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Autor: clochard
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      Gli scenari della guerra posteroica






     di Massimiliano Guareschi


      Nel 1991, la Guerra del Golfo, mentre sanciva definitivamente la fine
dell'ordine bipolare ereditato dalla Guerra fredda, affermava con l'evidenza
dei fatti che nel nuovo contesto geopolitico una guerra convenzionale ad
alta intensità era possibile. Da quel momento, in forme diverse, il ricorso
alla guerra da parte dell'Occidente raccolto in configurazioni variabili
intorno alla potenza egemone degli Usa non ha conosciuto soluzioni di
continuità: Somalia, Bosnia, Iugoslavia, Afghanistan e forse, assai presto,
nuovamente l'Iraq.
      I fatti sono noti, tuttavia le difficoltà iniziano quando si tenta di
approfondire l'analisi, di cogliere il ruolo specifico svolto dalla guerra
nel nuovo contesto geopolitico, di individuare chiaramente attori,
schieramenti, finalità, strategie e poste in gioco di una determinata
precipitazione bellica. A fronte del susseguirsi delle azioni militari, i
tradizionali schemi con cui si guardava alla guerra sembrano non avere più
presa sulla realtà. I punti di riferimento che apparivano scontati sembrano
essersi dissolti. Ma che cosa è realmente cambiato, facendo della guerra una
realtà allo stesso tempo ubiqua e sfuggente. Per iniziare a orientarsi, si
può concentrare l'attenzione su due questioni fondamentali, che riguardano
da una parte il mutato impatto della guerra sulle popolazioni dei paesi
occidentali, dall'altra la strutturazione di uno scenario geopolitico
fortemente deistituzionalizzato nel quale si consuma la crisi definitiva
delle coppie concettuali chiave - guerra-pace, civile-militare,
nemico-criminale, interno-esterno - che per secoli avevano svolto un ruolo
fondamentale nella definizione delle relazioni internazionali e nella
concettualizzazione e comprensione della guerra.
      Per quanto riguarda l'impatto sulla società, è necessario sottolineare
come a partire dalla Guerra del Golfo gli Usa e i loro alleati siano sempre
stati impegnati in conflitti radicalmente asimmetrici, nei quali lo
squilibrio delle forze in campo determina non solo l'esito scontato della
guerra ma anche, sul versante occidentale, la riduzione delle operazioni di
combattimento a un'attività tecnica fra le altre, con rischi di perdite
umane assolutamente inferiori, per esempio, a quelli del settore edilizio.
Si tratta della realtà ormai consolidata dell'opzione zero. Ciò determina un
mutamento complessivo di atteggiamento nei confronti della guerra. A tal
proposito si potrebbe parlare di guerre posteroiche, in riferimento al fatto
che non essendo chiesti alle popolazioni occidentale sacrifici esistenziali
risultano del tutto inutili le tecniche di mobilitazioni totale e
coinvolgimento emotivo necessarie un tempo, quando la possibilità di
condurre azione belliche implicava la "disponibilità" alla morte in
combattimento della popolazione. A fronte di un'opinione pubblica
scarsamente coinvolta, risulta quindi sufficiente un rigido controllo dell'
informazione volto a disincarnare e a ridurre a semplice fattore tecnico le
operazioni militari. La Guerra del Golfo, con la rigida censura esercitata
dagli stati maggiori sulla circolazione di immagini e informazioni, ha
rappresentato senza dubbio un banco di prova per definire le modalità volte
a garantire il "consenso debole" sufficiente a supportare l'impegno militare
dei paesi occidentali. In un simile contesto, un numero di perdite
significativo si rivelerebbe difficilmente metabolizzabile, anche tenendo
conto della scarsa autonomia del sistema mediatico rispetto al potere
politico-militare. Di conseguenza, le stesse operazioni militari devono
essere pianificate a partite dall'obiettivo, ritenuto prioritario, dell'
assenza di perdite fra i militari occidentali. Il privilegio assoluto
riservato alla guerra aerea e il ricorso a bombardamenti massicci e
indiscriminati, che colpiscono prevalentemente la popolazione civile, si
presentano così come chiavi di volta di un'opzione strategica volta all'
annientamento completo delle capacità di risposta del nemico, che riserva
all'intervento di terra una funzione di presidio "a cose fatte", spesso in
ambigua simbiosi con le organizzazioni umanitarie. Dove tutto ciò non
risulta possibile, come in Somalia, emergono i punti deboli della guerra
posteroica, e se le poste in gioco non sono ritenute decisive, la ritirata
appare la scelta più ovvia.
      Il secondo elemento di mutazione a cui si faceva riferimento riguarda
la progressiva crisi di una serie di opposizioni classiche - pace-guerra,
interno-esterno, nemico-criminale, militare-civile - che per secoli hanno
svolto una funzione fondamentale nell'ordinare la guerra intesa come
conflitto fra stati. Qualche esempio può rendere l'idea dell'intensità del
