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L'Eufrate visto dal Tamigi/Prima puntata
L'amaro calice di Mr. Blair
MARCO D'ERAMO
INVIATO A LONDRA
Tutta cemento grigio e vetri riflettenti, la sede del Financial Times si
erge sulla riva sud del Tamigi, subito dopo il ponte Southwark, arrivando
dalla City. John Lloyd viene a prendermi alla reception, mi mostra come
appoggiare il pass magnetico per passare i cancelletti di sicurezza e mi
porta nella mensa del più presigioso quotidiano della finanza
internazionale. La «cantina» dà su un assolato panorama di tetti grigi e
squallidi. È ora di lunch e sui tavoli vengono spazzolate enormi porzioni di
pollo con riso in salsa e insalata. John Lloyd, direttore del supplemento
del week-end, un passato di corrispondente nell'Europa orientale e centrale,
è uno dei pochi blairiti a dichiararsi tale: «In Gran Bretagna il sostegno
intellettuale a Tony Blair è molto più sottile di quello di cui gode negli
Stati uniti George W. Bush. L'amministrazione Bush è quella più influenzata
dagli intellettuali, in tutta la storia americana da Kennedy in poi. Da noi
a Londra non è così, a parte il sociologo Anthony Giddens (della London
School of Economics), il mensile Prospect (diretto da David Goodhart) e
pochi altri, lo strato intellettuale (insegnanti, giornalisti, accademici,
mondo dello spettacolo) è tutto contro la guerra. Persino qui al Financial
Times, la maggior parte della nostra redazione è contro la guerra».
Questo è un fenomeno normale in tutti i paesi del mondo: il 90% dei giornali
di destra è redatto da giornalisti di sinistra, Ma nel caso del Financial
Times c'è di più: per esempio, dopo il vertice di giovedì a Camp David tra
Blair e Bush, l'organo della City nota che tutte le condizioni poste da
Blair per partecipare alla guerra sono state snobbate dagli americani e
conclude che implicare l'Onu negli accordi del dopoguerra dovrebbe essere
«non negoziabile», altrimenti questa volta Blair «deve prepararsi a rompere
le righe piuttosto che accodarsi».
Certo che, finché non inciamperemo nella balzana, ancorché non inedita,
nozione di «liberal-imperialismo», vi è qualcosa d'incomprensibile nella
pertinacia con cui si Blair si ostina a seguire Bush, tanto più che -
riconosce Lloyd - larga parte dell'apparato di stato era contraria, a
cominciare dal Foreign Office (il ministero degli Esteri), passando per lo
stato maggiore militare, per finire persino con il servizio segreto M16
che - richiesto - non ha fornito a Blair nessuna prova delle armi di
distruzione di massa, costringendo il gabinetto del premier a cercare le
informazioni su Saddam addirittura su Internet (con la figuraccia di farsi
scoprire ad avere scopiazzato da una vecchia tesi di dottorato, basata su
dati del 1991). «C'è un'insofferenza generalizzata per la rozzezza degli
americani, vige sempre un soggiacente paragone di noi britannici che siamo i
colti greci e gli americani che sono i brutali romani», dice Lloyd.
Né la peregrinazione tra i blairiti londinesi riesce a chiarire il mistero
Blair, un premier troppo orgoglioso per voler essere davvero il cagnolino di
Bush che salta quando glielo dice il ministro della Difesa Usa Donald
Rumsfeld. Anche se oggi i bellicisti appaiono più rilassati e più sicuri di
sé, a partire dall'inquilino di Dowining Street che è di colpo ringiovanito
rispetto a due settimane fa, quando era invecchiato di vent'anni,
sconfessato dall'opinione pubblica e contestato dai propri parlamentari. Ora
i sondaggi hanno capovolto il rapporto tra favorevoli (passati dal 30 al
54%) e contrari (dal 47 al 30%) alla guerra, anche se le cifre sono
fluttuanti: «Dimostrano solo che la posizione di fronte alla guerra non è
radicata, è superficiale», mi dirà David Goodhart nel suo ufficio di
Prospect, a Bloomsbury, proprio accanto al British Museum. Infatti, col
prolungarsi e incancrenirsi della guerra, i sondaggi rischiano di ribaltarsi
ancora.
E comunque, mi fa notare John Kampfner, political editor del settimanale di
sinistra The New Statesman, nessun premier inglese aveva mai subito una
simile rivolta da parte dei suoi parlamentari, in un secolo di storia dei
Comuni.
Sulla strategia geopolitica di Blair si possono perciò fare solo ipotesi: la
prima è che - nella sua sconfinata ambizione - Blair voglia ricostituire
un'entità imperiale come il Commonwealth, solo questa volta a guida
americana: in fondo già nel 1948, a firmare il Patto Ukusa che istituì il
sistema di spionaggio Echelon erano stati i membri anglosassoni del
Commonwealth (Australia, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Stati
Uniti). Un dominio del mondo, se non più inglese, almeno anglosassone. Ma
quest'ipotesi si scontra con l'incapacità, da parte dell'asse
Londra-Washington, di esercitare un'egemonia perfino sui più stretti
alleati: col loro rifiuto non solo di partecipare alla guerra, ma anche di
votare una risoluzione all'Onu, Canada e Nuova Zelanda hanno affibbiato uno
schiaffo alla favoleggiata unità anglosassone.
La seconda ipotesi è che la Gran Bretagna persista nella tradizionale linea
politica di balance of power che risale al `700-'800, quando nelle guerre
europee Londra appoggiava la coalizione più debole per poi passare
dall'altra parte appena il rapporto di forza s'invertiva. Così la
tradizionale alleanza con la Prussia contro la Francia fece posto al fronte
comune con Parigi quando Berlino divenne troppo minaccioso. La versione
attuale di questa strategia sarebbe costruire il ponte sull'Atlantico tra la
«vecchia Europa» e gli Stati uniti. Curioso modo di erigere un ponte quello
di scatenare una rabbiosa campagna antifrancese!
