[Cerchio] Avanti popolo!

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Autor: Jonny Stecchino
Data:  
Asunto: [Cerchio] Avanti popolo!
Ed allora! sempre qui a scrivere e scrivere e scrivere
e a parlarvi addosso, a parlare di voi e su voi
stessi. Fighetti! un po' snob e molto di sinistra
anche se il popolo, diciamocelo, vi fa un po' schifo!
Sembrate la compagnia fantasma del GRANDE FRATELLO
televisivo. Siete in vista e siete sempre voi stessi:
Mai nessuno che se ne va a fare in culo una volta per
tutte.
Pazienza!
Ma a proposito ho una chicca per voi.
Figli del Popolo! Legite et Discete!

Guerra in Iraq: «E il mio dilemma rimane. Tormentoso,
assillante»
La rabbia, l'orgoglio, e il dubbio
di Oriana Fallaci

Per evitare il dilemma, risparmiarmi la dolorosa
domanda «questa-guerra-deve-essere-fatta-o-no», per
superare le riserve e le riluttanze e i dubbi che
ancora mi straziano, spesso dico a me stessa: «Ah, se
gli iracheni si liberassero da soli di Saddam Hussein!
Ah, se qualche Ahmed o Abdul lo liquidasse e lo
appendesse pei piedi in qualche piazza come nel 1945
gli italiani fecero con Mussolini!». Ma non serve. O
serve in un senso e basta.

Nel 1945, infatti, gli italiani si liberarono di
Mussolini perché gli Alleati avevano occupato tre
quarti dell’Italia. Quindi reso possibile
l’insurrezione del Nord. In parole diverse, perché la
guerra l’avevano fatta. Una guerra senza la quale
Mussolini ce lo saremmo tenuti vita natural durante.
(Hitler, lo stesso). Una guerra durante la quale gli
Alleati ci avevano bombardato senza pietà ed eravamo
morti come le mosche. Loro, idem. A Salerno, ad Anzio,
a Cassino. Nell’avanzata verso Firenze, sulla Linea
Gotica. La tremenda Linea Gotica che i tedeschi
avevano opposto dal Tirreno all’Adriatico.

In meno di due anni, 45.806 morti americani e 17.500
tra inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi,
sudafricani, indiani, brasiliani, polacchi. Nonché
francesi che avevano scelto De Gaulle e italiani che
avevano scelto la Quinta o l’Ottava Armata. (Sai
quanti cimiteri di militari alleati ci sono in Italia?
Oltre centotrenta. E i più grossi, i più affollati,
sono proprio quelli americani. Soltanto a Nettuno,
10.950 tombe. Soltanto a Falciani, presso Firenze,
5.811... Ogni volta che ci passo davanti e vedo quel
lago di croci, rabbrividisco di dolore e di
gratitudine).

C’era anche un Fronte di Liberazione Nazionale, in
Italia. Una Resistenza che gli Alleati rifornivano di
armi e di munizioni. Poiché malgrado la tenera età mi
occupavo della faccenda, ricordo perfettamente il
Dakota che sfidando la contraerea ce le paracadutava
in Toscana. Per l’esattezza, sul Monte Giovi dove per
farci localizzare accendevamo i fuochi e dove una
notte paracadutarono anche un commando che aveva il
compito di allestire una radio clandestina detta Radio
Cora. Dieci simpaticissimi americani che parlavano
ottimo italiano. E che tre mesi dopo furono catturati
dalle SS, torturati in modo selvaggio, fucilati
insieme alla partigiana Anna Maria Enriquez-Agnoletti.
Così il dilemma rimane. Tormentoso, assillante.
Rimane per i motivi che mi accingo ad esporre. E il
primo motivo è che, contrariamente ai pacifisti che
non berciano mai contro Saddam Hussein o Bin Laden e
se la pigliano solo con Bush o con Blair, (ma nel
corteo di Roma se la son presa pure con me, a quanto
pare augurandomi di scoppiare in mille pezzi col
prossimo shuttle), la guerra io la conosco. So bene
che cosa significa vivere nel terrore, correre sotto
le cannonate o le bombe da mille chili, veder morire
la gente ed esplodere le case, crepare di fame, non
aver nemmeno l’acqua da bere. E, peggio ancora,
sentirsi responsabile per la morte di un altro essere
umano. (Anche se quell’essere umano è un nemico, ad
esempio un fascista o un soldato tedesco). Lo so
perché appartengo, appunto, alla generazione della
Seconda Guerra Mondiale. E perché gran parte della mia
vita sono stata corrispondente di guerra. Non uno di
quelli che stanno in albergo: uno di quelli che al
fronte ci vanno davvero.