processo di dissoluzione dei punti di riferimento che per secoli hanno
orientato la riflessione sulla guerra.
      Una massima come inter pacem et bellum nihil medium est, che rimanda
all'esistenza di una chiara linea di demarcazione fra guerra e pace, oggi
non appare affatto scontata. Anzi. La stessa idea di "Enduring War", indica
chiaramente uno scenario nel quale guerra e pace anziché presentarsi come
polarità alternative assumono i tratti di componenti strutturali, combinate
in diversa maniera, del nuovo ordine mondiale. Oggi le guerre non vengono
mai dichiarate. A prima vista si tratta di una questione meramente formale,
ma che tuttavia contribuisce a collocare in una zona di indiscernibilità i
confini fra guerra e pace. Da un simile punto di vista, la Guerra del Golfo,
ovviamente mai dichiarata come tale, potrebbe essere considerata mai
iniziata, e di conseguenza impossibile da terminare (del resto i
bombardamenti non sono mai cessati, di conseguenza una nuova guerra all'Iraq
rappresenterebbe un incremento quantitativo di operazioni che in maniera
meno intensa vengono regolarmente svolte da Usa e Gran Bretagna).
      Un portato di tale indeterminatezza è il profilo incerto che assume l'
avversario, a partire dalla cancellazione di ogni chiara distinzione fra il
nemico e il criminale. Nella spazialità politica centrata sulla sovranità
statale che ci ha accompagnato negli ultimi secoli, all'avversario
interstatale competeva il nome di nemico, a cui spettava uno status
completamente diverso dal turbatore della pace interna, il criminale,
destinatario delle misure di polizia. La condizione degli internati nel
campo di Guantanamo, nei cui confronti si è escogitato una sorta di mix che
coniuga gli aspetti più vessatori delle due condizioni rappresenta un
indizio drammatico e significativo circa l'indeterminatezza delle forme
attraverso cui avviene l'impegno bellico statunitense. La perdita di ogni
chiara distinzione fra guerra e pace, si accompagna così alla perdita di una
chiara distinzione fra piano interno e piano internazionale, fra nemico e
criminale, fra ambito poliziesco e ambito militare, con la conseguenza che
le guerre condotte dalla "costellazione occidentale" si presentano ormai
regolarmente nei termini dell'operazione di polizia internazionale. E per
converso, si potrebbe aggiungere, le operazioni di polizia, di mantenimento
dell'ordine pubblico, assumono le forme, e le parole, della guerra. I fatti
di Genova, in proposito, risultano decisamente eloquenti.
      La stessa azione militare contro l'Afghanistan appare in proposito
decisamente esemplare. La guerra, ovviamente, non è stata dichiarata, nelle
dovute forme, ma proclamata come guerra al terrorismo, come guerra nei
confronti di un'entità non statuale, riferita a una fattispecie "penale"
tradizionalmente di competenza delle autorità di polizia. Forti, in
proposito, sono le analogie con la "guerra alla droga", uscita dai confini
statunitensi e approdata a una guerra a bassa intensità in Colombia di non
facile decifrazione.
      Per riprendere un'affermazione del recente La guerra globale di Carlo
Galli: "l'iperpotenza degli Usa [.] non è 'sovranità in senso classico:
infatti la sovranità trae il proprio senso dall'essere plurale, dal
riconoscere altri centri sovrani, mentre gli Usa non riconoscono alcun
nemico fuori di loro, non hanno iusti hostes, ma vedono nei loro avversari
solo dei criminali, degli stati canaglia, un asse del male. E così rendono
evidente che oggi non esiste propriamente un 'sistema internazionale', con
attori precisamente distinguibili e interdipendenti, ma appunto un
asistematico 'sistema globale' in cui esiste solo la dimensione 'interna'
della 'polizia', o meglio di una politica deterritorializzata che insegue l'
economia e porta immediatamente in sé la guerra". Ciò significa che il ruolo
svolto dalle guerre nell'attuale ordine mondiale non è più interpretabili
alla luce dei tradizionali schemi dell'imperialismo, che postulavano l'
esercito al servizio del capitale nazionale nel conflitto volto alla
spartizione delle aree di influenza, ma necessita di nuovi modelli di
analisi, in grado di collocare la guerra nel contesto di una globalizzazione
fatta di espansione dei mercati, internazionalizzazione del capitale, crisi
delle forme di spazialità politica e dei criteri ordinativi della modernità.
Il crollo dell'ordine bipolare, da questo punto di vista, configura uno
scenario in cui l'emergere dell'impero si accompagna a un contesto di
relazioni internazionali fortemente destrutturato, in cui lo strapotere
militare degli Stati uniti appare ben difficilmente "bilanciabile" in
qualsivoglia sistema degli stati. Un approfondimento sul nesso
impero-equilibrio, a questo punto, può risultare utile a comprendere i
possibili spazi di azione che si aprono sullo sfondo della guerra globale.


