著者: clochard 日付: 題目: [Cerchio] La sconfitta del pacifismo
Mario Tronti, un eccezionale maestro che si è separato da noi da + di 3
decenni. E tuttavia conserva la zampata dell'animale di
razza...Attenzione!Non è certo diventato un comunista libertario.
dal Manifesto
Che fare dell'Occidente?
Commento in diretta alla presa di Baghdad, ultima puntata di un film
cominciato nell'89. Golia senza Davide: la guerra del declino americano, lo
scontro di civiltà che diventa scontro di barbarie, il linguaggio politico
che diventa linguaggio religioso. La sconfitta del pacifismo, i guasti delle
democrazie reali. In gioco, il futuro dell'Occidente fra Kultur e
geopolitica, e il ruolo di un'Europa aperta a est e a ovest. Intervista con
Mario Tronti
IDA DOMINIJANNI
Parlo con Mario Tronti mentre in televisione scorrono le immagini dei carri
americani che entrano a Bagdad e degli idoli del regime di Saddam che
vengono distrutti. Ancora poche ore prima, quando ci siamo dati
appuntamento, nessuno prevedeva che finisse così in fretta. E' un film già
visto sul calare del Novecento: regimi che crollano come birilli sotto le
insegne vincitrici di una democrazia occidentale che nel frattempo si
sfigura a sua volta.
Commentiamo in diretta: com'è finita, in Iraq?
E' finita secondo i moduli della storia più antica, quella che ci ha
insegnato Tucidide ai tempi del Peloponneso: con la vittoria del più forte.
Quando la sproporzione delle forze è gigantesca, non c'è niente da fare: non
è più vero che può vincere il più debole se è anche il più abile - e
stavolta oltretutto il più debole non era il più abile. Non c'è più Davide,
c'è solo Golia.
La vittoria militare americana è schiacciante, né c'è mai stato dubbio che
lo sarebbe stata. E' anche una vittoria politica schiacciante?
Se stiamo all'immagine sì. Torna l'immaginario politico ricorrente
dall'Ottantanove in poi: muri che crollano, statue che cascano, regimi che
si squagliano, capiregime che scompaiono, e la democrazia che trionfa. Se
scaviamo sotto i fotogrammi di questo film, le cose però si fanno più
complicate. La classe dirigente che ha preso il potere negli Stati uniti ha
indubitabilmente un Dna molto aggressivo, ma questa aggressività segnala a
mio avviso una posizione di relativa debolezza. Il dispiegamento di forza
militare e tecnologica, ad esempio, stavolta è stato evidentemente troppo
sproporzionato rispetto all'obiettivo tutto sommato facile da abbattere.
Perché questa continua sovraesposizione di forza davanti al mondo? Una
potenza realmente sicura di sé non ne avrebbe bisogno. La verità è che,
mentre alimentano l'immagine di una potenza in continua ascesa economica,
politica e geostrategica, i neoconservatives percepiscono il declino
dell'egemonia statunitense, della civilization americana che ha portato ai
suoi esiti estremi la grande avventura della modernità occidentale. E ne
deducono che la prima cosa da fare è arrestare questo declino in qualche
modo, per poi ripartire. Hanno un incubo, l'avvento del secolo asiatico dopo
il secolo americano, una sorta di fatalità che accusano l'Europa di
accettare con rassegnazione.
Del resto, il grido di Huntington sullo scontro di civiltà partiva proprio
da questa diagnosi.
Sì, da pensatore realista qual è Huntington aveva individuato il punto,
anche se ne traeva conclusioni sbagliate. Nella scelta strategica della
«guerra preventiva infinita», e già prima nei documenti degli anni Novanta
che la preparavano, tutto questo substrato di paure è venuto a galla: più
che un eskaton ci vedo un katechon , più che l'idea di una salvezza da
raggiungere il tentativo di trattenere una catastrofe imminente, mettendo
dei valli ai confini del continente asiatico, dall'Afghanistan all'Iraq alla
Turchia - il che spiega perché quegli «stati canaglia» e non altri, perché
fanno problema le armi chimiche di Saddam e non l'atomica della Corea del
Nord. Questa strategia indica una debolezza americana. Una potenza davvero
egemone, di fronte a una crisi dell'Occidente che faceva intravedere la
contaminazione con altre civiltà, avrebbe scelto la via del confronto,
dell'inclusione, dell'integrazione, non del trattenimento.