Ergo, dal Vietnam in poi ho visto orrori che chi
conosce la guerra soltanto attraverso la TV o i film
dove il sangue è salsa di pomodoro non immagina
nemmeno. E la guerra la odio quanto i pacifisti in
buona o cattiva fede non la odieranno mai. La odio
tanto che ogni mio libro trabocca di quell’odio. La
odio tanto che perfino i fucili da caccia mi danno
fastidio e lo stupido schioppettare dei cacciatori
estivi mi fa salire il sangue al cervello. Però non
accetto il fariseo principio anzi slogan di coloro che
dicono: «Tutte le guerre sono ingiuste, tutte le
guerre sono illegittime». La guerra contro Hitler e
Mussolini era una guerra giusta, perbacco. Una guerra
legittima. Anzi, doverosa. Le guerre risorgimentali
che i miei nonni fecero nell’Ottocento per cacciare lo
straniero invasore erano guerre giuste, perbacco.
Guerre legittime. Anzi, doverose. E la Guerra
d’Indipendenza che i coloni americani fecero contro
l’Inghilterra, lo stesso. Le guerre (o le rivoluzioni)
che avvengono per ritrovare la dignità, la libertà,
idem. Io non credo nelle disinvolte assoluzioni, nelle
comode pacificazioni, nel perdono facile. E ancor meno
credo nello sfruttamento della parola Pace, nel
ricatto della parola Pace. Quando in nome della pace
si cede alla prepotenza, alla violenza, alla tirannia,
quando in nome della pace ci si rassegna alla paura,
si rinuncia alla dignità e alla libertà, la pace non è
più pace. E’ suicidio.

Il secondo motivo è che, se giusta come spero e
legittima come mi auguro, questa guerra non dovrebbe
svolgersi ora. Avrebbe dovuto svolgersi un anno fa.
Vale a dire quando le rovine delle Due Torri erano
fumanti, e tutto il mondo civile si sentiva americano.
Se si fosse svolta allora, oggi i simpatizzanti di Bin
Laden e di Saddam Hussein non riempirebbero le piazze
col loro pacifismo a senso unico. Le star di Hollywood
non si esibirebbero nel ruolo (per loro grottesco) di
capi-popolo. E l’ambigua Turchia che sta rimettendo il
velo alle donne non rifiuterebbe il passaggio ai
Marines diretti al fronte del Nord. Nonostante le
cicale europee che insieme ai palestinesi ghignavano
«Bene-agli-americani-gli-sta-bene», un anno fa nessuno
negava che gli Stati Uniti avessero sofferto una
seconda Pearl Harbor e che di conseguenza gli
spettasse il diritto di reagire. Meglio: se giusta
come spero, legittima come mi auguro, questa è una
guerra che avrebbe dovuto svolgersi ancor prima. Cioè
quando Clinton era presidente e le piccole Pearl
Harbor scoppiavano nel resto del mondo. In Somalia, ad
esempio, dove i Marines in missione di pace venivano
trucidati e mutilati poi dati in pasto alla folla
impazzita. In Kenia, nello Yemen, e via dicendo.

L’11 settembre non è stato che la brutale conferma
d’una realtà ormai fossilizzata. L’indiscutibile
diagnosi del medico che ti sventola sul naso la
radiografia e senza complimenti dice: «Caro signore,
cara signora, Lei ha davvero il cancro». Se Clinton
avesse speso meno tempo con le ragazze prosperose, se
avesse usato in modo più responsabile la Stanza Ovale,
forse l’11 settembre non sarebbe avvenuto. È inutile
aggiungere che, ancor meno, l’11 settembre sarebbe
avvenuto se George Bush Senior avesse eliminato Saddam
Hussein con la Guerra del Golfo. Rammenti? Nel 1991
l’esercito iracheno si sgonfiò come un pallone bucato.
Si disintegrò così velocemente che perfino io catturai
quattro dei suoi soldati. Stavo dietro una duna del
deserto saudita, sola sola e indifesa, quando quattro
scheletri scalzi e laceri vennero verso di me con le
braccia alzate. «Bush!» bisbigliarono in tono
supplichevole. «Bush!». Parola che per loro
significava: «Ho tanta fame, tanta sete. Fammi
prigioniero, per carità». Io li presi, li consegnai al
tenente in carica, e invece di congratularsi questo
brontolò: «Uffa! ne abbiamo già cinquantamila. Glielo
dà lei da mangiare e da bere?». Eppure gli americani
non raggiunsero Bagdad. George Bush Senior non lo
rimosse, Saddam.
(«Il-mandato-delle-Nazioni-Unite-era-liberare-il-Kuwait-e-ba
sta). E, per ringraziarlo, Saddam tentò di farlo
assassinare. Infatti a volte mi chiedo se questa
guerra tardiva non sia anche una rappresaglia
pazientemente attesa. Una promessa filiale, una
vendetta da tragedia shakespeariana anzi greca.

