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著者: Alessandro Presicce
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題目: [Lecce-sf] articolo
Tramite il vecchio sito, rogelioedaw@??? ci segnala questo articolo
di Martelloni e De Lorenzis. Ve lo inoltro.
Alessandro
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DOBBIAMO VINCERE LA GRANDE GUERRA
di Federico Martelloni e Tommaso De Lorenzis
http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/Giap3_4_IVa.html#vincere

Dobbiamo vincere la guerra, non ratificata, non dichiarata, non discussa in
alcun consesso internazionale, ma già combattuta, tra il comando globale e
gli esseri umani. I milioni di donne e uomini che non sono più disposti a
marchiarsi a fuoco, sulla pelle, i costi dell'epocale recessione planetaria,
a tatuarsi sulla coscienza il placet preteso da chi allude alla via
idrocarburica come possibile uscita dalla crisi economica internazionale.
Dobbiamo vincere la guerra. Combatterla e vincerla con le armi della
politica, che Enduring Freedom, nuovo paradigma della governamentalità,
vorrebbe ridurre a straordinaria eccezione, a occasionale e fortuito
prolungamento della guerra con altri mezzi.
Combatterla e vincerla, utilizzando una particolare arte della guerra,
appresa di recente, guardando sventolare le bandiere arcobaleno, lasciando
scivolare lo sguardo sui volti di quanti, il 15 febbraio, sfilavano al
nostro fianco nelle 600 città in cui abbiamo espresso un'altra idea di
globalizzazione.
Un'arte che abbiamo affinato sostando sui binari di stazioni secondarie,
scelte, con vergogna, per il transito di convogli carichi di armamenti o
nelle piazze illuminate che riscaldavano il dissenso delle maggioranze.
Dobbiamo vincere una guerra il cui fronte attraversa il tempo espropriato,
la produttività disconosciuta, la penuria di diritti, i confini presidiati
militarmente, la mancanza di reddito, l'insicurezza sociale, le illusioni
collassate nello spleen della New Economy, i sogni negati di coloro che
tentarono di farsi imprenditori e si risvegliarono inflessibili padroncini
di se stessi.
Questa guerra va combattuta e vinta.
L'altro conflitto, il triello, istericamente annunciato, tra un petroliere
texano, un dittatore mediorientale e uno sceicco arabo, assume i contorni di
un farsesco regolamento di conti per il territorio: Gangs of the world.
Oggi il capitalismo, nell'era della sua renaissance imperialistica, ha molti
nemici. I più ridicoli, i più biecamente strumentali e inconsistenti, quelli
su cui ricadono i soliti sospetti, sono Saddam Hussein e Osama Bin Laden.
Insomma, "il Brutto" e "il Cattivo" che girano in tondo, sulla piazza di un
cimitero, con le pistole scariche.
Poi c'è il petrolio. Il controllo dei bacini petroliferi dell'area arabica,
che fu, nel 1991, la causa della Guerra del Golfo.
Se fosse il petrolio il motivo di questo incipiente conflitto bellico, si
tratterebbe di un'operazione, squallida e stracciona, orchestrata per un
pugno di dollari. Intanto, sul futuro del liberismo tardo-petroliero si
allunga l'ombra minacciosa del tetto di estrazione, ma gli sprezzanti
califfi post-moderni non se ne curano: "dopo di noi il diluvio" borbottano
cupamente, constatando quanto corto sia diventato il respiro del loro
sistema di produzione.
Talvolta qualcuno, a destra come a sinistra, ha provato a contrastare questo
cinico e disperato nichilismo, che è il segno di un evidente esaurimento
della capacità accumulativa del capitale e di un vistoso inaridimento della
sua fantasia politica.
Così, ci si è chiesto se non fosse più utile - per fronteggiare la
recessione, che i pochi analisti finanziari cui è stata concessa libertà di
parola, non hanno esitato a considerare più pericolosa della celebre crisi
del '29 - catapultare sull'Afghanistan o sull'Iraq quintali di telefonini
cellulari, o di Pentium III con Windows 2000 già installato, o chissà quale
altro brillante prodotto della New Economy, piuttosto che sganciare bombe
intelligenti all'uranio impoverito.
In realtà, come noto, lo stile di vita statunitense non è estendibile urbi
et orbi. Il globo intero, qualora adottasse il regime e le modalità di
consumo proprie del cosiddetto Nord del mondo, giungerebbe rapidamente al
collasso. Il nostro modello di sviluppo non è generalizzabile, perché, se
fosse generalizzato, sarebbe assolutamente insostenibile, tanto sul versante
sociale, quanto su quello ambientale.
E' l'inarrestabile flusso della Storia a pretendere un'ulteriore opzione
rispetto alla mortificante scelta tra il capitalismo dei titoli on line,
delle imprese immateriali (una su cento ce l'ha fatta), della presunta
governabilità debole e il capitalismo texano, crepuscolare, bipolarmente
depresso, malinconico, isterico e fobico-paranoico.
Il modello, quindi, non è universalizzabile. Nulla di nuovo, certo, rispetto
a quanto hanno detto Vandana Shiva a Porto Alegre o il signor Sachs a
Firenze, durante il Forum Sociale Europeo. Nulla di nuovo rispetto a ciò
che, da tre anni a questa parte, sta diventando senso comune, con un'inedita
potenza comunicativa ed egemonica. Nessuno va più a letto presto.
I margini di mediazione politica e la maligna compatibilità inclusiva, con
la quale la costituzione politica del capitale globale aveva cercato di
edificare un livello controllato di "partecipazione democratica", si sono
squagliati innanzi al pesante rilancio operato dal movimento.
Si è avuto l'ardire di affermare che esiste un'alternativa al neoliberismo,
si è avuto il coraggio di sostenere che esiste una formula democratica fuori
dai filtri dei meccanismi di rappresentanza, sintetizzando il tutto in uno
slogan, semplice ma temibile, che recita: un altro mondo è possibile.
"Questo no e poi no" è stata la risposta violenta e incondizionata fornita a
Seattle, Goteborg, Genova ed in molti altri luoghi. Questo non è vero. Non
può e non deve essere vero - come ha avuto modo di precisare recentemente il
signor Rumsfeld. O meglio, potrebbe essere vero solo a condizione che il
modello fosse sottoposto a una radicale inversione di tendenza. A una
drastica trasformazione delle modalità di produzione, consumo e
distribuzione della ricchezza. A un cambiamento di stile.