In questa guerra c'è stata una inedita commistione fra lessico politico e
lessico religioso. Ha a che fare con quello che stai dicendo?
Sì, perché l'esportazione della democrazia in Iraq ha assunto l'aspetto di
una sorta di evangelizzazione, tipica di una chiesa che deve trattenere il
demonio per salvare quelli che ne sono sedotti. Nella guerra in Kosovo, che
pure era sbagliata, queste toni messianici non c'erano e il linguaggio era
ancora quello dell'universalismo laico: c'era un'operazione di polizia
giustificata in nome dell'etica dei diritti. L'uso politico del sacro che
abbiamo visto stavolta a me pare, dopo la morte dei civili, l'aspetto più
indecente di tutta la faccenda. L'indice di una regressione dal processo di
secolarizzazione a «grandi narrazioni» molto più rozze di quelle di tipo
emancipatorio dichiarate morte dopo l'89.
Con due fondamentalismi, quello cristiano e quello islamico, che ormai
calcano la scena della politica.
Entrambi negando in radice le grandi origini delle due religioni. Ma mentre
il fondamentalismo islamico è un fondamentalismo dal basso, che corrisponde
a una condizione endemica di subalternità, miseria e esclusione, il
fondamentalismo cristiano americano è il portato di un'elite politica
precisa, che l'ha scientemente adottato. Alla fine, nella guerra in Iraq è
precipitato lo scontro non fra due civiltà ma fra due barbarie: stavolta la
condanna della guerra coincide con la condanna dei suoi protagonisti.
Però la retorica, politico-religiosa, resta quella dello scontro di civiltà.
Con l'ingresso del primo carrarmato a Baghdad si levano, in Italia non meno
che negli Stati uniti, gli inni alla vittoria dell'Occidente e del suo
prodotto più esportato, la democrazia. Mentre a me pare che l'immagine
dell'Occidente esca assai compromessa dalla dottrina della guerra preventiva
e dalla sua prima applicazione in Iraq.
Non solo l'immagine dell'Occidente inteso come Kultur, ma anche il futuro
geopolitico dell'area che sta sulle due sponde dell'Atlantico. Il problema
adesso è proprio questo: che fare dell'Occidente? Si apre un capitolo
politico nuovo, difficile da praticare. C'è da decifrare la frattura fra
Stati uniti e Europa provocata dalla guerra, che non si ricomporrà
facilmente: Schroeder, Chirac, Putin non possono subire passivamente la
vittoria americana - anzi, della parte peggiore dell'amministrazione
americana - e lo scacco che ne ricevono. Ora, a differenza della sventura
che ci vedono tutti, non solo a destra ma anche a sinistra, io in questa
frattura vedo un'occasione politica carica di potenzialità. Se la sinistra
europea avesse una classe dirigente, cioè esattamente quello che le manca,
ci saprebbe riconoscere un terreno di grande politica, di politica-mondo.
Perché a questo punto l'Europa, con le sue due porte aperte sull'est e
sull'ovest, deve proporsi come ponte fra Oriente e Occidente, e contribuire
così a delineare per l'Occidente un destino non imperiale. E' questo l'unico
modo per riaprire e rilanciare i rapporti con gli Stati uniti, indicando la
strada di un'altra risposta, non aggressiva ma di crescita e di
trasformazione, al declino americano. Voglio dire che è vero che non c'è
Occidente senza gli Stati uniti, ma è anche vero che gli Stati uniti, se
lasciati a se stessi, prendono la strada di un isolamento aggressivo e
distruttivo. Mentre se si reinseriscono in un Occidente più vasto, a sua
volta aperto a Oriente, possono ritrovare la vitalità di cui pure sono
capaci.
D'accordo, ma quale Europa dovrebbe farsi promotrice di questo progetto?