Il terzo motivo è il modo sbagliato in cui l’ipotetica
promessa al babbo s’è realizzata. Chi oserebbe
confutarlo? Dall’11 settembre agli inizi dello scorso
autunno tutta l’enfasi si concentrò su Bin Laden, su
Al Qaida, sull’Afghanistan. Saddam Hussein e l’Iraq
furono praticamente ignorati. E solo quando diventò
chiaro che Bin Laden godeva un’eccellente salute
perché l’impegno di prenderlo vivo o morto era
fallito, Bush e Powell si ricordarono del suo rivale.
Ci dissero che Saddam Hussein era cattivo, che
tagliava la lingua e gli orecchi agli avversari, che
uccideva i loro bambini dinanzi ai loro occhi. (Vero).
Che decapitava le prostitute poi esibiva in piazza le
loro teste. (Vero). Che le sue prigioni straripavano
di detenuti politici chiusi in celle piccole come
bare, che gli esperimenti chimici e biologici li
eseguiva con particolare diletto su tali vittime.
(Vero). Che aveva legami con Al Qaida e finanziava il
terrorismo, premiava le famiglie dei kamikaze
palestinesi con 25.000 dollari a famiglia. (Vero).
Infine, che non aveva mai rinunciato al suo arsenale
di armi letali sicché le Nazioni Unite dovevano
rimandare gli ispettori in Iraq.

D’accordo, ma siamo seri: se negli anni Trenta
l’inefficiente Lega delle Nazioni avesse mandato i
suoi ispettori in Germania, credi che Hitler gli
avrebbe mostrato Peenemünde dove Von Braun fabbricava
i V1 e i V2 per polverizzare Londra? Credi che gli
avrebbe mostrato i campi di Dachau e Mauthausen, di
Auschwitz e di Buchenwald? Malgrado ciò, la commedia
degli ispettori venne riesumata e con tale intensità
che il ruolo di primadonna è passato da Bin Laden a
Saddam Hussein. E nemmeno l’arresto di Khalid
Muhammed, l’architetto dell’11 settembre, ha sollevato
un congruo giubilo. La notizia che Bin Laden sia stato
localizzato nel Pakistan Settentrionale e rischi di
fare la medesima fine, lo stesso. Una commedia
inzuppata di miserie, oltretutto. Di vili doppi giochi
anzi complicità da parte degli ispettori. Di strategie
sconsiderate da parte di Bush che tenendo il piede in
due staffe chiedeva al Consiglio di Sicurezza il
permesso di muover guerra e contemporaneamente inviava
le truppe ai confini con l’Iraq. In meno di due mesi,
un quarto di milione di truppe. Con quelle inglesi e
australiane, oltre trecentomila. E questo senza capire
che i nemici dell’America (ma dovrei dire
dell’Occidente) non stanno solo a Bagdad.

Stanno anche in Europa, signor Bush. Stanno a Parigi
dove il mellifluo Chirac se ne frega della pace ma
sogna di soddisfare la sua vanità col Prix Nobel de la
Paix. Dove nessuno ha voglia di rimuovere Saddam
perché Saddam è il petrolio che le compagnie
petrolifere francesi pompano dal suo Iraq. E dove,
dimenticando il piccolo neo chiamato Pétain, la
Francia insegue la napoleonica pretesa di dominare
l’Unione Europea. Assumerne l’egemonia. Stanno a
Berlino dove il partito del mediocre Schröder ha vinto
le elezioni paragonandoLa al loro Hitler. Dove le
bandiere americane vengono insozzate con la svastica
simbolo della Germania nazista. E dove, nel miraggio
di sostener nuovamente la parte dei padroni, i
tedeschi vanno a braccetto coi francesi. Stanno a Roma
dove i comunisti sono usciti dalla porta per rientrare
dalla finestra come gli uccelli dell’omonimo film di
Hitchcock. Dove i preti cattolici sono più bolscevichi
di loro. E dove affliggendo il prossimo col suo
ecumenismo, il suo terzomondismo, il suo
fondamentalismo, Karol Wojtyla riceve Aziz come se
fosse una colomba col ramoscello d’olivo in bocca o un
martire in procinto d’esser divorato dai leoni del
Colosseo. (Poi lo manda ad Assisi dove i frati lo
scortano fino alla tomba di San Francesco, povero San
Francesco). Negli altri paesi europei, idem o giù di
lì. Non L’hanno ancora informata i Suoi ambasciatori?
In Europa i nemici degli Stati Uniti stanno
dappertutto, signor Bush. Ciò che Lei chiama
garbatamente «differenze-d’opinione» è odio puro. Un
odio simile a quello che l’Unione Sovietica esibiva
fino alla Caduta del Muro. Il loro pacifismo è
sinonimo di antiamericanismo e, accompagnato da una
cupa rinascita di antisemitismo, trionfa quanto in
Islam.

