Lähettäjä: zed Päiväys: Aihe: [Cm-milano] boicottaggio esso e keinesismo militare
quelli della esso sono quello che sono, l'articolo che ci è arrivato lo
spiega molto bene. e sicuramente hanno profondi e vasti interessi nella
guerra che bush vuol fare in irak (purtroppo ormai ormai sembra sia solo
questione di giorni)... vada per il boicottaggio, anche se nell'ombra non
credo che le altre sorelle del petrolio non ci guadagnino cmq.
però ho dei seri dubbi che lo slogano "no blood for oil" sia poi così
azzeccato, e del tutto veritiero.
la propaganda, di qualsiai tipo, non mi è mai piaciuta, è anch'essa madre
delle guerre, e credo che la riflessione invece porti altrove.
la reatà è forse più complessa, e a ben vedere putroppo ancora più brutale.
nell'articolo del prof. Enzo Modugno si spiega perchè. Se ci importa tanto
di questa guerra forse dagli un'occhiata e rifletterci su non sarebbe male.
forse sarebbero anche altri gli interessi e le industrie da fermare solo che
è molto + difficile boicottarli.
saluti
nemo
Lord Keynes inviato al fronte
ENZO MODUGNO
I Social Forum sono stati anche, a guardar bene, dei congressi
internazionali di
polemologia, una disciplina che studia le cause delle guerre. Da Firenze a
Porto Alegre
in centinaia di dibattiti sono state valutate le dichiarazioni ufficiali del
governo Usa e le
principali cause della guerra avanzate finora, cioè il keynesismo militare,
il terrorismo,
il petrolio. Partiamo dalla prima spiegazione, il keynesismo militare. «Con
Reagan -
ha scritto Samir Amin - il keynesismo sociale è stato ripudiato, ma a favore
di un
keynesismo militare - immutato dal 1945 e mantenuto anche dopo la
dissoluzione del
presunto nemico sovietico - per il quale la scelta egemonica di Washington
ha trovato
nuove legittimazioni». Secondo questa versione, la crisi economica, la più
grave dopo
il `29, è oggi il pericolo reale e inconfessabile per la «sicurezza
nazionale» Usa, non il
terrorismo e il petrolio delle versioni ufficiali. Quindi la spesa pubblica
militare - il
keynesismo infinito - serve in realtà a combattere la crisi perché ha il
duplice effetto:
1) di attutire la recessione - come sostegno alla domanda che diventa
decisivo
quando la riduzione della pressione fiscale e i tagli del costo del denaro
non danno
risultati - e 2) di rafforzare l'egemonia militare - che permette di
controllare mercati e
campi d'investimento e di rassicurare i capitali esteri che affluiscono a
finanziare il
deficit statunitense.
Una sinergia micidiale. La spesa pubblica militare è così diventata la
formula della
sopravvivenza per il capitalismo statunitense afflitto da depressione
cronica, ed è
ormai una necessità permanente, strutturale, inconfessabile che ha dunque
bisogno di
apparire necessaria in altro modo, giustificata cioè da una continua,
ossessiva,
apocalittica minaccia, che se c'è va enfatizzata e se non c'è va costruita.
Torniamo un po' dietro nella storia, agli anni Trenta, quando gli Usa
stavano
attraversando il decennio di depressione più disastroso della loro storia,
curato invano
con la spesa pubblica civile. Ma quando «il dottor New Deal - disse l'allora
presidente
Roosevelt - lasciò il posto al dottor vinciamo la guerra», e nel 1941, già
nei primi mesi
di conflitto con la forte ripresa della produzione, gli Usa verificarono
l'efficacia
economica della spesa pubblica militare, la adottarono stabilmente e da
allora non
l'hanno più abbandonata. Quindi non ci troviamo all'inizio della «guerra
infinita» ma
ad un'alternanza di guerre calde e fredde che dura da 61 anni: oggi infatti,
con la
capacità produttiva inutilizzata al 25%, come nella grande depressione,
l'unica
domanda che continua a crescere è quella per gli armamenti.
