[Cerchio] 35?! 30!

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Autor: Linbo
Data:  
Asunto: [Cerchio] 35?! 30!
Jeremy Rifkin
LA FINE DEL LAVORO
Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato
ISBN 88-04-51085-4
Ottobre 2002


Il movimento di condiuvisione del lavoro.

Nell'ottobre 1929, meno di un milione di persone erano disoccupate. Nel dicembre
1931 il loro numero aveva superato i 10 .milioni; sei mesi dopo, nel giugno
1932, il numero dei disoccupati era salito a 13 milioni. Al culmine della
depressione, nel marzo 1933, il numero degli americani senza lavoro raggiunse i
15 milioni. (28)

Sempre più economisti attribuivano la responsabilità della depressione alla
rivoluzione tecnologica degli anni Venti, che aveva fatto crescere la
produttività e i volumi di produzione più in fretta di quanto potesse essere
generata domanda di beni e servizi. Più di mezzo secolo prima, Friedrich Engels
aveva scritto: <<Il progressivo perfezionamento dei macchinari moderni... è
diventato una legge ineludibile che obbliga il singolo capitalista a migliorare
la propria dotazione di macchine, a incrementare la proprla forza produttiva...
[ma] la dimensione del mercato non può tenere il passo con i volumi della
produzione. La collisione diventa inevitabile>>. (29)

L'analisi di Engels, un tempo considerata eccessivamente pessimistica - se non
completamente sbagliata - in quegli anni venne accettata dagli economisti di
scuola <<classica>> e dagli ingegneri. Dexter Kimball, preside della facoltà di
Ingegneria alla Cornell University, come molti altrl, giunse a identificare la
relazione diretta e necessaria tra le nuove tecnologie laboraving, l'accresciuta
efficienza e la crescente disoccupazione. <<Per la prima volta>>, osservava
Kimball, <<si è sollevata una questione nuova e delicata che riguarda i metodi e
gli impianti di produzione, e si comincia a manifestare il timore che il nostro
sistema industriale sia così efficiente da rendere strutturale la
sovrapproduzione e, in conseguenza, da trasformare la disoccupazione tecnologica
in un elemento permanente dell'economia.>> (30)

I leader sindacali dell'epoca fecero propria l'idea di compensare i guadagni di
produttività con la riduzione dell'orario di lavoro, ritenendo che fosse un modo
per riportare molti disoccupati in fabbrica, aumentare il potere d'acquisto e
dare la spinta per la ripresa a un'economia indebolita. Sebbene per tutti gli
anni Venti i sindacati avessero propugnato il diritto dei lavoratori a
beneficiare dei guadagni indotti dall'aumentata produttività, l'argomentazione a
sostegno della teoria della produzione dell'orario di lavoro si fondava più sui
benefici psicologici e sociali del tempo libero che su quelli economici. Lo
storico Benjamin Hunnicutt ha sottolineato che, al congresso del 1929 della
American Fedefation of Labor (AFL), la relazione del consiglio direttivo sulla
riduzione d'orarío <<non faceva alcun riferimento alla disoccupazione o a salari
più elevati, configurandosi invece come una retorica apologia del tempo libero,
che veniva descritto come una necessità per un equilibrato sviluppo del corpo,
della mente e dello spirito... per la ricchezza della vita... per il progresso
sociale... e per la civltà stessa>>. (31)

Nel 1932, le organizzazioni dei lavoratori avevano già spostato l'accento
dell'argomentazione a sostegno della riduzione d'orario dalla qualità della vita
alla giustizia economica. I leader sindacali vedevano la disoccupazione
tecnologica come <<il naturale risultato dell'aumentata efficienza, dei surplus
economici e della limitatezza dei mercati>>. (32) Sostenevano che, se la nazione
voleva evitare una disoccupazione diffusa e permanente, era necessario che la
comunità degli affari condividesse con i lavoratori i benefici che discendevano
dalla maggiore produttività, attraverso la riduzione delle ore lavorative. La
riduzione dell'orario veniva vista sempre più come una questione di
sopravvivenza: se le nuove tecnologie aumentavano la produttività e portavano
alla riduzione del numero degli occupati e alla sovrapproduzione, il solo
antidoto appropriato era la riduzione del numero delle ore lavorate, in modo che
tutti avessero un posto di lavoro e un reddito sufficiente ad assorbire gli
aumenti dei volumi di produzione. Bertrand Russell, il grande matematico e
filosofo inglese, si schierò dalla parte dei lavoratori. <<Non ci dovrebbero
essere otto ore per alcuni e zero per altri, ma quattro ore per tutti>>. (33)