Sa perché? Perché l’Europa non è più l’Europa. È
diventata una provincia dell’Islam come la Spagna e il
Portogallo al tempo dei Mori. Ospita sedici milioni di
immigrati musulmani, cioè il triplo di quelli che
stanno in America. (E l’America è tre volte più grande
dell’Europa). Rigurgita di mullah, di ayatollah, di
imam, di moschee, di turbanti, di barbe, di burqa, di
chador, e guai a protestare. Nasconde migliaia di
terroristi che i nostri governi non riescono né a
controllare né ad identificare. Ergo la gente ha paura
e sventolando la bandiera del pacifismo,
pacifismo-uguale-antiamericanismo, si sente protetta.
Quasi ciò non bastasse, l’Europa li ha dimenticati i
221.484 americani morti per lei nella Seconda guerra
mondiale... Dei loro cimiteri in Normandia, nelle
Ardenne, nei Vosgi, nella vallata del Reno, in Belgio,
in Olanda, in Lussemburgo, in Lorena, in Danimarca, in
Italia, non gliene importa un bel nulla. Anziché
gratitudine l’Europa prova invidia, gelosia, livore e
nessuna nazione europea appoggerà questa guerra,
signor Bush. Nemmeno quelle veramente alleate come la
Spagna o rette da tipi che come Berlusconi La chiamano
«il mio amico George».

In Europa lei ha un amico e basta, un alleato e basta:
Tony Blair. Però anche Blair regge un Paese invaso dai
Mori e verso gli Stati Uniti pieno di invidia,
gelosia, livore. Persino il suo partito lo rimbecca,
lo osteggia. E a proposito: devo chiederLe scusa,
signor Blair. Devo in quanto nel mio libro «La rabbia
e l’orgoglio» sono stata ingiusta con lei. Sviata dal
suo eccesso di cortesia nei riguardi della cultura
islamica ho scritto che era una cicala tra le cicale,
che il Suo coraggio non sarebbe durato a lungo, che
appena non fosse più servito alla Sua carriera
politica lo avrebbe messo da parte. Invece quella
carriera politica la sta sacrificando alle proprie
convinzioni. Con coerenza impeccabile. Davvero mi
scuso e ritiro anche la brutta frase che aggravava
l’ingiustizia: «Se la nostra cultura ha lo stesso
valore d’una cultura che costringe a portare il burqa,
perché passa le vacanze nella mia Toscana e non in
Arabia Saudita o in Afghanistan?». E Le dico: «Ci
venga quando vuole. La mia Toscana è la Sua Toscana, e
la mia casa è la Sua casa. My home is your home».
Il motivo finale del mio dilemma sta nei termini con
cui Bush e Blair e i loro consiglieri definiscono
questa guerra. «Una guerra di liberazione, una guerra
umanitaria per portare la libertà e la democrazia in
Iraq». Eh no, cari signori, no. L’umanitarismo non ha
niente a che fare con le guerre. Tutte le guerre,
anche quelle giuste, anche quelle legittime, sono
morte e sfacelo e atrocità e lacrime. E questa non è
una guerra di liberazione. (Non è neanche una guerra
di petrolio, sia chiaro, come molti sostengono.
Contrariamente ai francesi, gli americani non hanno
bisogno del petrolio iracheno). È una guerra politica.
Una guerra fatta a sangue freddo per rispondere alla
Guerra Santa che i nemici dell’Occidente hanno
dichiarato l’11 settembre. È una guerra profilattica.
Un vaccino come il vaccino contro la poliomelite e il
vaiolo, un intervento chirurgico che s’abbatte su
Saddam Hussein perché tra i vari focolai di cancro
Saddam Hussein appare il più ovvio. Il più evidente,
il più pericoloso.

