[Cerchio] Fw: [libertari] Le agenzie di protezione sono già …

Delete this message

Reply to this message
Autor: clochard
Data:  
Assunto: [Cerchio] Fw: [libertari] Le agenzie di protezione sono già pronte
Nn volermene, Volin, se considero il tuo testo molto stimolante e
addirittura formativo x 1 + vasta platea di lettori



----- Original Message -----
From: "Volin" <volin@???>
To: <libertari@???>
Sent: Saturday, January 04, 2003 11:54 AM
Subject: [libertari] Le agenzie di protezione sono già pronte



Caro Magius, posto per intero l'articolo che hai linkato col titolo
"Caramba ... che sorpresa", che collega due temi presenti attualmenti sulla
lista e mi pare essere un riassunto efficace di un'importante elemento sul
tema della guerra non finita nel '45, proseguita come guerra fredda (in
particolare come guerra civile dagli anni 70) e rilanciata alla grande nel
2001.
Da una parte profila l'evoluzione di una struttura che si candida
magnificamente a diventare una di queste "agenzie di protezione" di cui si
discute minuziosamente in lista, laddove per il mercantilismo lo Stato
diventi una giacchetta talmente stretta da essere inutilizzabile - tra
l'altro, la fedeltà nei secoli è uno degli argomenti più classici ed
efficaci e non sarà difficile spezzettarla in tanti piccoli buoni acquisto.
Dall'altra può essere un utile cartina di tornasole per l'attività di chi
in questo momento si appella, con qualche risorsa a disposizione, al
diritto e all'opinione pubblica contro questi "professionisti della
violenza legittima" - quante altre denunce come quella del Vinciguerra sono
state fatte alla procura della repubblica? Ed almeno questa qui, sarà
supportata da chi ne ha i mezzi e spera nella magistratura italiota?
Oltretutto è molto interessante l'indicazione - per nulla marginale - della
differenza e distanza fra i neofascisti e quell'evoluzione del Movimento
Sociale che attualmente partecipa al governo italiota.
v


Neofascisti? No, carabinieri

di Vincenzo Vinciguerra

La sinistra diessina ha cautamente sollevato il problema rappresentato
dalla presenza di Giancarlo Fini, segretario di Alleanza nazionale e vice
presidente del Consiglio, nella sede del Comando provinciale dei
carabinieri di Genova mentre infuriavano nelle strade della città gli
scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti anti-globalizzazione.
Fini non era solo: ben quattro parlamentari del suo partito erano
installati nella sala operativa dei carabinieri di Genova, evidentemente
per seguire in diretta gli avvenimenti ed incitare i militi dell'Arma
'benemerita' a compiere il loro 'dovere' di reprimere la rivolta
anti-globalizzazione.

Ipocrita lo stupore di una certa sinistra nell'assistere all'ostentato
sostegno offerto da un partito di governo alla sola Arma dei carabinieri.
Fasulla meraviglia viene espressa in un articolo de "La Repubblica" che,
sotto il titolo "Tra An e gli uomini in divisa un feeling che parte da
lontano", inizia il racconto di questo rapporto dal 1999! Cosa dice il
quotidiano borghese del miliardario Eugenio Scalfari e del cognato di
Gianni Agnelli, che dal 1976 ha sostenuto il Partito comunista italiano,
poi Pds e infine Ds? Ci informa che Filippo Ascierto, deputato di An, è un
sottufficiale dei carabinieri; che il senatore Mario Palombo, sempre di An,
è un ex generale dei carabinieri; che, infine, il generale dei carabinieri
Clemente Gasparri è fratello dell'esponente di An Maurizio Gasparri, oggi
ministro delle Comunicazioni. Troppo poco per giustificare gesti gravissimi
come quelli compiuti da Fini e dai suoi colleghi a Genova, con la loro
presenza nei comandi dei carabinieri per fornire una copertura politica
alla repressione condotta, con l'usuale durezza, dagli uomini dell'Arma.