Il 20 luglio 1932, il consiglio direttivo della AFL, riunitosi ad Atlantic City,
stilò la bozza di una dichiarazione che faceva richiesta al presidente Hoover di
indire una tavola rotonda tra i leader delle organizzazioni imprenditoriali e i
sindacati, con lo scopo di avviare il progetto della settimana lavorativa di
trenta ore, per <<creare nuove opportunità di lavoro per milioni di donne e di
uomini che versano in condizioni di disagio>>. (34) Con l'ansia di stimolare il
potere d'acquisto dei consumatori e non vedendo altre praticabili vie d'uscita,
molti manager e imprenditori aderirono - riluttantí - alla campagna per la
riduzione dell'orario. Molte grandi imprese, tra le quali la Kellogg's di Battle
Creek, la Sears di Roebuck, la Standard Oil del New Jersey e la Hudson Motors,
adottarono volontariamente la settimana corta, al fine di mantenere i livelli
occupazionali. (35)

Uno dei piani più ambiziosi e innovativi fu quello messo in atto dalla
Kellogg's. W.K. Kellogg, il proprietario, era convinto che <<se ricorriamo a
quattro turni di sei ore, invece che a tre turni di otto, daremo un lavoro e uno
stipendio a trecento capi Famiglia di Battle Creek>>. Per garantire un adeguato
potere d'acquisto ai propri dipendenti, l'azienda portò il salario minimo per il
lavoratore maschio a 4 dollari il giorno e aumentò la paga oraria del 12,5%, in
modo da compensare la perdita di due ore lavorative al giorno. (36)

Il management della Kellogg's sosteneva che i dipendenti dovessero essere messi
in grado di beneficiare degli incrementi di produttività, godendo di salari più
elevati e della settimana corta. L'azienda produsse una documentazione che
dimostrava il miglioramento indotto dalla riduzione dell'orario sul morale e
sull'efficienza del lavoratore. Nel 1935 l'azienda pubblicò uno studio
dettagliato dal quale si evinceva che <<a cinque anni dall'introduzione del
regime delle sei ore al giorno, le spese generali unitarie si sono ridotte del
25%, il costo del lavoro per unità di prodotto è diminuito del 10%, gli
incidenti sul lavoro del 41% [e] il numero dei dipendenti della Kellogg's è
aumentato del 39% rispetto al 1929>>. (37) L'azienda era orgogliosa dei
risultati ottenuti e disponibile a con frontare la propria visione con quella di
altre imprese: <<Per noi non è solo una teoria. Abbiamo dimostrato con cinque
anni di esperienza sul campo che, con la settimana corta, l'efficienza e il
morale dei nostri dipendenti sono migliorati, gli incidenti e i premi di
assicuraiione sono calati, e il costo unitario del prodotto si è abbassato al
punto da consentirci di retribuire sei ore di lavoro quanto eravamo soliti
pagare per otto>>. (38)

Ma la <<filosofia Kellogg>> andava ben al di là del principio del miglioramento
dell'efficienza dei lavoratori e del contenimento della disoccupazione. Parlando
a nome della Famiglia Kellogg, il presidente Lewis L. Brown disse che
l'obiettivo dell'aumento di produttività non doveva essere solo di profitto, ma
anche di conquista di più tempo libero da parte di milioni di lavoratori
americani, che avrebbero così potuto riaffermare la propria dedizíone alla
famiglia e alla comunità e sperimentare una maggiore libertà personale.
L'azienda introdusse molte innovazioni presso la fabbrica e nella comunità
locale per rfforzare la diffusione dell'etica di un benessere non solo
economico: fece costruire una palestra e una sala di ricreazione, un campo
sportivo e un parco pubblico; rese disponibili ai dipendenti piccoli orti o
giardini e perfino un'area naturale protetta in modo che potessero godere delle
bellezze naturali della campagna del Michigan. (39)

