SOLIDARIETA' AI/LLE COMPAGNI/E DEI COBAS. FERMIAMO LA
CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA.
Ancora un attacco contro il movimento.
Un attacco portato avanti nelle forme singolari che
tutti conosciamo, con l'annuncio su un quotidiano
della ricerca dell'identità di due militanti romani
immortalati in una foto. Due militanti dei Cobas.
Già, i Cobas. Negli ultimi mesi, la spinta a stroncare
il movimento nato a Seattle si è tradotta -in Italia-
anche e soprattutto nell'accanimento persecutorio nei
confronti di questa realtà del sindacalismo
autorganizzato.
Sicuramente la magistratura ne registra il sempre
maggior peso sia nel social forum che nel movimento
nel suo complesso.
Ma basta questo dato ad indirizzare verso i Cobas
l'attenzione degli apparati repressivi?
Evidentemente no.
Si può dire, anzi, che i Cobas non vengono colpiti
solo per quello che rappresentano, ma anche per quello
che potrebbero rappresentare in un futuro prossimo.
Quel che si teme è la definitiva assunzione, da parte
del movimento, della centralità della contraddizione
capitale/lavoro, l'ancorarsi del rifiuto dello stato
delle cose al concreto dispiegarsi della lotta di
classe.
In sostanza, ci si preoccupa del possibile passaggio
del movimento o di una cospicua parte di esso, da una
posizione genericamente antiliberista ad un'altra
legata alla prospettiva del superamento del
capitalismo. Certo, si tratta di un esito non scontato
per un movimento che a Firenze, almeno nelle sue
componenti organizzate, discuteva del destino del
"Vecchio continente" in un'ottica prettamente
riformista, auspicandone l'evolversi nella direzione
di un'Europa sociale e dei diritti.
Ma al di là degli obiettivi perseguiti dai "dirigenti"
del Social Forum, vi è anche la dinamica reale del
conflitto che, qualora andasse a radicalizzarsi,
sospingerebbe il movimento verso posizioni più
avanzate. Il rischio c'è e si lega alla presenza nel
movimento stesso di componenti classiste. Lorsignori
lo sanno, d'altra parte. Per questo ricorrono alla
forza di cui dispongono gli organi repressivi dello
Stato. Lo hanno già fatto a Genova nel 2001. In quel
contesto la ferocia inusitata delle forze dell'ordine
non fu nè il portato di un governo dalla vocazione
fortemente autoritaria nè la conseguenza diretta delle
cosiddette provocazioni di Black Bloc.
Essa, anticipata dalle efferatezze del marzo
napoletano e dagli spari nella socialdemocratica
Goteborg, fu l'espressione di una precisa strategia.
Quella della controrivoluzione preventiva. Da parte
dello Stato, in sostanza, si trattava e si tratta di
impedire qualsiasi avanzamento del conflitto, di
prevenire l'ipotesi di una ricomposizione tra settori
sociali sfruttati. Un'ipotesi già prefigurata nelle
stesse piazze gremite, primo momento di incontro tra
soggetti che -spersi nel territorio metropolitano o
nei mille rivoli in cui si svolge la produzione delle
merci- poche occasioni hanno per comunicare tra di
loro.
E' di fronte al configurarsi di tale possibilità che
lo Stato esercita quello che Max Weber definisce il
"monopolio dell'uso legittimo della forza". Proprio il
sociologo tedesco, osservando lo svolgersi della prima
guerra mondiale e il connesso fenomeno della
coscrizione obbligatoria, arrivò a vedere nel potere
di disporre totalmente della vita dei propri cittadini
-al di là di qualsiasi habeas corpus e tutela
individuale- un tratto saliente dello Stato
capitalistico contemporaneo.
Il normale funzionamento del diritto, infatti, è
tipico di fasi a bassa intensità conflittuale, fasi
nelle quali predomina il tentativo di coptare e di
istituzionalizzare i movimenti sociali; laddove
subentra lo scontro sociale aperto,o vi è la
possibilità che esso si profili all'orizzonte, subito
si ricorre a quella che, sulla scia di Johannes
Agnoli, può esser considerata per lo Stato l'ultima
ratio, cioè alla repressione.
Una repressione che -nell'interesse del sistema nel
suo complesso- può anche spingersi sino alla
sospensione temporanea del cosiddetto Stato di
diritto.
Così è stato con l'omicidio di Carlo Giuliani. Così è
stato alla Diaz.
