano, tutto questo substrato di paure è venuto a galla: più
> che un eskaton ci vedo un katechon , più che l'idea di una salvezza da
> raggiungere il tentativo di trattenere una catastrofe imminente, mettendo
> dei valli ai confini del continente asiatico, dall'Afghanistan all'Iraq

alla
> Turchia - il che spiega perché quegli «stati canaglia» e non altri, perché
> fanno problema le armi chimiche di Saddam e non l'atomica della Corea del
> Nord. Questa strategia indica una debolezza americana. Una potenza davvero
> egemone, di fronte a una crisi dell'Occidente che faceva intravedere la
> contaminazione con altre civiltà, avrebbe scelto la via del confronto,
> dell'inclusione, dell'integrazione, non del trattenimento.
>
> In questa guerra c'è stata una inedita commistione fra lessico politico e
> lessico religioso. Ha a che fare con quello che stai dicendo?
>
> Sì, perché l'esportazione della democrazia in Iraq ha assunto l'aspetto di
> una sorta di evangelizzazione, tipica di una chiesa che deve trattenere il
> demonio per salvare quelli che ne sono sedotti. Nella guerra in Kosovo,

che
> pure era sbagliata, queste toni messianici non c'erano e il linguaggio era
> ancora quello dell'universalismo laico: c'era un'operazione di polizia
> giustificata in nome dell'etica dei diritti. L'uso politico del sacro che
> abbiamo visto stavolta a me pare, dopo la morte dei civili, l'aspetto più
> indecente di tutta la faccenda. L'indice di una regressione dal processo

di
> secolarizzazione a «grandi narrazioni» molto più rozze di quelle di tipo
> emancipatorio dichiarate morte dopo l'89.
>
> Con due fondamentalismi, quello cristiano e quello islamico, che ormai
> calcano la scena della politica.
>
> Entrambi negando in radice le grandi origini delle due religioni. Ma

mentre
> il fondamentalismo islamico è un fondamentalismo dal basso, che

corrisponde
> a una condizione endemica di subalternità, miseria e esclusione, il
> fondamentalismo cristiano americano è il portato di un'elite politica
> precisa, che l'ha scientemente adottato. Alla fine, nella guerra in Iraq è
> precipitato lo scontro non fra due civiltà ma fra due barbarie: stavolta

la
> condanna della guerra coincide con la condanna dei suoi protagonisti.
>
> Però la retorica, politico-religiosa, resta quella dello scontro di

civiltà.
> Con l'ingresso del primo carrarmato a Baghdad si levano, in Italia non

meno
> che negli Stati uniti, gli inni alla vittoria dell'Occidente e del suo
> prodotto più esportato, la democrazia. Mentre a me pare che l'immagine
> dell'Occidente esca assai compromessa dalla dottrina della guerra

preventiva
> e dalla sua prima applicazione in Iraq.
>
> Non solo l'immagine dell'Occidente inteso come Kultur, ma anche il futuro
> geopolitico dell'area che sta sulle due sponde dell'Atlantico. Il problema
> adesso è proprio questo: che fare dell'Occidente? Si apre un capitolo
> politico nuovo, difficile da praticare. C'è da decifrare la frattura fra
> Stati uniti e Europa provocata dalla guerra, che non si ricomporrà
> facilmente: Schroeder, Chirac, Putin non possono subire passivamente la
> vittoria americana - anzi, della parte peggiore dell'amministrazione
> americana - e lo scacco che ne ricevono. Ora, a differenza della sventura
> che ci vedono tutti, non solo a destra ma anche a sinistra, io in questa
> frattura vedo un'occasione politica carica di potenzialità. Se la sinistra
> europea avesse una classe dirigente, cioè esattamente quello che le manca,
> ci saprebbe riconoscere un terreno di grande politica, di politica-mondo.
> Perché a questo punto l'Europa, con le sue due porte aperte sull'est e
> sull'ovest, deve proporsi come ponte fra Oriente e Occidente, e

contribuire
> così a delineare per l'Occidente un destino non imperiale. E' questo

l'unico
> modo per riaprire e rilanciare i rapporti con gli Stati uniti, indicando

