Le ragioni della sconfitta del pacifismo
di Vinicio Albanesi
Martedì 11 marzo 2003
Le notizie di queste ultime ore danno oramai per scontato l'inizio della
guerra in Irak. Al di là della mancata seconda risoluzione al Consiglio di
sicurezza dell'ONU, le notizie dai fronti caldi dicono che di fatto la
guerra è già iniziata. Ne esce sconfitta tutta quella parte di prese di
posizioni, governative e della società civile, che continuano a dire no alla
guerra.
La domanda spontanea è il perché della sconfitta del "pacifismo".
Le ragioni sono almeno tre. La prima ragione è politica: chi dice no alla
guerra appartiene a quegli stessi popoli, che continuano a dettare legge nel
mondo. Possessori delle risorse economiche, finanziarie e commerciali, della
tecnologia, della ricerca scientifica, di ogni strumento capace di
"comandare" nel mondo, costoro non hanno rinunciato al loro potere,
riducendo così la differenza tra il sì e il no a prese di posizioni
"emozionali" o al massimo "razionali". Tra gli Stati Uniti, l'Inghilterra,
l'Australia e la Spagna da una parte e il resto del mondo, la differenza è
solo quantitativa, ma non qualitativa. Fare la guerra o no diventa
un'opportunità o un errore, a seconda dei punti di vista, ma gli equilibri,
con o senza la guerra nell'Irak, non cambiano tra le nazioni potenti del
mondo.
Il secondo motivo, etico, è più profondo: poiché ciascuna nazione si è
arrogato il diritto di definire che cosa è bene o male, ognuno in base alla
propria potenza, può imporre il "suo" bene o il "suo" male. Nessun
riferimento oggettivo (nemmeno quello dell'ONU) è riconosciuto. Da qui la
"trattativa", per conquistare adesioni alla propria politica internazionale
interventista o l'abbandono di altre guerre alla loro deriva, senza
interventi e senza preoccupazioni.
Il terzo motivo è di ordine esistenziale. Molto poco numerosi sono coloro
che, nel primo mondo, sono disposti a una vera politica di pace. Tale
politica presuppone la rinuncia ai propri privilegi, il rispetto delle
nazioni povere, il ripristino degli ecosistemi, anche a costo di gravi
sacrifici, compresa una recessione economico-produttiva dei propri paesi:
sacrificio che quasi nessuno è disposto a fare.
Innalzare bandiere, fare manifestazioni e sit-in, attivare consensi rischia
di diventare evento folkloristico, riservato a menti intelligenti, ma a
cuori ancora troppo duri e per questo senza effetti pratici.
Una vera politica di pace è severa: presuppone, oltre le prese di posizione,
comportamenti pacifisti. Merce veramente rara oggi nell'occidente: la
sconfitta del "pacifismo", ne è riprova.
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