Una ricerca condottä dall'Industrial Conference Board su un campione di 1718 top
manager mise in luce il fatto che, nel 1932, più della metà delle imprese
industriali americane aveva ridotto il numero delle ore lavorate, in modo da
mantenere i livelli occupazionali e promuovere i consumi. (40) H.I. Harriman,
presidente della National Chamber of Commerce, prese posizione a favore di una
distribuzione del lavoro più equa tra i lavoratori americani dicendo: <<È meglio
che tutti lavorino per una parte del tempo, piuttosto che alcuni lavorino a
tempo pieno e altri non lavorino affatto>>. (41)

Il 31 dicembre 1932, il senatore dell'Alabama Hugo L. Black presentò al Senato
degli Stati Uniti una proposta di legge per rendere obbligatoria la settimana
lavorativa di 30 ore, che veniva definita come <<l'unico metodo praticabile e
possibile per gestire la disoccupazione>>. Black si rivolse alla nazione
attraverso la radio, chiedendo al popolo americano di sostenere la <<legge delle
30 ore>>. Egli prevedeva che l'approvazione del provvedimento avrebbe portato
all'immediato riassorbimento di 6,5 milioni di disoccupati nel sietema
produttivo e avrebbe rappresentato un beneficio per le imprese, incrementando il
potere d'acquisto di milioni di nuovi assunti. (42)

Durante il dibattito sulla <<legge B1ack>> nel gennaio e febbraio 1933, William
Green dell'AFL dichiarò di essere assolutamene convinto che <<bisogna applicare
ovunque la settimana e la giornata corta se vogliamo creare opportunità di
occupazione ai milioni di lavoratori disoccupati e desiderosi di rendersi
utili>>. (43)

Tra la sorpresa generale, il Senato approvò la proposta di Black, con 53 voti a
favore contro 30 contrari, rendendo obbligatoria la settimana di 30 ore per
tutte le aziende con attività commerciali interstatali o all'estero. Il voto del
Senato elettrizzo l'opinione pubblica e fece tremare Wall Street. <<Labor>>, un
perioico sindacale, titolò trionfalisticamente GRANDE VITTORIA. I redattori del
periodico, increduli - come la maggior parte della pubblica opinione - di ciò
che era accaduto nell'aula del Senato, riflettevano sull'importanza dell'evento
e scrissero. <<Dieci anni fa, una proposta di questa natura sarebbe stata
bloccata in Commissione. La settimana scorsa, una maggioranza schiacciante di
senatori - tanto progressisti, quanto conservatori - ha votato a favore. Questo
fatto segna uno dei cambiamenti più straordinari della storia recente>>. (44)

La <<legge Black>> passò immediatamente al vaglio della Camera dei
rappresentanti, dove William P. Connery Jr., del Massachusetts, presidente della
Commissione lavoro, predisse una rapida approvazione. La legge passò in
Commissione, che rivolse anche un invito in tal senso alla Camera. La ratifica
definitiva sembrava ormai certa. La maggioranza degli americani era convinta di
diventare in tempi rapidi la prima forza lavoro del mondo a beneficiare della
settimana lavorativa di 30 ore, ma l'eccitazione del Paese era destinata a breve
vita. Il presidente Roosevelt - con il sostegno degli imprenditori - si mosse
immediatamente per annullare il provvedimento. Sebbene il governo fosse disposto
a riconoscere che la riduzione dell'orario avrebbe aperto nuove opportunità
occupazionali nel breve termine e avrebbe fatto aumentare il potere d'acquisto,
Roosevelt era preoccupato delle conseguenze nel lungo termine: crescita
rallentata e diminuzione della competitività internazionale delle aziende
americane. Il mondo delle imprese, sebbene fosse favorevole a strategie autonome
e volontarie di breve durata per la riduzione dell'orario, si opponeva a una
regolamentazione a livello federale, che avrebbe istituzionalizzato la settimana
corta, rendendola una caratteristica permanente dell'economia americana.