la
> strada di un'altra risposta, non aggressiva ma di crescita e di
> trasformazione, al declino americano. Voglio dire che è vero che non c'è
> Occidente senza gli Stati uniti, ma è anche vero che gli Stati uniti, se
> lasciati a se stessi, prendono la strada di un isolamento aggressivo e
> distruttivo. Mentre se si reinseriscono in un Occidente più vasto, a sua
> volta aperto a Oriente, possono ritrovare la vitalità di cui pure sono
> capaci.
>
> D'accordo, ma quale Europa dovrebbe farsi promotrice di questo progetto?
> L'Europa non è la risposta al problema, è una parte del problema. Anche
> Blair vuol fare da ponte fra Europa e America, a modo suo.
>
> Non l'Europa di Blair, evidentemente, ma quella franco-tedesca, che già
> dialoga con la Cina e la Russia, e più in generale l'Europa che sta
> all'opposizione della dottrina Bush. L'Europa che può parlare a quella

parte
> tutt'altro che insignificante della società americana che sta anch'essa
> all'opposizione, ma che dopo l'11 settembre non è riuscita a trovare la

via
> per ritornare in campo come grande soggetto politico democratico. E però
> deve trovarla, se non vogliamo che Bush si consolidi: oggi come oggi, ha

la
> rielezione in tasca.
>
> Un'Europa-ponte dev'essere anche un'Europa-potenza? Questione non

marginale,
> in tempi - ardui - di costruzione dell'Unione e di definizione delle sue
> competenze, comprese quelle in materia di sicurezza e di politica estera.
>
> Inevitabilmente sì, dev'essere anche un'Europa-potenza, cioè un'Europa in
> grado di fare da forza di contrasto all'unilateralismo americano. Abbiamo
> passato quattordici anni a parlare dei disastri del vecchio bipolarismo,

ed
> eccoci ora immersi nei danni del nuovo unipolarismo. Non abbiamo saputo

fare
> i conti davvero con quello che comporta non tanto il pensiero unico,

quanto
> la potenza unica. La stessa figura dell'Impero proposta da Negri e Hardt,
> che colloca il potere globale non negli Stati uniti ma in una struttura
> mondiale, in un certo senso ha contribuito a mettere in ombra il fatto che
> negli Stati uniti si è realizzata una potenza di livello unico. E come si
> contrasta, una potenza così? Lo so che qui faccio la parte antipatica del
> solito sostenitore del modello della forza nelle relazioni internazionali:
> ma io non credo che si contrasti con la moltitudine, bensì con un

equilibrio
> di potenze. L'Europa-ponte deve emergere come campo culturale aperto
> all'Oriente, come differenza culturale dal cuore nero dell'America, ma

deve
> avere anche la forza di una potenza di contrasto dell'unilateralismo
> americano. La preparazione e la conduzione della guerra all'Iraq

dimostrano
> che gli Stati uniti possono fare, militarmente parlando, quello che
> vogliono, quando vogliono, come vogliono. Questo strapotere non si ferma
> solo con le bandiere arcobaleno alle finestre. Crudamente io dico: c'è

stata
> una sconfitta del pacifismo, bisogna avere il coraggio di guardarla in
> faccia. L'immagine delle due superpotenze, gli Usa e l'opinione pubblica,
> inventata dal New York Times, è suggestiva e incoraggiante quando facciamo

i
> cortei, ma è falsa: ci può essere un'opinione pubblica enorme ma

impotente,
> a fronte di una potenza solitaria priva di forze di contrasto.
>
> Non sono d'accordo: dipende dal metro di misura. Certo, se l'unico metro

di
> misura è quello della forza, hai ragione tu. Però a me pare che l'immagine
> del New York Times cogliesse una verità: ci sono state davvero due potenze
> in campo, quella militare americana e quella del movimento globale no-war.
> Il problema è che sono due potenze asimmetriche, più che opposte, per

natura
> e obiettivi. E che, come i fatti hanno dimostrato, la prima può
> tranquillamente prescindere dalla seconda, anche se quest'ultima fosse di
> proporzioni oceaniche. Questo mi pare un lascito serio della guerra in

Iraq:
> le nostre democrazie sono ormai strutturalmente segnate da questa

scissione
> fra sistema politico e opinione pubblica.
>
> Su questo sono d'accordo, c'è in campo il problema, urgente, del rapporto
> guerra-democrazia. L'homo democraticus è ostile alla guerra, per ragioni
> etiche, essendo educato alle promesse della tolleranza, e per ragioni
> edonistiche,essendo un soggetto apatico e consumista. Il Pentagono non

aveva
> previsto questo nuovo pacifismo democratico, e quando l'ha visto non ne ha
> tenuto conto. E' vero, in questo c'è una asimmetria che la dice lunga

sullo
> stato della democrazia reale. Il mio problema oggi infatti non sono tanto