«Ma non dimentichiamo, dice Lloyd, che - paradossalmente - Tony Blair è il
premier inglese più filo-europeo di tutta la storia britannica. In un paese
dominato al 70% dagli euroscettici, Blair si era proposto di entrare
nell'euro, impresa che adesso gli riuscirà difficilissima». Lloyd riversa su
Jacques Chirac quasi tutta la responabilità della rottura atlantica
(curiosamente, a Londra tutti minimizzano ruolo e peso della Germania, e
persino la Russia di Vladmir Putin non è presa in conto nell'equazione
geo-strategica): «Quando Chirac ha detto che avrebbe posto il veto in ogni
caso, ha fatto il gioco di Blair e ha fatto rientrare una parte del dissenso
laburista».
David Goodhart va ancora oltre sulla linea del «ponte sull'Atlantico»,
quando dice che le differenze tra Blair e Chirac sono solo tattiche, perché
ambedue vogliono contenere l'unilateralismo americano, solo con mezzi
diversi. Goodhart esprime le idee dei «blairiti di sinistra», per così può
dire; auspica di far fuori «ora Saddam e poi Bush»: persino nei circoli più
vicini a Blair l'insofferenza per Bush e per i suoi falchi ha raggiunto
livelli inimmaginabili e - tra i favorevoli e i contrari alla guerra - tutti
dicono che con Bill Clinton sarebbe stato tutto diverso, e l'Onu avrebbe
ingoiato la guerra con molta più facilità.
Goodhart mi dice che, per la guerra all'Iraq, ormai è ok, cosa fatta capo
ha, e comunque c'erano buone ragioni per abbattere un dittatore, e forse
anche per una guerra alla Siria, l'accordo ci sarebbe, «perché la Siria è
uno stato odioso», ma «se l'America decidesse di prendersela con l'Iran,
allora la Gran Bretagna non dovrebbe seguire». Gli ricordo allora che l'anno
scorso mi aveva esposto esattamente la stessa posizione, solo che al posto
dell'Iraq c'era l'Afghanistan («guerra giusta») e invece del futuro attacco
all'Iran c'era quello all'Iraq: i blairiti di sinistra sono sempre in
ritardo di una guerra, a favore dell'attuale e contrari a quella futura.
Ma la linea della balance of power si scontra con una differenza
fondamentale: nell'800, quando Londra spostava il suo peso, lo faceva da
massima potenza mondiale, oggi è un peso medio. L'idea di poter lanciare un
ponte sull'Atlantico è illusoria a meno di non sovrastimare, e tanto, il
peso che Blair ha a Washington. È certo che Blair pensa di esercitare
un'influenza sproporzionata al ruolo economico e militare inglese (che sta 1
a 10 come effettivi sul campo, e che si avvia a diventare 1 a 20 con i
prossimi rinforzi Usa). Blair aveva chiesto più tempo per gli ispettori e
gli Usa l'hanno negato; aveva spinto per una seconda risoluzione Onu e
Washington se ne è infischiata; insiste per una soluzione in Palestina e le
vaghe promesse di Bush hanno il naso lungo; ha chiesto che le Nazioni unite
siano coinvolte nella gestione del dopoguerra in Iraq e gli hanno risposto
picche.
Lloyd racconta un'altra storia, favolosa a un orecchio europeo: «In Kosovo,
prima del '97, il governo Major era contro qualunque intervento. Fu Blair a
convincere Clinton ad agire. Ed è stato Blair ha spingere nel `98 Clinton a
iniziare l'operazione Desert Fox contro l'Iraq». Ancora l'illusione che
Londra possa dirottare la politica americana dalle sue priorità. Torna in
mente la battuta dell'ex canceliere tedesco Helmut Schmidt: «La relazione
speciale tra Usa e Gran Bretagna è tanto speciale che ne è al corrente solo
uno dei due».
Più verosimile è Lloyd quando dice che Blair considera la forza militare
«uno strumento per attuare il bene» (e di bene deve averne fatto un sacco
se, da quando è al potere, si è imbarcato in cinque conflitti: Desert Fox,
Kosovo, intervento in Sierra Leone nel 2000, Afghanistan, e ora Iraq). Per
Blair, Lloyd parla di una «dimensione etica della politica estera» e molla
il fatidico termine: «liberal-imperialismo» su cui in questi giorni
s'inciampa a ogni piè sospinto. Non è un'idea originale quella d'imporre
l'impero in nome del progresso (o democrazia): non a caso il nome che viene
accostato più spesso al «liberal-imperialismo» è quello di Willliam
Gladstone (1809-1898) i cui governi gestirono l'espansione imperiale
vittoriana. C'è in effetti una dimensione vetero-coloniale in questa guerra
all'Iraq, con la prospettiva di un protettorato americano che avrà
sull'Eufrate più potere di quello che aveva il Raj britannico sul Gange.
Cosa di più radicato nella sanguinosa tradizione europea di una bella
invasione in nome di Dio e dei valori? Compagni di scuola pensavano
all'epoca che Blair sarebbe diventato un prete (anglicano). Si potrebbe
parodiare una famosa battuta del dottor Johnson: «La religione è l'ultimo
rifugio dei farabutti». Mi limito a ricordare a John Lloyd il monito di Carl
Schmidt, sulla tirannia dei valori (lui ne sapeva qualcosa), e su come è
pericolosa «una crociata del bene contro il male». Il dirigente del
Financial Times sorride: «Mia moglie dice la stessa cosa, lei non è
d'accordo con me, è italiana. Forse è una faccenda di diversa esperienza
storica».