Szerző: clochard Dátum: Tárgy: [Cerchio] Le stupide equazioni
Le stupide equazioni
ALESSANDRO PORTELLI
Non ne posso più dell'ipocrita dilemma che ci viene imposto - guerra corta o
guerra lunga - e della dabbenaggine di noialtri che ci caschiamo. Non ne
posso più perché è fragile se non falsa l'equazione guerra corta=meno morti.
Su Diario del 21 marzo, un'elaborata analisi con modelli matematici di
provata precisione confindustriale dimostrava con tanto di grafici e tabelle
che non esiste una relazione necessaria fra durata della guerra e numero di
morti (naturalmente, non l'ha ripresa nessuno). Adesso che, come si suol
dire, buona o cattiva che sia, la resistenza irachena comunque «c'è», guerra
corta vuol dire solo che il numero di morti necessario a sconfiggerla sarà
concentrato in meno tempo, non necessariamente che sarà minore. Forse ci
saranno meno morti bianchi, cristiani e occidentali, perché la guerra si
farà soprattutto dal cielo dove i nostri sono invulnerabili; forse, ci
saranno meno morti adesso, ma una guerra più breve perché più tecnologica
può fare un disastro ambientale anche più grave per cui ci saranno molti più
morti dopo. Questo l'aveva avvertito l'Onu già da febbraio, con un documento
ufficiale di cui non si ricorda più nessuno. Ma dopo noi avremo già cambiato
canale, magari staremo facendo il tifo per un'altra partita breve e
vittoriosa da qualche altra parte. Questa storia che la guerra deve essere
breve e con pochi morti è una lacera foglia di fico per la cattiva coscienza
di chi l'ha voluta o ha fatto in fretta ad adattarcisi. (Ma, torno a dire:
quanti sono «meno morti possibile»? C'è un'emergenza mondiale, giustamente,
per ottanta morti di polmonite atipica. Una giornata di guerra
angloamericana ne fa altrettanti. Una giornata di guerra è già una guerra
troppo lunga).
Non ne posso più di dispiacerci solo per i morti civili. Anche i combattenti
sono persone (cosa di cui ci ricordiamo solo quando muore un militare
americano). Perché nel conto di questa guerra, come di tutte le guerre del
passato, non dobbiamo mettere anche loro e le loro famiglie? Se i
combattenti morti, feriti, mutilati non contano, allora sarà il caso di
buttare giù tutti quei monumenti ai caduti che ornano o deturpano le piazze
d'Italia. I seicentomila morti della prima guerra mondiale erano combattenti
armati; quindi era legale ammazzarli. Di che si lamentano? Se ne stiano lì a
dormire sepolti nei campi di grano, o nei cumuli di sabbia, e non rompano le
scatole.
Non ne posso più dell'ipocrisia di «chi non è con Bush è con Saddam». Non
sono stati i «pacifisti assoluti» a finanziare e armare Saddam (e a mettersi
in affari con la famiglia bin Laden), non siamo stati noi a far finta di non
vedere quando gasava curdi e bombardava iracheni, ad accorgerci dell'urgenza
imprescindibile di abbattere a qualunque prezo (per gli altri) il
sanguinario tiranno che minaccia il mondo solo dopo che ce l'ha detto Bush.
Non ne posso più di quelli che fanno finta di scordarsi che la guerra è
cominciata per la certezza che Saddam aveva armi di distruzione di massa. E
che magari sperano che ce le abbia e le adoperi, così si dimostra che Blix
aveva torto e Bush ragione. Non ne posso più di pagine culturali serie che
fanno titoli ricattatori tipo «Né con Hitler né con Churchill?». Quando la
finiremo di banalizzare la Shoah inventandoci un nuovo Hitler a ogni pié
sospinto? Se non sbaglio, questo è il terzo o quarto in meno di dieci anni.
Ma se l'analogia Hitler=Saddam è stiracchiata assai, bisogna essere proprio
fuori di testa o accecati dall'ideologia per equiparare Bush con Churchill
(quello della seconda guerra mondiale, che come minimo non era guerra
preventiva, e comunque i nostri antenati di sinistra stavano con lui, con
Stalin e con Roosevelt. Sul Churchill della guerra coi boeri, un pensierino
ce lo farei). Non ne posso più perché non vedo con quale faccia tosta si
possa pretendere di farmi stare con Bush.
A conti fatti, in nome mio e della mia civiltà, ha fatto ammazzare più
innocenti Bush di tutto il terrorismo messo insieme, torri gemelle comprese.
Non ne posso più di dover fare il tifo per Bush perché l'America è una
Grande Democrazia. La dinastia Bush questa democrazia come minimo la sta
aiutando a suicidarsi. Eletto con meno voti del suo avversario, con un
conteggio ai limiti del broglio, con un decisione ai limiti del colpo di
stato; portatore, lui e i suoi consiglieri, di un conflitto d'interessi
(petrolio, armi) che al confronto Berlusconi è un giglio - e sarebbe il
campione della democrazia? Se alla democrazia americana gli vogliamo bene
davvero, bisogna fermarlo. Arrestano gente senza habeas corpus e la tengono
in galera senza diritti; legittimano la tortura; si arrogano il diritto di
arrestare chiunque, dovunque, e di processarlo e condannarlo a morte in
segreto e senza difensori; aboliscono i diritti sindacali; legittimano ogni
forma di spionaggio poliziesco, in nome di questa guerra e di altre future;
e nella misura in cui hanno consenso, vuol dire che deturpano anche le
coscienze, che la democrazia cominciano ad avvelenarla già nella mente dei
cittadini. Il senato dell'Oregon sta discutendo una legge (Bill 742) che
commina l'ergastolo per il crimine di «terrorismo» - così definito:
«partecipare a un'azione che nelle intenzioni di almeno uno dei suoi
partecipanti abbia il fine di intralciare la libera e ordinata assemblea
degli abitanti dello Stato dell'Oregon; il commercio o i sistemi di
trasporto; le istituzioni educative o governative dello Stato dell'Oregon».