i
> pericoli, su cui insisteva pochi giorni fa sul manifesto Alberto Asor

Rosa,
> che la guerra comporta per le libertà democratiche. E' il fatto che i
> sistemi democratici hanno in corpo una sorta di totalitarismo mascherato:

se
> non possono più fare la guerra con la mobilitazione totale, la fanno non
> tenendo conto della mobilitazione no-war. E la fanno perché l'opinione
> pubblica, che è un prodotto squisitamente democratico, non ce la fa a
> metterli realmente in difficoltà. Questo sul versante no-war. Sul versante
> pro, nel frattempo, agiscono gli strumenti classici di manipolazione. Lato
> totalitario e lato comunicativo insomma si tengono, nelle democrazie
> contemporanee. Morale: anche da questa guerra viene fuori la necessità di
> una critica della democrazia. Delle contraddizioni e delle aporie interne

ai
> sistemi democratici. Un altro campo di iniziativa politica immenso, se

solo
> la sinistra la smettesse di accodarsi al coro monotonale della religione
> democratica.
>
> Venerdì si apre a Siena un convegno su guerra e pace. Il tuo intervento
> parte da un motto di Aron, «Pace impossibile, guerra improbabile», che
> risale ai primi anni Sessanta. In che chiave lo rileggi oggi?
>
> Nella chiave dell'equilibrio delle forze, appunto. Il discorso di Aron,

che
> era un conservatore liberale, uno spectateur engagé come si definiva,

matura
> fra il `60 e il `61, quando la Guerra fredda stava diventando coesistenza
> pacifica. A sua volta, Aron rilegge le due formule di Clausewitz - la

guerra
> come annientamento e distruzione dell'avversario, la politica come
> supremazia sulla guerra - e sostiene che ciò che decide fra l'una e

l'altra
> è la condizione dell'equilibrio delle forze. Se c'è equilibrio delle

forze,
> c'è politica sopra la guerra; se non c'è, c'è guerra di distruzione e
> annientamento - come in Iraq. Aron vedeva nell'equilibrio del terrore,

cioè
> nell'atomica, un fattore di deterrenza, e aveva ragione: l'eventualità

della
> distruzione totale obbligava al primato della politica sulla guerra, in

una
> situazione in cui la pace era impossibile per via della confrontation fra

i
> due blocchi, la guerra improbabile per via della paura della distruzione
> totale. Oggi, io credo, dobbiamo ripensare questo discorso nella
> confrontation fra armi di distruzione e terrorismo.
>
> Che però, di nuovo, sono due armi asimmetriche, mentre durante la Guerra
> fredda la deterrenza si basava sul possesso simmetrico dell'atomica. E

molto
> più asimmetrici dei due blocchi sono i due «nemici» che si confrontano

oggi
> ...
>
> Sì, ma ambedue sono armi di distruzione, e l'asimmetria comporta che non

si
> può usare l'atomica contro il terrorismo, e nemmeno il viceversa. Dunque,

la
> supremazia della politica sulla guerra ritorna come unica alternativa

possib
> ile contro la spirale guerra-terrorismo. E tanto più in una così forte
> asimmetria fra i contendenti, la politica deve trovare nuove forme, nuovi
> linguaggi, nuove istituzioni, per entrare a contatto con le società in cui
> il terrorismo prende piede. Ci sono invenzioni istituzionali
> extraoccidentali di cui farsi carico, per la sinistra europea, oltre la
> Costituzione dell'Unione. Non si può esportare la democrazia come un
> prodotto impacchettato, gli americani l'hanno già visto in Afghanistan e

lo
> vedranno ancora meglio in Iraq.
>
> Finiamo sull'Europa. Da Kagan in poi, circola in un certo antieropeismo
> americano l'immagine di un'Europa che può prendersi il lusso di

acquietarsi
> sulla pace e la legge di Kant perché dall'altra parte dell'oceano ci sono
> gli Stati uniti che fanno il lavoro sporco della guerra riscoprendo il
> Leviatano di Hobbes. L'altro ieri, Giuliano Amato ha controproposto Locke

a
> Kant. Anche questo repechage dalla galleria dei classici fa molto
> post-modern. Tu quale busto scegli?
>
> Mettiamola così: per superare questa frattura tanto vale ripartire da

Hegel.
> Che faceva sia il lavoro sporco dello Stato prussiano sia quello pulito di
> dare una forma costituzionale allo Stato moderno.
>
>
> per cancellarsi dalla lista, andare su

https://www.inventati.org/mailman/listinfo/cerchio