La verità che il miliardario Eugenio Scalfari ed il cognato dell'avvocato
Agnelli, Carlo Caracciolo, hanno sempre tenuta accuratamente occultata ai
loro lettori in linea con la politica del silenzio e della disinformazione
seguita dalla sinistra italiana borghese, comunista e perfino antagonista,
è un'altra, che affonda le radici negli anni fra il 1943 ed il 1945.

Si chiamava Giuseppe Polosa, capitano dei carabinieri, fedele al Regno del
sud, subalterno del maresciallo d'Italia Pietro Badoglio e,
contemporaneamente, del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani, ministro
della Difesa della Rsi e comandante in capo dell'esercito di Salò. Polosa
difatti era distaccato presso il Quartiere generale di Graziani e, in un
secondo tempo, si occupò di mantenere i rapporti con Junio Valerio
Borghese, comandante della Decima Mas. Finita la guerra, ovviamente, Polosa
proseguì la sua carriera nell'Arma divenuta repubblicana senza essere
sottoposto ad alcuna inchiesta giudiziaria. E' solo un esempio, su migliaia
che se ne potrebbero portare.
Se i fascisti richiedevano a Mussolini lo scioglimento dei carabinieri
fedeli al re; se ad essi attribuivano l'assassinio di Ettore Muti nella
pineta di Fregene; se diverse migliaia di militi venivano deportati in
Germania con l'autorizzazione del duce, altri carabinieri continuavano ad
operare all'interno della Rsi, assumendo posizioni di rilievo nella Guardia
nazionale repubblicana e dirigendo il Servizio informazioni difesa (Sid)
della Rsi, in obbedienza a direttive precise impartite dal Comando generale
installato al sud, con l'assenso riservato dei vertici militari della
Repubblica sociale italiana rappresentati da Rodolfo Graziani.

Cessate le ostilità, i carabinieri raccolgono i frutti del doppio gioco
condotto nell'Italia repubblicana, raccattando nelle campagne e nelle città
tutti quei neofascisti che avevano aderito alla Rsi perché non avevano
avuto altra alternativa (anche per andare in montagna con i partigiani ci
vuole coraggio), per ragioni emotive e non ideologiche, per opportunismo,
non per scelta di campo. Tutti costoro, per forza di cose, identificavano
la Rsi non nella figura di Benito Mussolini e tantomeno in quella
dell'ultimo segretario del Pfr Alessandro Pavolini, ma in quella del
maresciallo Rodolfo Graziani, il 'soldato' che aveva mantenuto 'apolitiche'
le forze militari della Rsi e che aveva aderito alla repubblica di Salò per
'spirito di sacrificio' e sottrarre l'Italia centro- settentrionale alla
vendetta tedesca. Sono i 'neofascisti della Resistenza tricolore', concetto
che viene affermato negli ambienti militari, per rivendicare il merito di
aver aderito per sabotare lo sforzo della Rsi e del suo alleato germanico,
'proteggendo' la popolazione civile esposta, invece, alle rappresaglie
dagli attacchi che i partigiani comunisti (la resistenza rossa) conducevano
contro i reparti fascisti e tedeschi.

La nascita del Movimento sociale italiano, nel dicembre 1946, rappresenta
la concretizzazione del concetto di 'resistenza tricolore' che viene esteso
a tutti coloro che hanno combattuto 'per l'Italia', al nord come al sud,
nei reparti regolari delle forze armate e nelle bande partigiane autonome
od anticomuniste. Uno l'obiettivo imposto ai fondatori del Msi dal
Vaticano, Democrazia cristiana, servizi segreti alleati ed italiani,
ministero dell'Interno e carabinieri: unire in un soggetto politico ma non
partitico, in un movimento di opinione i combattenti dell'una e dell'altra
parte, elevando a propri simboli i soldati apolitici rappresentati da
Rodolfo Graziani e Junio Valerio Borghese. La ottusa e cieca propaganda
della sinistra che si affretta ad identificare il Msi come la riedizione
del Partito fascista repubblicano, favorisce la nascita di un equivoco,
alimentato strumentalmente dalla stessa dirigenza missina, che finirà solo
nel 1994, trasformando sul piano mediatico un gruppo di servitori dei
poteri forti dello Stato in un manipolo di fascisti fanatici votati alla
rivincita. Saranno migliaia i giovani che, incolpevolmente, cadranno in
questo equivoco e aderiranno al Movimento sociale italiano convinti di
indossare la camicia nera per ritrovarsi, viceversa, con la divisa del
carabiniere.