Cioè: sei un terrorista e vai in prigione a vita se partecipi a una riunione
in cui uno dei presenti abbia intenzione di fare un sit-in al consiglio
comunale o un blocco stradale o occupare una scuola. E' già preoccupante che
un senatore la proponga; né so quanti oseranno sfidare il rischio di passare
per filoterroristi votando contro. Ma l'Oregon è un posto vero con gente
vera; la Grande Democrazia Americana vagheggiata dai nostri soloni è un
costrutto mentale che sempre più allenta i rapporti con la terra e coi
corpi. Peccato, perché stanno sfasciando una cosa che ci apparteneva e a cui
appartenevamo. Non ne posso più della guerra contro il linguaggio:
dell'eufemismo che dice «intervento» invece che «guerra», che chiama le
bombe «uso della forza»; dei giochini per cui la guerra è sempre fra «gli
alleati» e «gli uomini di Saddam», mai fra «l'Iraq» e «gli uomini di Bush e
Blair». Non ne posso più di dover sperare che la guerra finisca con una
rapida vittoria americana perché così poi sarà possibile «opporsi alla
filosofia che ha guidato l'intervento Usa proponendo un'alternativa
efficace». Ma se da questa filosofia scaturisce una guerra rapida, indolore
(per «gli alleati») e vittoriosa, perché mai i vincitori dovrebbero
accettare di ridiscuterla? e con chi, poi? con l'Onu che hanno sfasciato?
Bush ce l'ha spiegato cento volte: chi non è con noi è contro di noi. La
filosofia è questa, che c'è da discutere? E comunque: esiste davvero
un'alternativa efficace alla filosofia proclamata in fior di documenti
pubblici del governo americano (fino a «The National Security Strategy» del
novembre scorso), secondo cui gli Usa hanno diritto a esercitare una
egemonia ineguagliata («unparalleled and unequalled») sul mondo intero? Ma
via!
Non ne posso più di «se perde Bush vince Saddam». Hanno già vinto tutti e
due. Bush avrà il suo petrolio e il plauso dei tifosi di guerra, corta o
lunga che sia. E morto un Saddam se ne farà un altro, o lo inventeremo noi,
quinto o sesto «nuovo Hitler» della serie, perché non possiamo più farne a
meno. E poi via, verso nuove avventure. Non ne posso più di sentire i
distruttori e i loro clienti che litigano sulla ricostruzione. Ho letto da
qualche parte che Medici senza frontiere rifiuterebbe gli aiuti «umanitari»
dei paesi bombardanti. Non so se farei lo stesso, ma li capisco. Nella sua
satirica History of New York (1809), Washington Irving spiegava che la
conquista del continente americano era legittimata fra l'altro dal fatto che
gli europei «fecero conoscere ai selvaggi mille farmaci con cui si alleviano
e si curano le malattie più ostinate; e affinché potessero meglio
comprendere e godere i benefici di queste medicine, hanno provveduto a
introdurre fra loro tutte le malattie che erano destinati a curare». Ci
ripensavo leggendo degli afgani fatti a pezzi perché si confondevano fra le
bombe antiuomo e i pacchetti umanitari dello stesso colore, con kleenex e
peanut butter. E ci ho ripensato, vergognandomi, quando i soldati americani
che hanno distrutto una famiglia intera a cannonate poi gli hanno regalato i
sacchi di plastica per i cadaveri e «un numero imprecisato di dollari». E ci
ripenso leggendo George P. Curry (NNPA News, 26 marzo), che scrive: «Chi
ricostruirà l'America? George Bush dovrebbe andare a vedere certi ghetti
urbani nostrani (le «città di rovine» di Springsteen). Sembra che siano
stati attaccati da bombe antibunker e bombe intelligenti già prima che
queste tecnologiche armi di distruzione di massa entrassero in azione in
Iraq. Dubya, ho una proposta per te: proclama che questi quartieri sono
stati distrutti dalla guerra, poi chiama i tuoi amici della Haliburton e
della Bechtel a ricostruirli. Altro che shock and awe. Sarebbe un bel
risparmio, perché non c'è da spendere soldi per devastarli: i nostri
quartieri sono già devastati di suo».
Infine: non ne posso più di occuparmi di guerra, di essere occupato, invaso,
posseduto dalla guerra. C'è una canzone della prima guerra mondiale che
comincia: «non ne parliamo di questa guerra, che sarà lunga un'eternità». La
violenza delle guerre comincia già col fatto che ci obbligano a parlarne; e
tutte le guerre sono lunghe un'eternità. Quell'America che ci fa amare
l'America ci ha regalato un'altra canzone: «Metterò giù la spada e lo scudo,
sulla riva del fiume, e non mi occuperò più di guerra». «I ain't gonna study
war no more»: non voglio più avere la guerra in mente. La guerra ammala
anche la testa e la lingua di chi, per opporsi, ci deve pensare e ne deve
parlare; avvelena, coinvolge, recluta anche chi non la vuole e non la fa.
Vorrei che ci restituissero la libertà di pensare ad altro, di parlare
d'altro. E allora, insieme a Mahalia Jackson e a Pete Seeger, a Rosetta
Tharpe, Woody Guthrie, Louis Armstrong, Sam Cooke, cantiamolo nella loro
lingua, ai nostri fratelli americani: «I'm gonna lay down my sword and
shield, down by the riverside, down by the riverside; I ain't gonna study
war no more, I ain't gonna study war no more, I ain't gonna study - war -
no - more».