L'Europa non è la risposta al problema, è una parte del problema. Anche
Blair vuol fare da ponte fra Europa e America, a modo suo.
Non l'Europa di Blair, evidentemente, ma quella franco-tedesca, che già
dialoga con la Cina e la Russia, e più in generale l'Europa che sta
all'opposizione della dottrina Bush. L'Europa che può parlare a quella parte
tutt'altro che insignificante della società americana che sta anch'essa
all'opposizione, ma che dopo l'11 settembre non è riuscita a trovare la via
per ritornare in campo come grande soggetto politico democratico. E però
deve trovarla, se non vogliamo che Bush si consolidi: oggi come oggi, ha la
rielezione in tasca.
Un'Europa-ponte dev'essere anche un'Europa-potenza? Questione non marginale,
in tempi - ardui - di costruzione dell'Unione e di definizione delle sue
competenze, comprese quelle in materia di sicurezza e di politica estera.
Inevitabilmente sì, dev'essere anche un'Europa-potenza, cioè un'Europa in
grado di fare da forza di contrasto all'unilateralismo americano. Abbiamo
passato quattordici anni a parlare dei disastri del vecchio bipolarismo, ed
eccoci ora immersi nei danni del nuovo unipolarismo. Non abbiamo saputo fare
i conti davvero con quello che comporta non tanto il pensiero unico, quanto
la potenza unica. La stessa figura dell'Impero proposta da Negri e Hardt,
che colloca il potere globale non negli Stati uniti ma in una struttura
mondiale, in un certo senso ha contribuito a mettere in ombra il fatto che
negli Stati uniti si è realizzata una potenza di livello unico. E come si
contrasta, una potenza così? Lo so che qui faccio la parte antipatica del
solito sostenitore del modello della forza nelle relazioni internazionali:
ma io non credo che si contrasti con la moltitudine, bensì con un equilibrio
di potenze. L'Europa-ponte deve emergere come campo culturale aperto
all'Oriente, come differenza culturale dal cuore nero dell'America, ma deve
avere anche la forza di una potenza di contrasto dell'unilateralismo
americano. La preparazione e la conduzione della guerra all'Iraq dimostrano
che gli Stati uniti possono fare, militarmente parlando, quello che
vogliono, quando vogliono, come vogliono. Questo strapotere non si ferma
solo con le bandiere arcobaleno alle finestre. Crudamente io dico: c'è stata
una sconfitta del pacifismo, bisogna avere il coraggio di guardarla in
faccia. L'immagine delle due superpotenze, gli Usa e l'opinione pubblica,
inventata dal New York Times, è suggestiva e incoraggiante quando facciamo i
cortei, ma è falsa: ci può essere un'opinione pubblica enorme ma impotente,
a fronte di una potenza solitaria priva di forze di contrasto.
Non sono d'accordo: dipende dal metro di misura. Certo, se l'unico metro di
misura è quello della forza, hai ragione tu. Però a me pare che l'immagine
del New York Times cogliesse una verità: ci sono state davvero due potenze
in campo, quella militare americana e quella del movimento globale no-war.
Il problema è che sono due potenze asimmetriche, più che opposte, per natura
e obiettivi. E che, come i fatti hanno dimostrato, la prima può
tranquillamente prescindere dalla seconda, anche se quest'ultima fosse di
proporzioni oceaniche. Questo mi pare un lascito serio della guerra in Iraq:
le nostre democrazie sono ormai strutturalmente segnate da questa scissione
fra sistema politico e opinione pubblica.