C'era una volta il West, l'Occidente dell'eterna frontiera rincorsa dalla
ferrovia e delle mirabili sorti espansive.

C'è un altro nemico: si chiama Europa. E qui una buona ragione ci sarebbe.
Anzi, sono milioni di buone ragioni, di quelle metalliche, argentate ai
bordi e dorate al centro, che quando le lanci sulla pietra fanno: ding!
Infatti, se l'euro sostituisse il dollaro negli scambi internazionali - in
particolare quelli con Russia e Cina - il colpo inferto all'economia
statunitense non sarebbe leggero: per qualche dollaro in più. In tal caso,
va detto, sarebbe dialettica tra il segmento renano e quello anglosassone
del Capitale.
Nonostante ciò, dentro l'Europa si gioca la partita per definire margini di
autonoma sottrazione dal controllo.
Alla "piccola Europa", suddita di una crociata permanente, priva, peraltro,
della benedizione pontificia, si contrappone un continente nuovo, in cui la
frantumazione molecolare del lavoro vivo sembra finalmente trovare valenze
combinatorie.
Non si tratta di una semplice giustapposizione, di un accostamento casuale,
di una convergenza politicista, tattica e transitoria o, peggio,
dell'accordo tra apparati e burocrazie più o meno rilevanti.
E' nel corpo dell'Europa, e in particolare nel suo ventre mediterraneo, in
Italia, che si sperimenta organicamente la virtuosa saldatura tra il
movimento del lavoro intellettuale, neo-artigianale, comunicativo,
linguistico, e le federazioni sindacali che organizzano il lavoro
subordinato.
Europeismo e post-fordismo, quindi: parole dal sapore inversamente
gramsciano, che non vogliono significare "nazional-europeismo antiamericano"
e non implicano in alcun modo la rinuncia a "guardare al mondo [intero] con
occhi nuovi".
Parafrasando, in questi strani giorni, il Connery de La casa Russia, diciamo
che "noi sosterremo sempre la nostra America contro la loro".
Il resto lo lasciamo alla forza inventiva della moltitudine, alla sua
capacità di individuare mitologie continentali ribelli e altre storie
europee, secondo lo spirito dell'appello moltitudinario di Genova 2001.