Roosevelt convinse la Commissione regolamenti della Camera a bocciare la <<legge
Black-Connery>> in cambio dell'approvazione del National Industrial Recovery Act
(NIRA), che permetteva al governo di stabilire la durata della settimana
lavorativa in settori specifici. Tanto il Congresso quanto le organizzazioni
sindacali capitolarono, in buona parte perché la legislazione NIRA conferiva ai
sindacati il potere di rappresentanza e apriva la strada alla contrattazione
collettiva con le imprese, una richiesta che i rappresentanti dei lavoratori
avevano a lungo sostenuto presso il legislatore federale. In sostanza, la
domanda di riduzione d'orario venne sacrificata in cambio del diritto alla piena
protezione legale dei sindacati, nel loro sforzo per organizzare l'ambiente di
lavoro in America.

Più tardi, Roosevelt <<espresse il proprio dispiacere per non aver sostenuto la
legge Black-Connery e la sua approvazione da parte del Congresso>>. (49) Nel
1937, innaugurò una sessione speciale del Congresso, convocata per affrontare il
problema della crescita della disoccupazione prevista per quell'anno, con una
prolusione nella quale poneva ai propri colleghi una domanda che conserva ancora
oggi l'attualità e il valore chee aveva allora: <<Che cosa può guadagnare il
Paese dall'incoraggiare gli imprenditori a espandere la capacità produttiva se
il reddito della popolazione attiva non aumenta in termini reali, creando
mercati che possano assorbire il crescente volume di produzione?>> (46)

Con la crociata del <<Vangelo del consumismo>>, messa in stallo dal collasso del
credito e il movimento per la condivisione del lavoro messo a terra
dall'inazione del Congresso, il Paese alla fine si rivolse al governo federale
per risollevare un'economia vacillante. Questo scelse la strada del New Deal e
un nuovo approcio alla soluzione dei problemi gemelli della diffusa
disoccupazione tecnologica e della debole domanda di consumi.


Note:

28, David Roediger e Philip Foner, Our Own Time: A History of American Labor and
the Working Day, Westport, Greenwood Press.  1989, p. 243.        ' 29.
Friedrich Engels. <<Socialism, Utopian and Scientific>>, in Ten Classics of
Marxism, New York, International Publisher, 1946, pp. 62-3.


30. Dexter S. Kimball, The Social Effects of Mass Production, <<Science>>, 77. 6
gennaio 1933, p. 1.

31. Benjamin Hunnicut, op. cit., p. 83

32. Ibid., p. 76.

33. Bertrand Russell, In Praise of Idleness and Other Essays, London, 1935. p.
17.

34. Roy Bergson, Work Sharing in Industry: History, Methods and Extend of the
Movement in the United States, 1929-1933, tesi di dottorato non pubblicata,
Univeversity of Pennsylvania, 1933, pp. 7-8.

35. Benjamin Hunnicut, op. cit., p. 148.

36. Benjamin Hunnicut, The Death of Kellogg's Six-Hour Day, Iowa City,
University of Iowa, p. 9.

37. Ibid., p. 22.

38. Ibid.. p. 23.

39. Ibid., p. 24.

40. 5-Day Week Gains Throughout Nation, <<New York Times>>, 5 agosto 1932. p.
15.

41. <<New York Times>>, 14 agosto 1932, citato in Benjamin Hunnicut, op. cit.,
pp. 148-9.

42. <<Labor>>, 22 settembre 1932 e 10 gennaio 1933; Congressional Record, 72nd
congress, 2nd Session, vol. 76, parte 3, p. 4303, citato in David Roediger e
Philip Foner, op. cit., p. 246.

43. Thirty-Hour Week Bill, udienza S.5267, 72nd Congress, 2nd Session, pp. 13-4.

44. Grear Victory, <<Labor>>, 11 aprile 1933.

45. <<Labor>>, 8 ottobre 1935, citato in David Roediger e Philip Foner, op.
cit., pp 252-3.

46. Congressional Record, 75th Congress, 2nd Session, vol. 82, parte 1, p.6.

-- 
Le conquiste ottenute con la forza
richiedono un continuo ricorso alla forza
per poter essere mantenute;
è preferibile, perciò, convincere anziché costringere,
motivare anziché obbligare.
                    Mahatma Gandhi