Su questo sono d'accordo, c'è in campo il problema, urgente, del rapporto
guerra-democrazia. L'homo democraticus è ostile alla guerra, per ragioni
etiche, essendo educato alle promesse della tolleranza, e per ragioni
edonistiche,essendo un soggetto apatico e consumista. Il Pentagono non aveva
previsto questo nuovo pacifismo democratico, e quando l'ha visto non ne ha
tenuto conto. E' vero, in questo c'è una asimmetria che la dice lunga sullo
stato della democrazia reale. Il mio problema oggi infatti non sono tanto i
pericoli, su cui insisteva pochi giorni fa sul manifesto Alberto Asor Rosa,
che la guerra comporta per le libertà democratiche. E' il fatto che i
sistemi democratici hanno in corpo una sorta di totalitarismo mascherato: se
non possono più fare la guerra con la mobilitazione totale, la fanno non
tenendo conto della mobilitazione no-war. E la fanno perché l'opinione
pubblica, che è un prodotto squisitamente democratico, non ce la fa a
metterli realmente in difficoltà. Questo sul versante no-war. Sul versante
pro, nel frattempo, agiscono gli strumenti classici di manipolazione. Lato
totalitario e lato comunicativo insomma si tengono, nelle democrazie
contemporanee. Morale: anche da questa guerra viene fuori la necessità di
una critica della democrazia. Delle contraddizioni e delle aporie interne ai
sistemi democratici. Un altro campo di iniziativa politica immenso, se solo
la sinistra la smettesse di accodarsi al coro monotonale della religione
democratica.
Venerdì si apre a Siena un convegno su guerra e pace. Il tuo intervento
parte da un motto di Aron, «Pace impossibile, guerra improbabile», che
risale ai primi anni Sessanta. In che chiave lo rileggi oggi?
Nella chiave dell'equilibrio delle forze, appunto. Il discorso di Aron, che
era un conservatore liberale, uno spectateur engagé come si definiva, matura
fra il `60 e il `61, quando la Guerra fredda stava diventando coesistenza
pacifica. A sua volta, Aron rilegge le due formule di Clausewitz - la guerra
come annientamento e distruzione dell'avversario, la politica come
supremazia sulla guerra - e sostiene che ciò che decide fra l'una e l'altra
è la condizione dell'equilibrio delle forze. Se c'è equilibrio delle forze,
c'è politica sopra la guerra; se non c'è, c'è guerra di distruzione e
annientamento - come in Iraq. Aron vedeva nell'equilibrio del terrore, cioè
nell'atomica, un fattore di deterrenza, e aveva ragione: l'eventualità della
distruzione totale obbligava al primato della politica sulla guerra, in una
situazione in cui la pace era impossibile per via della confrontation fra i
due blocchi, la guerra improbabile per via della paura della distruzione
totale. Oggi, io credo, dobbiamo ripensare questo discorso nella
confrontation fra armi di distruzione e terrorismo.
Che però, di nuovo, sono due armi asimmetriche, mentre durante la Guerra
fredda la deterrenza si basava sul possesso simmetrico dell'atomica. E molto
più asimmetrici dei due blocchi sono i due «nemici» che si confrontano oggi
...
Sì, ma ambedue sono armi di distruzione, e l'asimmetria comporta che non si
può usare l'atomica contro il terrorismo, e nemmeno il viceversa. Dunque, la
supremazia della politica sulla guerra ritorna come unica alternativa possib
ile contro la spirale guerra-terrorismo. E tanto più in una così forte
asimmetria fra i contendenti, la politica deve trovare nuove forme, nuovi
linguaggi, nuove istituzioni, per entrare a contatto con le società in cui
il terrorismo prende piede. Ci sono invenzioni istituzionali
extraoccidentali di cui farsi carico, per la sinistra europea, oltre la
Costituzione dell'Unione. Non si può esportare la democrazia come un
prodotto impacchettato, gli americani l'hanno già visto in Afghanistan e lo
vedranno ancora meglio in Iraq.
Finiamo sull'Europa. Da Kagan in poi, circola in un certo antieropeismo
americano l'immagine di un'Europa che può prendersi il lusso di acquietarsi
sulla pace e la legge di Kant perché dall'altra parte dell'oceano ci sono
gli Stati uniti che fanno il lavoro sporco della guerra riscoprendo il
Leviatano di Hobbes. L'altro ieri, Giuliano Amato ha controproposto Locke a
Kant. Anche questo repechage dalla galleria dei classici fa molto
post-modern. Tu quale busto scegli?
Mettiamola così: per superare questa frattura tanto vale ripartire da Hegel.
Che faceva sia il lavoro sporco dello Stato prussiano sia quello pulito di
dare una forma costituzionale allo Stato moderno.