Così, ancora, è per tutte le montature e le
persecuzioni giudiziarie che segnano il cammino del
movimento.
Questo bisogna ribadire, oggi, di fronte allo
scatenarsi di una autentica recrudescenza repressiva
nei confronti di chi non si riconosce nell'esistente.
Altro che prendersela con i Black Bloc! Su questo
fenomeno, da parte nostra, ci limitiamo a sottolineare
che esso è coessenziale all'attuale movimento sin
dalla sua genesi. Seattle, primo manifestarsi
dell'ondata contestativa che stiamo vivendo, non ha
forse visto i Black Bloc colpire di continuo obiettivi
simbolici del capitale?
Ma, a parte i Black Bloc, che sono -per così dire- un
"fenomeno d'esportazione", nato in altri contesti
culturali, rispetto a quanto avvenuto a Genova nel
2001 c'è un'altra cosa da annotare. E cioè il fatto
che in migliaia, con determinazione, hanno risposto
alla violenza delle forze dell'ordine. Non stiamo
certo parlando della maggioranza dei manifestanti, ma
di una loro componente rilevante e significativa. Una
componente che, nel sostenere lo scontro, nel porsi il
problema non solo dell'autodifesa ma anche dell'uso
della forza nel suo complesso, ha fatto rivivere una
precisa tradizione, che ha segnato la storia dei
movimenti in Italia.
Si pensi alla stessa Genova del luglio '60, laddove
molti giovani espressero con forza il proprio rifiuto
non solo del fascismo, ma anche -istintivamente- del
riformismo che di lì a poco si sarebbe fatto soluzione
di governo.
E si pensi ancora a quanto la prassi dell'azione
diretta sia stata elemento fondativo, in questo paese,
della stessa idea di antagonismo. Ora, se davvero
vogliamo impedire che avanzi il revisionismo su Genova
2001, dobbiamo evitare di elidere/eludere la pagina
scritta da migliaia di giovani spesso provenienti dal
proletariato metropolitano, che -nell'esprimere in
modo immediato la propria rabbia- hanno riproposto una
prassi che fa parte del nostro "patrimonio genetico".
La scadenza di Genova del 2001, quindi, ha
implicazioni enormi, che spiegano il costante
tentativo di modificarne il senso da parte della
magistratura e della stampa ufficiale. Implicazioni
che attengono alla identità collettiva di chi lotta
contro lo Status Quo.
Certo, le nostre tradizioni possono e debbono essere
messe in discussione senza reticenza alcuna, ma ciò
non si può tradurre nella loro liquidazione, al fine
di costruirsi un'immagine più consona ai tempi
attuali.
E qui ci leghiamo alla questione centrale, concernente
il comportamento da tenere di fronte alla
controrivoluzione preventiva. Rispetto al quale va
precisato che è sbagliato pensare di salvarsi
ammorbidendo i toni ogni qualvolta il movimento si
ritrovi sotto tiro.
L'eventuale spinta a "riposizionarsi" dando di sè
un'immagine più rassicurante può ottenere come
risultato solo la spaccatura verticale del movimento,
l'isolamento di coloro che scelgono di non mitigare i
propri contenuti. Ma non porta ad essere risparmiati
da successive tornate repressive. Decide lo Stato,
d'altronde, cosa è compatibile e cosa no e la sua
richiesta di lealtà alle istituzioni può tradursi in
continue prove cui sottoporre il movimento. "Gli esami
non finiscono mai" e nemmeno, in una fase come
l'attuale, la spinta a sopprimere qualsiasi istanza
conflittuale.
Perciò, di fronte agli accadimenti repressivi, bisogna
stare attenti. Noi adesso siamo vicini ai Cobas,
destinatari di un attacco forsennato da parte della
magistratura e potenziali portatori di un'istanza di
classe in seno al movimento. Ma dobbiamo esserlo nei
confronti di chiunque in questa fase sia colpito da
provvedimenti giudiziari, si tratti -per citare
esperienze lontanissime tra di loro- dei
disobbedienti, di Iniziativa Comunista o degli
anarco-insurrezionalisti.
Ovviamente, la controrivoluzione preventiva si ferma
qualora si abbiano i rapporti di forza in proprio
favore nella società, col radicamento territoriale e
nei luoghi di lavoro. Ma già approcciarsi ad essa nel
modo sin qui delineato può renderci meno deboli.
"Corrispondenze Metropolitane" - Roma
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