I rapporti fra Movimento sociale italiano e carabinieri si rafforzano via
via che viene alimentato il 'pericolo comunista' da parte americana e
vaticana. L'inesistente pericolo rosso comporta la creazione di solide e
segrete strutture di difesa dello Stato e del regime, all'interno delle
quali il Movimento sociale ha un ruolo primario come riserva di uomini da
utilizzare in caso di necessità. Saranno i carabinieri a creare la prima
struttura segreta composta da civili inquadrati sotto il loro comando, che
farà la sua prima - e ancora oggi negata- esercitazione nel corso delle
elezioni politiche del 1948. Saranno le forze armate ed in particolare i
carabinieri a distribuire armi e bombe a mano, fucili e mitragliatrici ai
'neofascisti' del Movimento sociale il 18 aprile 1948. Finita l'emergenza,
le armi saranno ritirate e conservate nelle caserme dell'Arma o,
addirittura, nelle case dei sottufficiali per essere redistribuite il più
velocemente possibile in caso di necessità. La rete di resistenza
anticomunista dei carabinieri, presente su tutto il territorio nazionale,
forte di migliaia di uomini, limiterà la propria attività per tutti gli
anni Cinquanta a compiti informativi. A partire dagli anni Sessanta vi è
una pagina intonsa, relativa al ruolo ricoperto dall'Arma della 'Gladio in
alamari', nella strategia della tensione. Perché nessuno, politico,
magistrato, giornalista, storico ha avuto il coraggio di leggerla
nonostante le innumerevoli prove che si sono accumulate nel tempo a carico
della 'Benemerita' e del suo Comando generale. Eppure, basta scorrere gli
atti che una riottosa e recalcitrante magistratura ha dovuto registrare per
rendersi conto che non c'è evento sanguinoso in Italia in cui, insieme ai
neofascisti, non appaiono ufficiali e sottufficiali dei carabinieri.

Nella capitale delle stragi, in questa Milano insanguinata, i rapporti fra
la dirigenza missina e il comando della divisione carabinieri 'Pastrengo'
sono consacrati in migliaia di pagine processuali, contenenti testimonianze
anche interne all'Arma. Lo stesso Giancarlo Rognoni, condannato per la
strage mancata del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma ed ora per quella di
piazza Fontana, era assiduo frequentatore della caserma di via Moscova.
Carlo Maria Maggi poteva dare ai suoi fidi l'indirizzo di una caserma dei
carabinieri di Mestre nella quale rifugiarsi in caso di pericolo. Il
documento dei servizi di sicurezza greci del 15 maggio 1969 fa riferimento
al ruolo della 'gendarmeria' italiana nella strategia che porterà poi alla
strage della Banca dell'agricoltura, dove per 'gendarmeria' s'intende
proprio l'Arma dei carabinieri. E fondamentale sarà il ruolo dei
carabinieri nel tentato 'golpe' del 7/8 dicembre 1970, fatto fallire da
Giorgio Almirante per gelosia nei confronti di Junio Valerio Borghese.
Tutti fatti ai quali si potrà continuare ad opporre silenzio e reticenza,
mai smentite.
L'Arma che per antonomasia si continua a chiamare 'benemerita' è stata la
sola ad avere per dieci anni, dal luglio 1967 a quello del 1977, una
continuità di comando nella persona del generale Arnaldo Ferrara, capo di
Stato maggiore dell'Arma. Nominato a questa carica con il grado di
colonnello, Ferrara, fratello di un deputato repubblicano, israelita,
diverrà generale di corpo d'armata senza mai muoversi dal suo posto, in
spregio ad ogni regolamento militare che esige un periodo di comando
operativo ad ogni passaggio di grado. Il mistero di questa permanenza
decennale al comando effettivo dei carabinieri, di questa carriera anomala
da parte di Arnaldo Ferrara rimane ancora oggi tale. Nessuno ha mai inteso
approfondire l'argomento. Nessuno ha mai osato chiedere spiegazioni ai
ministri della Difesa, ai presidenti del Consiglio, ai capi di Stato
maggiore dell'Esercito e della Difesa, o allo stesso interessato. Un muro
di silenzio è stato eretto da tutti, nessuno escluso, politici di destra,
di centro e di sinistra, compreso 'Manifesto' ecc. attorno a quest'uomo che
la magistratura non ha mai osato interrogare, sia pure come testimone,
perché venisse chiarito come mai si è ritenuto di dover dare all'Arma dei
carabinieri nel periodo più sanguinoso della storia recente una unicità di
comando per l'arco di dieci anni concentrata nelle sole mani di un
colonnello che ha asceso, per meriti sconosciuti, tutti i gradi della
carriera militare senza mai muoversi dalla sua poltrona di capo di Stato
maggiore dell'Arma 'benemerita'. Nessuno ha osato chiedere ad Arnaldo
Ferrara perché tanti ufficiali e sottufficiali dei carabinieri sono
rimasti, a vario titolo, coinvolti in episodi 'eversivi' che hanno avuto
come protagonisti 'eversori' di destra.