Il military keynesianism, di cui hanno scritto Paul Sweezy e Paul Baran,
Harry Magdoff,
Samir Amin, che hanno interpretato in questo modo le guerre Usa per più di
mezzo
secolo, è stato ripreso nei Social Forum ma oggi è quasi ignorato a
sinistra. Ne ha
parlato Alex Zanotelli e ne hanno variamente trattato Massimo Pivetti su
«Giano»,
Giacchè, Burgio e Catone su «L'Ernesto», Nella Ginatempo su «Pace e guerra»
e
Sbancor su Indymedia, Luciano Vasapollo e Giorgio Gattei in La belle epoque
è finita,
quaderno di «Contropiano». Ma non ve n'è traccia nel pur dotto volume Per
una pace
infinita di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni, secondo i quali la guerra
viene fatta per
rimuovere le interruzioni alla circolazione delle comunicazioni e dei flussi
del petrolio e
del denaro.
Secondo la spiegazione «keynesiano-militare» delle minacce di guerra, il
terrorismo e
il petrolio svolgerebbero il ruolo ufficiale di «minaccia».
La guerra al terrorismo è la versione ufficiale fornita dall'amministrazione
Usa,
accettata da neoliberisti di destra e di sinistra, e anche da una parte
della sinistra che
rifiuta la guerra, ma perché la considera un mezzo inadeguato e
controproducente. Si
vedano a questo proposito, le critiche a questa spiegazione date da Andrea
Catone
nel numero 5 de «L'Ernesto». Rifiuta questa versione anche Alex Zanotelli:
«Non è una
guerra contro il terrorismo. Non so cosa sia successo l'11 settembre, un
giorno lo
sapremo, ma il complesso militare-industriale americano ha usato l'11
settembre per
rilanciare l'economia».
Qualche mese fa a Praga, il presidente americano George W. Bush ha
dichiarato: «La
guerra fredda è finita ma ora ci sono nuovi nemici. Ci abbiamo messo dieci
anni per
capire qual era la nuova minaccia», confessando così la troppo lunga
gestazione della
strategia statunitense sulla sicurezza nazionale. Ma può essere detto, con
Ramonet,
in altro modo: «l'anticomunismo vi era piaciuto? l'antislamismo vi
entusiasmerà».
Tuttavia il terrorismo islamista non è l'Armata rossa e i 10 mila di Al
Qaeda non
riescono a giustificare una spesa militare così sproporzionata; anche perché
sono stati
allevati, istruiti, armati dagli Usa sin dagli inizi e usati contro l'Urss
in Afganistan; una
credibilità vacillante, anche per i dubbi e le inchieste sull'11 settembre.
E' stato dunque necessario un rilancio ufficiale. Se dopo l'11 settembre
erano stati
previsti due anni, adesso il «piano militare strategico per la guerra al
terrore» ne
prevede altri trenta, un intero periodo storico, l'equivalente della Guerra
fredda, in
realtà la sua continuazione. «E' la formula magica per far durare
all'infinito il periodo
delle vacche grasse: la Guerra fredda è una pompa automatica, si gira un
rubinetto e
la gente strepita per nuovi stanziamenti militari, se ne gira un altro e lo
strepito
cessa», scriveva 50 anni fa l'ultraconservatore «U.S. News and World Report»
(citato da
Paul Sweezy ne Il capitale monopolistico). Nulla di nuovo dunque,
nient'altro che la
solita, collaudatissima «formula magica». Costruire o enfatizzare la
minaccia per
giustificare l'ingente spesa pubblica militare. Ma alla Casa Bianca ci sono
due scuole di
pensiero e la seconda ha un'altra minaccia da affiancare al terrorismo: la
mancanza di
petrolio.
La mancanza di petrolio costuisce, secondo alcuni documenti
dell'amministrazione
Bush, il vero pericolo, dato che fondano alla «sicurezza nazionale» Usa sul
controllo
dei giacimenti. Questa spiegazione è recepita da un'altra parte della
sinistra perché
combacia con l'interpretazione «leninista» della guerra imperialistica come
guerra di
rapina. Per Valentino Parlato potrebbe essere «una tesi troppo
vetero-imperialista» (il
manifesto, 18-9-2002). Si sovrappone o coincide con l'interpretazione della
guerra
come imposizione dell'egemonia Usa. La versione petrolio è frequente sui
media
europei ma, come ha rilevato Rifkin, non su quelli americani. In effetti le
compagnie
americane hanno comprato ancora nel 2001 il 42% del petrolio che l'Iraq è
riuscito ad
esportare.
D'altra parte se si trattasse davvero di una guerra per disporre di più
petrolio, perché
solo ora e non dieci anni fa durante la guerra del Golfo? Quando invece il
petrolio fu
bloccato, prima col dietro-front a pochi chilometri da Bagdad e soprattutto
poi con le
sanzioni.
