Auteur: clochard Date: Sujet: [Cerchio] Il mondo di Bush
MADE IN USA
Il mondo di Bush
ALESSANDRO PORTELLI
Già la domanda è un poema: se la Francia non è d'accordo con gli Stati
Uniti, può essere solo perché c'è qualcosa di sbagliato nella Francia.
Quello che gli americani e i loro vassalli chiamano «antiamericanismo»,
dunque, non è da porre in relazione con specifiche politiche statuali o
tratti culturali degli Stati Uniti né con eventuali problemi di relazioni
fra i due paesi. E', piuttosto, una patologia congenita, ascritta al
soggetto, e irrazionale: ci odiano perché siamo liberi, ci contraddicono
perché sono francesi... c'è sempre stato attrito, dice Bush. Giorni fa, in
un talk show televisivo, lo storico dell'economia Geminello Alvi ripeteva:
fin dall'800 la Francia è ostile agli Stati Uniti. Sono balle. C'è stata
piuttosto una lunga storia d'amore fra la Francia laica e repubblicana e la
repubblica d'oltre oceano. Persino la Statua della Libertà è stata un dono
del popolo francese al popolo americano, nel 1885. Il libro più citato sulla
democrazia americana l'ha scritto un francese, Aléxis de Tocqueville. Un
eroe della guerra d'indipendenza americana è stato il francese Lafayette; la
pace che sancì l'indipendenza fu firmata a Parigi. E' troppo forse
aspettarsi dagli americani un po' di quella gratitudine che pretendono dai
francesi per quello che hanno fatto nella seconda guerra mondiale; ma almeno
un po' più di competenza da chi parla in Tv uno lo vorrebbe. Il problema
vero è che tracce di questo atteggiamento le troviamo anche in interventi
ragionati di voci molto più articolate e problematiche. Scrive per esempio
Alexander Stille, uno dei più intelligenti ed equilibrati giornalisti e
scrittori americani, conoscitore profondo dell'Italia (la Repubblica,
18.3.2003): «Il problema ha in parte a che fare con la sensazione che le
critiche e l'astio siano in qualche modo indiscriminati, che si parli degli
'americani' come se una nazione vasta e complessa di trecento milioni di
abitanti fosse un monolito con sopra la faccia di Bush... Quello che secondo
la nostra sensibilità manca nei commenti stranieri sull'America, è il senso
della complessità. Complessità riferita in primo luogo alla nostra nazione
gli Stati Uniti sono un grande paese, un continente intero, per dimensioni e
varietà paragonabile all'Europa stessa. Le differenze fra il New England e
il Mississippi sono profonde quanto quelle fra la Lombardia e la Calabria».
Anch'io mi affanno da tutta una vita a spiegare la complessità degli Stati
Uniti, che è poi una delle principlai ragioni per amarli. Penso però che
questa giusta affermazione abbia bisogno di qualche corollario.
1. Che l'America è complessa dovrebbe essere spiegato in primo luogo alla
sua classe dirigente e ai suoi leader politici, che insistono invece su
semplificazioni disarmanti (ma armate): «chi non è con noi è contro di noi»,
«il bene contro il male», «chi non è d'accordo col presidente è
antipatriottico...». Sono loro, con l'abuso che fanno di parole come «noi» e
«America», che pretendono non solo di presentarla come un monolito, ma di
farla diventare tale. Esiste nella cultura politica americana una componente
che vede la complessità del paese come motivo di preoccupazione, e da
ridurre o circoscrivere: è la tradizione che si è espressa in concetti come
quello di un-Americanism (che esclude dall'America chi non condivide un
unico set normativo di principi e valori) o in pratiche come il racial
profiling (che considera criminalmente sospetto chiunque abbia un aspetto
non familiare). Sono atteggiamenti e pratiche che esistono anche in altri
paesi paesi democratici, ma senza quella forza politica e istituzionale che
assumono negli Stati Uniti. Perciò, la battaglia per la complessità
dell'America comincia in casa, ed è nostro compito sostenerla, impedendo
che - come è spesso accaduto in passato - il richiamo alla complessità
interna sia una scusa per legittimare una monoliticità esterna.
2. L'America è complessa ma non è l'unica realtà complessa al mondo. E'
complessa anche l'Europa, per cui dispiace che anche il meglio del
giornalismo americano finisca per semplificare sotto l'etichetta di
«antiamericanismo» una gamma di atteggiamenti e opinioni molteplici,
mutevoli, magari contraddittori in sé o fra loro, in luoghi e contesti
diversi - insomma, «complessi». Per esempio, Stille racconta che una signora
incontrata in treno in Italia gli ha chiesto: «ma gli Americani si rendono
conto di quanto è odiata l'America nel mondo per le azioni del suo governo?»