Al solo che da 17 anni senza interruzione pone questo quesito, si è
risposto con un linciaggio morale che vede in prima fila magistrati,
politici e giornalisti di ogni coloritura politica.

La mancata risposta alle domande relative alla struttura segreta dei
carabinieri, operante in Italia fin dagli anni dell'immediato dopoguerra;
il rifiuto di considerare possibile l'intervento politico dell'Arma, con
metodi militari ed operazioni 'belliche' al fianco delle strutture dei
servizi segreti (vedi 'Gladio') del ministero degli Interni, della Nato,
degli Usa e di Israele ha determinato la cancellazione nella memoria
collettiva delle responsabilità dell'Arma nella strategia della tensione.

Invece di uscire ridimensionata dall'accertamento della verità, l'Arma dei
carabinieri è stata rafforzata dagli ex comunisti che l'hanno elevata a
quarta forza armata dello Stato. Le responsabilità gravissime dei D'Alema,
Veltroni, Rutelli ecc., ora improvvisatisi sagrestani e carabinieri di
complemento, nella cancellazione della verità sulla strategia della
tensione e sul ruolo degli uomini e degli apparati dello Stato, primi i
carabinieri, ha consentito agli uomini del Msi, poi Alleanza nazionale, di
non rispondere a loro volta di quanto hanno fatto, o fatto o lasciato fare,
negli anni Sessanta e Settanta nell'ambito della strategia della
stabilizzazione politica da ottenere mediante la destabilizzazione
dell'ordine pubblico. La verità si poteva -e si potrebbe ancora-
raggiungere indagando sul conto dell'Arma per scoprire la sua struttura
segreta nella quale il Movimento sociale ha avuto magna pars; o viceversa,
svolgendo finalmente accertamenti sui vertici del Msi per giungere fino al
Comando generale dell'Arma dei carabinieri. Non è mai stato fatto, nessuno
intende farlo oggi e, se non costretto dalla pressione dell'opinione
pubblica, vorrà farlo in futuro.