      Impero ed equilibrio



      Nei primi anni dell'Ottocento, l'irrompere delle armate napoleoniche
al di fuori dei confini della Francia sembra travolgere definitivamente
quell'equilibrio europeo che aveva fornito un quadro, fra concorrenze e
solidarietà, alla convivenza delle diverse formazioni statuali del
continente. La figura dell'impero, al di là del revival antiquario, ambisce
a ridefinire intorno a una polarità egemonica preponderante la gravitazione
delle monarchie di Ancien régime, e risulta evidentemente incompatibile con
quel complicato gioco di pesi e contrappesi a cui era stato fino a quel
momento affidato il compito di sostanziare l'ordine europeo. In questo
spazio si colloca la riflessione di Friedrich Gentz, collaboratore di
Metternich e traduttore di Burke, che dopo Austerliz si interroga angosciato
sui tratti peculiari di quella politica dell'equilibrio che l'avvento sulla
scena della storia di Napoleone sembra mettere definitivamente in crisi.
      Le pagine introduttive dell'opera maggiore di Gentz, i Frammenti
tratti dalla più recente storia dell'equilibrio politico in Europa, sono
oggi disponibili in traduzione all'interno di un volume curato da Bruno
Accarino, dal titolo La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell'
equilibrio (ombre corte, Verona 2003) che proprio sul concetto di equilibrio
intende soffermarsi. Le analogie del nostro tempo con quello in cui si
colloca la scrittura di Gentz non possono sfuggire. Una lunga fase segnata
da una forma particolare di equilibrio nelle relazioni internazionali,
quello del terrore, è ormai alle nostre spalle. La dissoluzione di uno dei
due poli ha lasciato completa libertà d'azione all'unica superpotenza
rimasta sul campo. L'equilibrio poteva essere bipolare, ben difficilmente
potrà essere unipolare. In fondo si tratterebbe di un paradosso. L'
equilibrio è per natura gioco di pesi e contrappesi, di combinazione di
diversità ponderali in configurazioni tali da stabilire, sulla base di
addizioni e sottrazioni, linee di forza commensurabili e proporzionate.
Risalendo agli albori della modernità, le guerre d'Italia del XV secolo
mostrano come di equilibrio si potesse parlare in relazione al confronto fra
una serie di potenze, dal ducato di Milano alla repubblica di Venezia fino
al regno di Sicilia, collocate sulla stessa scala dimensionale, in cui la
preponderanza di una singola entità poteva essere controbilanciata dall'
alleanza delle altre.
      Lo stesso quadro emerge dalla considerazione dei meccanismi e delle
grandezze coinvolte nell'equilibrio europeo a cui guardava con nostalgia
Gentz, sorto dalla consunzione della funzione egemonico-legittimante del
Sacro romano impero, sancito dalle paci di Vestfalia e Utrecht e rilanciato,
dopo la tempesta imperiale napoleonica, con il congresso di Vienna.
Diversamente, esiste una massa critica nell'accumulazione del potere
(militare, economico e simbolico) a partire dalla quale l'equilibrio perde
di consistenza. Potremmo darle il nome di impero, limitandoci a rilevare,
sul piano geopolitico, come la potenza militare statunitense risulti oggi
ben difficilmente "costituzionalizzabile" all'interno di un meccanismo di
pesi e contrappesi stabilito sullo scacchiere delle relazioni fra stati.