Quelle parole, scrive, «sembravano indicare che l'attacco al World Trade
Center , per quanto deplorevole, era comprensibile e in un certo senso
giustificato». Io intanto eviterei lo scivolamento fra il «comprensibile» e
il «giustificato». Io mi sforzo di capire perché Bush bombarda l'Iraq, ma
non lo giustifico, anzi più lo capisco e meno lo giustifico. Infatti, uno
dei problemi del dopo-11 settembre è stato l'energico rifiuto di media,
istituzioni e tanti intellettuali di cercare di capire come mai era
successo, e di riportare tutto a semplificazioni come «il male», «l'odio»,
l'«antiamericanismo» congenito. Se le classi dirigenti e l'opinione pubblica
americana avessero ascoltato voci come quelle della signora sul treno,
sarebbero stati meno impreparati quando è arrivato l'11 settembre, e forse
avrebbero reagito in altro modo. In modo semplice (ma distinguendo fra «gli
americani» e «il loro governo»), la signora diceva in fondo le stesse cose
che si leggono oggi, un po' tardi, sul New York Times: «la superbia e gli
errori che hanno contribuito all'isolamento attuale dell'America sono
cominciati molto prima dell'11 settembre». E neanche l'11 settembre è
bastato per capirlo.
3. L'America è complessa, ma è complesso anche l'Iraq. Con giusta
indignazione, Stille ricorda che Baudrillard parlava delle Twin Towers come
di un simbolo abbattuto della superpotenza Usa e si dimenticava che «insieme
a quel simbolo furono sgretolate e incenerite tremila vite umane». Sono
molto d'accordo, ho scritto le stesse cose sul manifesto subito dopo l'11
settembre. Per questo mi sorprende che in tutto il resto dell'articolo
Stille parli dell'Iraq come se fosse un simbolo abitato da una persona sola,
Saddam Hussein. Qui si tratta di incenerire e disgregare migliaia di vite
umane: dimenticarsene nel momento in cui esige che ci ricordiamo delle vite
americane mi sembra agghiacciante.
4. Rispetto e capisco la «sensibilità» americana che si sente ferita dalle
semplificazioni altrui. Vorrei che qualche americano capisse che la
sensibilità di noialtri aliens è sistematicamente offesa dagli stereotipi e
luoghi comuni che si leggono e che si sentono sugli stranieri noi negli
Stati Uniti. L'italiano, per esempio, non possiede per designare gli
americani parole equivalenti a «wop», «dago» e «guinea» che negli Stati
Uniti si usano per parlare degli italiani, e termini analoghi praticamente
per tutti gli altri. Le volgarità che si leggono anche in fonti rispettabili
e in contesti ufficiali sui francesi non hanno equivalente nel discorso
pubblico europeo sugli Stati Uniti: i francesi dissentono perché sono
viscide «marmotte», vigliacchi senza spirito guerresco (come la mettiamo col
fatto che non sono d'accordo nemmeno i tedeschi, che di spirito guerresco ne
hanno avuto decisamente troppo - e, soprattutto, che sono invece d'accordo
gli italiani, sui quali in America circola la seguente battuta: «qual è il
libro più piccolo del mondo? Un elenco degli eroi di guerra italiani»?). La
Stampa (23 marzo) fa un taglio basso in prima pagina ripreso all'interno,
con foto, per commentare scandalizzata il fatto che Paul McCartney abbia
cambiato il titolo del suo Cd Back in the Usa in Back in theWorld per il
mercato europeo. Nel frattempo negli Stati Uniti si ribattezzano freedom
fries le french fries, patatine fritte. Scrive il New York Post (21 marzo):
«Il movimento anti-marmotte è in marcia. La famosa Tavern on the Green sta
de-francesizzando il suo menu di primavera: la costata arrosto di vitello au
jus adesso di chiama costata arrosto di vitello alle salse naturali. Sonno
banditi anche `confit' e `coulis'. `Il problema prncipale,' ammette il
general manager Allan Kurtz, 'è come chiamare il filet mignon. E forse
dovremo smettere di servire la béarnaise'».Ve l'immaginate, gli schiamazzi
se un ristorante italiano ribattezzasse gli hamburger «amburghesi» (o
semplicemente «polpette»?). Ma per fortuna non mi pare che nessun
antiamericano qui abbia proposto di ribattezzare gomma della pace la gomma
americana. Forse perché abbiamo della pace un'idea più seria e complessa di
quella che certe figure pubbliche americane hanno della libertà, che forse è
qualcosa di più di una patatina, e persino di una statua francese piantata
nel porto di New York.