Il risultato della complicità fra la classe politica e le forze di
sicurezza, di cui il Msi-Alleanza nazionale e i carabinieri sono comunque
una parte, ha prodotto la prima tragedia degli anni 2000, con l'uccisione
di Carlo Giuliani. Era dal 7 gennaio 1978 che i carabinieri non uccidevano
un manifestante. Quel giorno lo fecero a Roma, durante una manifestazione
di giovani del Msi: un capitano dei carabinieri aprì il fuoco e uccise
Stefano Recchioni. Segretario giovanile del Msi era Gianfranco Fini. Né lui
né Almirante chiesero giustizia per la giovane vita stroncata. Il capitano
venne trasferito e la vicenda finì nel dimenticatoio. Se mancò la pietà per
uno dei suoi, potrebbe mai Giancarlo Fini avvertire un sentimento di
rammarico per Carlo Giuliani? Sempre e soltanto con i carabinieri, il
'piantone onorario' divenuto vice presidente del Consiglio. si toglie la
soddisfazione di sedersi al tavolo con i generali e colonnelli dell'Arma
padrona, mentre i suoi colleghi si installano nella sala operativa per
seguire in diretta gli interventi repressivi compiuti dagli amati militi
della 'Benemerita'.
E' la tragedia di un paese senza libertà, senza verità e senza giustizia
che prosegue senza che nessuno abbia avuto fino a questo momento la
lucidità ed il coraggio di comprendere che si può bloccare individuando le
responsabilità di quanti l'hanno avviata in anni lontani, eppure sempre
presenti perché l'impunità stimola l'arroganza e produce l'inebriante
sensazione di poter fare qualsiasi cosa ricevendo in cambio il premio del
consenso elettorale, dell'avanzamento di grado, del maggior potere come
movimenti politici e corpi armati dello Stato.

Se oggi al governo del Paese, votato dalla maggioranza degli italiani,
abbiamo un uomo che aderì alla P2 e condannato per corruzione, affiancato
da quel Msi- Alleanza nazionale che vanta fra i suoi nomi illustri quelli
del generale Giovanni De Lorenzo, direttore del Sifar e comandante generale
dell'Arma dei carabinieri, del generale Vito Miceli, direttore del Sid, del
generale Luigi Ramponi (vivente), direttore del Sismi, lo dobbiamo anche a
quel Partito comunista che ha creato le premesse per la loro vittoria; così
come ha predisposto i piani per difendere il G8 a Genova, e che oggi finge
di indignarsi e procede a plateali quanto simboliche proteste contro i
'fascisti' al governo e un presidente del Consiglio pluricondannato e
plurimputato. Salvo poi tradirsi esprimendo a Pier Ferdinando Casini,
giustamente contestato a Bologna nella ricorrenza della strage di Stato del
2 agosto 1980, la propria solidarietà per bocca di Massimo D'Alema.

Il generale Guglielmo Cerica, comandante generale dei carabinieri, l'8
settembre scappò, travestito con una tuta da meccanico nella macchina di
Rodolfo Graziani, capo dell'esercito di Salò. Un gesto di fraternità che,
mutatis mutandis, si è ripetuto fino ad oggi fra carabinieri effettivi e
carabinieri ausiliari, 'neofascisti' prima ed oggi uomini della 'destra
democratica' italiana. A Genova, il padre onorario di Gianfranco Fini,
Giorgio Almirante e tutta la banda del Msi scappò nel luglio 1960,
lasciando i carabinieri a sbrigarsela da soli con la folla inferocita.
Quarantuno anni più tardi i missini sono tornati, nascosti dietro 20 mila
poliziotti, carabinieri e finanzieri per prendersi una rivincita che è
mancata, nonostante il massacro dei manifestanti fermati e la uccisione di
Carlo Giuliani. E non sarà Giancarlo Fini ad avere la dignità di assumersi
la responsabilità politica di quanto fatto da carabinieri e polizia a
Genova, come sarebbe giusto per un vice presidente del Consiglio che
s'installa nella sede del Comando provinciale dei carabinieri durante due
giornate di disordini. Come sempre, saranno i carabinieri a proteggere Fini
ed i suoi presentandoli come commensali ed ospiti dell'Arma. In fondo,
nell'Italia dei carabinieri, nonostante le apparenze i subalterni non sono
divenuti padroni.Purtroppo, sempre subalterno sarà anche il ruolo
dell'Italia fino a quando non troverà la forza e la determinazione di
liberarsi di questa classe dirigente e dei suoi difensori armati. E lo può
fare utilizzando le sole armi della verità e della giustizia. Avremo allora
un'Italia di uomini liberi, la stessa per cui sono morti in tanti, compreso
Carlo Giuliani.