      Approfondendo l'analisi, ci si potrebbe interrogare su quali siano i
possibili attori in grado di cristallizzare una massa critica, un
controimpero, condizione necessaria per riproporre la questione dell'
equilibrio in seno allo scenario imperiale. Da questo punto di vista, assai
suggestiva si rivela l'osservazione di Carl Schmitt secondo cui l'
equilibrio, così come si configura a partire dall'ordine vestfaliano,
risulta inestricabilmente connesso alla nettezza dei confini che definisce
spazialmente gli attori, le formazioni statuali, che entrano nel gioco del
bilanciamento. Nel momento in cui, saltata l'ipoteca bipolare, i confini
ridefiniscono al ribasso le loro funzioni di filtraggio rispetto alla
circolazione dei flussi di merci, capitali e informazioni, di cesura fra
dentro e fuori, (lasciando alle grandi muraglie solo il governo dei
movimenti di popolazioni), lo stato non sembra quindi potere più svolgere la
funzione di modulo su cui incardinare, in termini di composizione di forze,
un contrappeso alla preponderanza imperiale.
      Alla ricerca di possibili alternative, si potrebbe prendere sul serio,
per esempio, la definizione di "seconda superpotenza" che la stampa ha
attribuito al movimento contro la guerra che sta crescendo a livello
mondiale. Al di là delle facili ironie degli apostoli del "realismo
 politico", secondo i quali tutto ciò non potrà certo impedire la guerra,
come non rilevare il fatto che si è aperta una crisi complessiva di consenso
ed egemonia rispetto alle modalità imperiali di strutturazione dell'ordine
planetario. Una crisi presumibilmente non episodica e irriducibile alla
volatilità dell'opinione pubblica, che allude alla strutturazione di reti
globali che potrebbero ambire a porsi come polarità di un nuovo equilibrio.
Del resto, se le forme di spazialità tipiche della modernità appaiono in
irreversibile crisi, risulta in ovvio immaginare che gli attori capaci di
incidere nella realtà di quella che normalmente viene definita
globalizzazione debbano presentarsi in configurazioni altre rispetto ai
soggetti classici dell'agire politico.


      Il presente contributo integra, con alcuni tagli e aggiunte, due
articoli già pubblicati: Scenari della guerra posteroica ("Carta Almanacco",
febbraio 2003 ) e Un impero fatto col bilancino ("il manifesto", 4 marzo
2003).


      Bibliografia sulla guerra globale


      C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello "ius
publicum europeum", Adelphi, Milano 1991.


      J. Arquilla, D. Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Rand
Institute, Santa Monica 2000.


      Quiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L'arte della guerra
asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria editrice goriziana,
Gorizia 2001.


      G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002.


      G. Marcon, L'ambiguità degli aiuti umanitari, Feltrinelli, Milano
2002.


      M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione,
Rizzoli, Milano 2002.


      A. Joxe, L'empire du chaos, La Découverte, Parigi 2002.


      S. Finardi, C. Tombola, Le strade delle armi, Jaca book, Milano 2002.


      C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari







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