Le grandi manifestazioni pacifiste, da Firenze a Roma, da Madrid a Londra,
hanno espresso, con cristallina evidenza, il superamento in avanti delle
distinzioni convergenti e delle affinità elettive.
Hanno spinto Seattle oltre Seattle.
La way of blocs, il minimo denominatore comune, la cornice condivisa che,
fino al luglio del 2001, ha riassunto approcci differenziati, lascia il
campo a un sentire collettivo, in cui i segni di alcuni diventano simboli
per tutti, e a un agire, corale e radicale al tempo stesso.
Digiuni laici, preghiere rivolte dio solo sa a chi, veglie sacre e profane,
tonache di monaci-predicatori sulle traversine dei binari, lo spettro del
primo sciopero generale oltre i confini dello stato-nazione e del lavoro
fordista, racconti polifonici, oceaniche dimostrazioni metropolitane
rappresentano la pietra filosofale del conflitto planetario e del movimento
che lo esercita.
Un preoccupato stupore monta tra le fila degli sgherri e dei vassalli,
mentre va costituendosi una sontuosa sfera comunicativa, rizomatica ed
orizzontale, che corre lungo le dorsali del pianeta.
L'onda lunga del passaparola che, nel 1999, portò al boicottaggio del summit
del WTO, si è abbattuta violentemente sui frangiflutti dell'informazione
mainstream.
Ironia e beffa della storia e delle storie: quei media che, negli anni '90,
erano diventati un "panopticon rovesciato", quei media capaci di
rappresentare, con la loro logica "sondocratica", una dittatura della
maggioranza che trova nel piccolo schermo il collettore delle sue verità,
non hanno potuto mancare di esprimere, all'indomani del 15 febbraio,
null'altro che senso comune.
Neanche la logica di guerra ha potuto arrestare la potenza comunicativa di
110 milioni di persone che rappresentavano, in quanto tali, il più grande
media mai esistito. E i media ufficiali, chi più chi meno, hanno dovuto
comportarsi alla stregua di una piccola emittente locale di fronte ad una
notizia trasmessa dalla CNN. Hanno dovuto raccontare a denti stretti, per
non giocarsi ogni residua credibilità, la globale epopea di una gigantesca
moltitudine contro la guerra.

Risulterebbe paradossale che questa sinergica potenza, meticcia e
ri-combinante, immaginifica e concreta, si sviluppasse soltanto per
contrastare la guerra dei Signori del petrolio e non per vincere la guerra
che costoro hanno ingaggiato contro le genti e le moltitudini del pianeta. E
viceversa. In quella partita chi ha le carte migliori non può accettare che
si rifaccia il mazzo.
Qualcuno, interessato a esorcizzare fantasmi inquietanti, potrebbe parlare
dell'innegabile e ovvio fascino esercitato dall'imperativo morale della
pace. E, paradossalmente, potrebbe andarci anche bene: l'etica delle
comunità operose contro i doveri militari dei nuovi Lanzichenecchi,
razziatori e parassiti.
Ma occorre un passaggio in più: la trasformazione di questo sentimento nella
consapevolezza che, oltre a provare ad inceppare la macchina bellica,
bisogna tentare di vincere la guerra, perché il conflitto è già scoppiato e
il movimento è il nemico pubblico numero uno.
A questo punto, rinunciare all'avventura irachena equivarrebbe a una tragica
ammissione di impotenza, al riconoscimento esplicito della forza e
dell'incisività di quella che, riferendosi all'opinione pubblica, è stata
definita l'altra super-potenza, e che, per noi, è lo spiraglio di luce
futura sul presente.
"Fare questa guerra" è diventato un modo di combattere contro la volontà di
trasformazione. Questo movimento comincia a spaventare le centrali
dell'Impero ben più di Saddam o di Bin Laden. "Roma non è nel marmo del
senato... ma nella sabbia del Colosseo" ragionavano i senatori ne Il
Gladiatore. Appunto.
E' quel che abbiamo detto nel più grande coro che mai si sia visto sulla
scena del mondo, il giorno 15 di febbraio, anno terzo del nuovo secolo. E il
canto - rectius, l'urlo - è arrivato, nitido e chiaro, al cuore delle élites
internazionali.
Oggi, il consenso pare defluire sia dai tradizionali bacini di raccolta
democratica sia dalle Organizzazioni di rappresentanza della cosiddetta
società civile globale, per raccogliersi nell'oceano delle moltitudini.
L'articolazione "mista" della "costituzione imperiale" subisce un processo
di drastica semplificazione. Per un lungo istante di onirica chiaroveggenza,
era stato evocato, con un suggestivo dejà vu dal sapore polibiano, il potere
imperiale di Roma. Bene, ci siamo destati nella molle e indecente decadenza
del Tardo Impero e la nuova forma della sovranità ha finito per comportarsi
alla stregua di un volubile e capriccioso tiranno.

Sulla scacchiera dell'imminente guerra all'Iraq si combatte già una guerra.
Una guerra contro di noi, che abbiamo indicato la Politica come spazio dello
scontro.
A noi tocca combatterla. Senz'armi, ovviamente, se non altro perché è il
solo modo di vincerla.
Ma bisogna vincerla.