Il giornale della Confindustria si chiede preoccupato - ed è una
preoccupazione
«europea» - se anche questa volta «ci sia interesse a tenere quel greggio
lontano dal
mercato per molti anni» («Il Sole-24 Ore», 23-12-2002). Non si aspetta oil
bonanza
neanche l'«Economist» (25-1-2003) secondo cui il motivo della guerra non è
il petrolio
a buon mercato perché gli impianti petroliferi, già in cattive condizioni
dopo dieci anni
di abbandono, con la guerra peggioreranno e ci vorranno altri dieci anni per
ripristinarli, specialmente se Saddam Hussein distruggerà i pozzi: per
questo si
prevedono prezzi alti, $40 al barile, «almeno per molti anni».
E poi come sarà gestito il petrolio dell'Iraq? «Il petrolio è degli
iracheni» ha dichiarato
il segretario di stato Usa Colin Powell (22 gennaio), ma il suo capo tace:
glie lo
lasceranno o glie lo prenderanno tutto? E in questo secondo caso quanto
potrà costare
tenere a bada 25 milioni di iracheni?
Dunque non è certo la guerra che assicura agli Usa petrolio a basso costo ma
al
contrario il controllo del mercato che già detengono da molti anni: infatti
i paesi
veramente dipendenti dal petrolio sono i paesi produttori, che non hanno mai
il
coltello dalla parte del manico; il mercato del petrolio e dei derivati sul
petrolio è
dominato dalla domanda e i prezzi di riferimento (Brent e West Texas) si
fanno in
Occidente. Si prospettava anche un accordo tra i paesi importatori che
potrebbero
escludere alcuni paesi produttori gettandoli sul lastrico. E la Russia e
altri paesi non
Opec, che sono in grado da soli di fornire tutto il petrolio necessario
sostituendo il
Medio oriente, stanno ora tentando di convincere gli Usa ad acquistarne
quote
maggiori: c'è infatti incertezza sull'incremento della domanda di petrolio,
che è del
2,2% secondo il modello di riferimento ma potrebbe essere solo dell'1,1% in
seguito
al risparmio energetico in consumi e investimenti. Perfino il Bush del «no»
a Kyoto ha
stanziato 1,2 miliardi per il motore all'idrogeno. Pertanto, e per il fatto
che i giacimenti
sono più vasti di quanto stimato qualche anno fa, il dominio sul mercato
assicura già
agli Usa abbondanza di petrolio e controllo dei prezzi.
Per questo, anche se la crisi economica, secondo la tesi neoclassica,
derivasse dal
prezzo del petrolio - e non invece da ragioni endogene, secondo la tesi
marxiana -
non avrebbe comunque senso l'occupazione dei giacimenti perché rapinare
petrolio
costa molto di più che comprarlo: la guerra all'Iraq potrebbe costare fino a
2000 miliardi
di dollari, come sostiene l'economista William D. Nordhaus docente a Yale
(il manifesto
del 14/2/2003), e quindi gli Usa, che spendono 100 miliardi all'anno per
importare
petrolio, con 2000 miliardi potrebbero comprarne per vent'anni standosene
tranquilli a
casa. Ma sfortunatamente il rapporto costi/benefici è stato calcolato su un
altro piano.
D'altra parte il colonialismo è tramontato anche perché, stabilita
l'egemonia militare,
era più conveniente controllare i mercati che occupare i territori. Per
questo
l'occupazione coloniale dei pozzi - oggi - può diventare un'altra
giustificazione per
l'ingente spesa pubblica militare.
Il keynesismo militare dunque è un tragico retaggio delle dittature che con
la gestione
neoliberista si è definitivamente affermato come indispensabile alla
sopravvivenza del
capitalismo. Un micidiale binomio che va riconosciuto e fermato: il
terrorismo e il
petrolio sono solo le giustificazioni di turno, ci saranno ancora minacce
ossessive,
apocalittiche, martellanti, e governanti che non oseranno metterle in
dubbio.
L'anticomunismo delle blacklist maccartiste e l'antislamismo di oggi seguono
lo stesso
copione. Questo capitalismo ha avuto bisogno quest'anno per sopravvivere di
700
miliardi di armamenti mentre ne sarebbero bastati 13 per eliminare la morte
per
fame. Un cinismo trasversale che ormai solo un grande movimento può fermare.