Opera, 4 agosto 2001

Postfazione. Una denuncia al ministro

Sulla base della lettura dei giornali successivi agli eventi di Genova,
Vincenzo Vinciguerra ha indirizzato una denuncia alla Procura della
repubblica genovese a carico del ministro di Giustizia Castelli, sulla base
della premessa che si riporta di seguito:

" Il sottoscritto Vincenzo Vinciguerra, nato a Catania il 3.1.1949, allo
stato ristretto presso la C.R. di Opera-Milano, rilevato che:

-in data 26 luglio 2001, sul quotidiano "La Repubblica", sotto il titolo
"Bolzaneto, la notte dei pestaggi", appariva un articolo a firma di Marco
Preve che riportava le dichiarazioni rese da un agente in forza al Reparto
Mobile di stanza nella caserma della polizia di Stato di Bolzaneto, che
accusava i secondini del Gom alle dipendenze del ministero della Giustizia
di aver eseguito selvaggi e vergognosi pestaggi di ragazzi e ragazze
italiani e stranieri, fermati per le strade di Genova dai reparti della
Celere e dai carabinieri;

-rilevato che, il giorno successivo, 27 luglio 2001, sempre sul quotidiano
"La Repubblica", nell'articolo intitolato "A Bolzaneto era la Celere a
pestare i prigionieri", a firma di Claudia Fusani, si riporta l'intervista
a tale Paolo Tolomeo, secondino in forza al Gom, che accusa a sua volta gli
agenti di Ps di aver eseguito selvaggi e brutali pestaggi dei fermati nella
caserma di Bolzaneto;

-rilevato che nel pomeriggio del 26 luglio 2001, Roberto Castelli, attuale
titolare del dicastero di Grazia e giustizia rilevava compiaciuto la sua
presenza all'interno della caserma di Bolzaneto, dalle ore 24.00 alle ore
2.00 di domenica 22 luglio 2001;

-rilevato che il Castelli ha sentito il bisogno di rivelare questo
gravissimo particolare -della sua presenza in un luogo in cui erano in
corso brutali pestaggi di persone fermate a Genova nelle ore antecedenti
alla mezzanotte del 22 luglio 2001- solo a seguito delle accuse lanciate ai
secondini dei Gom da un agente di polizia sulle pagine di "Repubblica";

-rilevato che le accuse lanciate da un secondino dei Gom, sempre sulle
pagine di "Repubblica", contro gli agenti di Ps attestano la veridicità del
selvaggio e indegno trattamento riservato ai fermati o da parte degli uni o
da parte degli altri;

-rilevato che, in ogni caso, è pacificamente da escludere che../il/
ministro della Giustizia, Roberto Castelli, non sia stato informato dal
personale alle sue dipendenze di quanto stava accadendo all'interno della
caserma dove -il ministro- alloggiava dalle ore 24.00 alle 2.00 del 22
luglio 2001;

-rilevato che l'informazione da parte dei secondini al .ministro era
doverosa, visto che i secondini si accingevano a tradurre in vari istituti
carcerari persone ridotte in stato pietoso dai pestaggi subiti, taluni con
lesioni gravi e gravissime, ammesso che il Castelli nulla abbia
personalmente udito e visto."

Sulla base della premessa, Vinciguerra ipotizza la configurazione di
diversi reati a carico del ministro, di tipo omissivo (mancata osservanza
del dovere di rapporto all'autorità giudiziaria) e commissivo
(favoreggiamento, concorso in lesioni) inerenti ai fatti enunciati in
premessa. Vinciguerra ci ha mandato il testo integrale della denuncia
chiedendone la pubblicizzazione, chiedendosi se altri vogliano, mediante
denunce circostanziate, risalire alle responsabilità politiche di più alto
livello, oltre quelle dei singoli agenti coinvolti nei pestaggi.