Inoltre Saddam costituisce l’ostacolo, (pensano Bush e
Blair e i loro consiglieri), che una volta rimosso gli
permetterà di ridisegnare la mappa del Medio Oriente.
Insomma far quello che gli inglesi e i francesi fecero
dopo il crollo dell’impero ottomano. Ridisegnarla e
diffondere una Pax Romana, pardon, una Pax Americana
dove regni la Libertà e la Democrazia. Dove nessuno
dia più fastidio con gli attentati e le stragi. Dove
tutti possano prosperare, vivere felici e contenti.
Sciocchezze. La libertà non può essere data in regalo
come un pezzo di cioccolata, e la democrazia non può
essere imposta con gli eserciti. Come diceva mio padre
quando invitava gli antifascisti ad entrare nella
Resistenza, e come dico io quando parlo con coloro che
credono onestamente nella Pax Americana, la libertà
bisogna conquistarcela da soli. La democrazia nasce
dalla civiltà, e in entrambi i casi bisogna sapere di
cosa si tratta. La Seconda guerra mondiale fu una
guerra di liberazione non perché regalò all’Europa i
due pezzi di cioccolata cioè due novità chiamate
Libertà e Democrazia, ma perché le ristabilì. E le
ristabilì perché gli europei le avevano perdute con
Hitler e Mussolini. Perché le conoscevano bene,
sapevano di che si tratta.

I giapponesi no. Ne convengo. Per i giapponesi i due
pezzi di cioccolata furono un regalo che li
rimborsava, oltretutto, di Hiroshima e Nagasaki. Però
il Giappone aveva già iniziato la sua marcia verso il
progresso, e non apparteneva al mondo che ne «La
Rabbia e l’Orgoglio» chiamo La Montagna. Una montagna
che da 1.400 anni non si muove, non cambia, non emerge
dagli abissi della sua cecità. Insomma, l’Islam. I
moderni concetti di libertà e di democrazia sono del
tutto estranei al tessuto ideologico dell’Islam, del
tutto opposti al dispotismo e alla tirannia dei suoi
Stati teocratici. In quel tessuto ideologico è Dio che
comanda, è Dio che decide il destino degli uomini, e
di quel Dio gli uomini non sono figli bensì sudditi,
schiavi. Insciallah-Come Dio Vuole-Insciallah. Ergo
nel Corano non v’è posto per il libero arbitrio, per
la scelta, cioè per la libertà. Non v’è posto per un
regime che almeno giuridicamente è basato
sull’uguaglianza, sul voto, sul suffragio universale,
cioè per la democrazia. Infatti quei due moderni
concetti i musulmani non li capiscono. Li rifiutano e
invadendoci, conquistandoci, vogliono cancellarli
anche dalla nostra vita.

Sorretti dal loro caparbio ottimismo, lo stesso
ottimismo con cui a Fort Alamo combatterono con tanto
eroismo e finirono tutti massacrati dal generale Santa
Ana, gli americani sono certi che a Bagdad verranno
accolti come a Roma e a Firenze e a Parigi. «Ci
applaudiranno, ci getteranno fiori» mi ha detto tutto
contento una testa d’uovo di Washington. Forse. A
Bagdad può succedere di tutto. Ma dopo? Che succederà
dopo? Oltre due terzi degli iracheni che nelle ultime
«elezioni» hanno dato il cento per cento dei voti a
Saddam sono sciiti che da sempre vagheggiano di
stabilire la Repubblica islamica dell’Iraq. E negli
anni Ottanta anche i sovietici vennero accolti bene a
Kabul. Anche i sovietici imposero la loro pax con
l’esercito. Convinsero addirittura le donne a
togliersi il burqa: rammenti? Però dieci anni dopo
dovettero andarsene, cedere il passo ai Talebani.
Domanda: e se, invece di scoprire la libertà, l’Iraq
diventasse un secondo Afghanistan? E se, invece di
imparare la democrazia, l’intero Medio Oriente
saltasse in aria o il cancro si moltiplicasse? Di
paese in paese, con una specie di reazione a catena...
Da occidentale fiera della sua civiltà e quindi decisa
a difenderla fino all’ultimo fiato, senza riserve
dovrei in tal caso unirmi a Bush e a Blair
asserragliati dentro una nuova Fort Alamo. Senza
riluttanze dovrei in tal caso combattere e morire con
loro.
Il che è l’unica cosa sulla quale non ho il minimo
dubbio.

© Oriana Fallaci
Rcs Libri Rizzoli International
All rights reserved
Questo articolo è stato pubblicato anche su «The Wall
Street Journal»


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